Cocoricò, 15 anni fa una ricerca spiegava già tutto sulla “cattedrale” della dissociazione

Cocoricò, 15 anni fa una ricerca spiegava già tutto sulla “cattedrale” della dissociazione

“Mi sembra di essere in una cattedrale, davanti a me l’altare coi sacerdoti (i dj), intorno a me in pista i fedeli, sopra di me la cupola a piramide… mi sento stranamente attratto da questa realtà magnetica, da questo movimento, dalla musica martellante, dalle luci”. Pagine preziose per capire e un'intervista a Leonardo Montecchi, curatore della ricerca, che avanza anche concrete proposte realizzabili da subito: "drop in" e "stanze di decompressione" in tutte le discoteche. E dice: ridicolo che le istituzioni facciