Alberto Nerazzini: c’è molto lavoro per il giornalismo d’inchiesta fra Rimini e San Marino

Alberto Nerazzini: c’è molto lavoro per il giornalismo d’inchiesta fra Rimini e San Marino

Cosa c'è dietro un’economia che sembra pulita. E cosa succede sul Titano? Il giornalista di Report traccia un bilancio di Dig Awards e lancia qualche sasso nello stagno della Riviera e della piccola Repubblica.

Gli occhi azzurri ti tengono sotto scacco, seduti ad un bar dopo l’ultimo seminario dei Dig Awards di Riccione. Tema del seminario, il racconto della criminalità organizzata tra inchiesta giudiziaria e indagine giornalistica. Gli occhi sono quelli di Alberto Nerazzini, giornalista d’inchiesta e fondatore dell’agenzia Dersu, con cui si tirano le somme del festival di quest’anno e si fa una panoramica dei suoi temi forti: la mafia e il giornalismo investigativo. Nerazzini, scuola Santoro e poi firma di Report, ha tra i suoi maggiori reportage La mafia è bianca, con al centro della vicenda l’allora presidente della Regione Sicilia Salvatore Cuffaro.

Se nel passato ha presentato i suoi lavori all’allora premio Ilaria Alpi, ora è a lui, che siede nella giuria dei Dig Awards, che si chiede di valutare questa edizione.
“Questa edizione la valuto l’ennesimo passo in avanti perché io già conoscevo l’esperienza del premio Ilaria Alpi e sono stato tra quelli che hanno cercato, sulla spinta di Sara Paci e Matteo Scanni, di non buttare via il premio Ilaria Alpi. E’ stato durissimo, difficilissimo partire con mezzi e risorse ridotti. Questa edizione ha fatto vedere come il Dig rischi di diventare il festival più interessante e nuovo nel panorama europeo per quanto riguarda il giornalismo investigativo”.

Come giurato hai una menzione speciale per uno dei lavori qui presentati?
“Sono abbastanza contento dei premi assegnati…”

Un nome in particolare?
“Secondo me Do not resist, che ha vinto nella categoria Reportage Long, è un lavoro incredibile e anche di qualità cinematografica; un grandissimo lavoro. Lo stesso vincitore dell’Investigative Long (Hooligan Sparrow, ndr) è un lavoro che suggerisco a tutti di guardare perché è veramente originale”.

Il prossimo passo del Dig quale dev’essere a tuo parere?
“Il Dig deve continuare così, deve continuare a portare qualità; a parlare all’estero, a parlare tra noi giornalisti, delle poche realtà che ci sono di giornalismo investigativo. Quando vedi un grande giornalista come Jeremy Scahill (il presidente di giuria, ndr) che arriva e dice “questo festival nella sua indipendenza è qualcosa di unico”, beh, devi continuare su questa strada. Ha bisogno di avere stabilità, di invitare più persone possibile e continuare a proporre contenuti di qualità”.

Perché dopo anni di Rai cambiare e fondare l’agenzia Dersu?
“Pur avendo fondato Dersu un anno e mezzo fa, lo scorso maggio sono andato in onda con una inchiesta in una puntata di Report. Non voglio cambiare, voglio evitare di trovarmi sempre più lontano dall’inchiesta. Dersu l’ho fatta come agenzia che deve iniziare pian piano a posizionarsi e ad avere le forze per muoversi. L’ho fatta proprio per poter continuare a fare inchieste perché quello che sta succedendo in Rai è evidente, non è solo spazzar via l’inchiesta, cosa già avvenuta in passato, ma spazzar via proprio l’informazione”.

Hai trattato la mafia in varie inchieste, anche premiate. Nella cronaca riminese i fatti legati alla mafia tornano ma in maniera carsica, senza mai una presa di coscienza definitiva. Cosa manca perché possa esserci?
“Manca la rappresentazione, la descrizione del quadro completo. Questa è una responsabilità non solo della politica ma anche dei giornalisti. Secondo me non siamo riusciti ancora a far capire qual è il quadro completo, cosa c’è dietro un’economia che sembra pulita, il tema del riciclaggio, del reinvestimento da parte di prestanome legati alla criminalità organizzata. Cosa comporta tutto questo? Occorre lavorare per farlo capire meglio”.

Spesso quando si parla di mafia in Riviera viene fuori la Repubblica di San Marino, nelle tue inchieste hai avuto modo d’incontrarla?
“La Repubblica di San Marino tanto. Faccio solo un esempio: quello di Vincenzo Barbieri, quindi tutta la vicenda legata al Credito Sammarinese, che è stata raccontata ma non fino in fondo, probabilmente qualche anomalia per quanto riguarda chi ha pagato, rispetto ad altri, c’è stata. Poi su quello che sta succedendo a San Marino in questi mesi non c’è nessuno che da un punto di vista giornalistico ci sta lavorando. Questo è grave, e la responsabilità è anche mia perché ho informazioni, ho contatti. E’ una di quelle storie che andrebbe seguita”.

Polizia e magistratura sono alleati o piuttosto concorrenti del giornalismo d’inchiesta?
“Dipende, non sono né l’uno né l’altro. Fondamentalmente, tornando anche ai temi del seminario di oggi, a volte la stessa polizia giudiziaria non riesce a dialogare, a lavorare bene coi pm. Questo è un problema serio. Per tornare alla domanda, ultimamente non è una grande stagione per la magistratura italiana, per vari motivi: soprattutto squisitamente politici. Al tempo stesso non ho mai amato particolarmente il giornalismo che come unica fonte ha quella dell’attività giudiziaria”.

Forse uno dei problemi del giornalismo oggi è quello di abbracciare troppo presto la tesi dell’accusa senza andare oltre?
“Questo sì, ma quando c’è l’accusa. A volte proprio manca l’accusa. Dovrebbe essere magari un giornalista a mettere in fila certi fatti; e soprattutto il giornalista ha l’obbligo, il dovere deontologico, di raccontare anche ciò che non è penalmente rilevante in una vicenda giudiziaria; ha l’obbligo di sviluppare informazioni che non saranno o è stato difficile valutare come reati commessi ma che giornalisticamente è importante affrontare”.

C’è spazio per un giornalismo d’inchiesta che vada a smontare il lavoro malfatto della magistratura? Forse come il vincitore del Dig Pitch, Hunting the general, un tentativo di dimostrare come la persona in carcere accusata d’essere un importante trafficante di esseri umani sia in realtà la persona sbagliata…
“L’inchiesta vincitrice del Pitch ha un potenziale enorme, anche perché è universale il tema dell’innocente scambiato per colpevole, o l’innocente ingiustamente trattenuto. Non penso che sia necessario raccontare esclusivamente questo del nostro Paese, però vivere in maniera un po’ più laica, libera, il rapporto con le storie è un mandato che dobbiamo raccogliere noi giornalisti, perché non possiamo affidarci esclusivamente al lavoro delle procure”.

I media mainstream non è che forse abusano del termine mafia, utilizzandolo come etichetta, senza però spiegare cosa è realmente la mafia? Per esempio mi riferisco a Mafia Capitale, che è stata subito etichettata così quando poi ci sono stati 113 proscioglimenti.
“E’ una domanda importante, forse andrebbe parafrasata. Dietro al termine mafia s’è buttato solo l’aspetto comunemente riconoscibile del fenomeno mafioso. Si continua a parlare di colletti bianchi e di zona grigia nei libri, nei seminari, ma quanto questo, che è l’aspetto più rilevante del fenomeno mafioso, sia finito dentro le inchieste giudiziarie lo testimoniano i detenuti per reati finanziari che a fatica sono l’un per cento”.

Un’autocratica al giornalismo d’inchiesta italiano?
“Ne potrei fare tante. Sicuramente per troppo tempo, gran parte di noi s’è appoggiato alle inchieste che nascevano all’interno delle procure. Non abbiamo mai, seppure nel nostro Paese il giornalismo d’inchiesta sia sì combattivo ma piccolo, collaborato: non c’è condivisione dei documenti e delle informazioni. Se esce una notizia, anche importante, del giornalista della testata X le altre testate fanno finta che la notizia non ci sia perché l’ha data qualcun altro”.

Prossimo lavoro?
“Ne ho parlato nel seminario. Sto lavorando sui Caruana e le mafie nel mondo per quello che sono: straordinarie e pericolosissime organizzazioni finanziarie”.

Un’inchiesta tra quelle del Dig Pitch, quei lavori presentati ancora in fase di realizzazione, a cui ti piacerebbe lavorare?
“Tantissime: Hunting the general, che ha vinto; mi piacerebbe lavorare a Inside the agreement che è un progetto bello e con potenziale perché parla dell’accordo Marocco-Unione Europea sull’agricoltura. E anche se andrebbe sviluppato meglio m’è piaciuto il lavoro Inside Lehman Brothers, che racconta come oggi il meccanismo Lehman Brothers sia ancora in piedi e di come probabilmente tra qualche mese o qualche anno vivremo una crisi finanziaria ancor più pesante”. (FP)

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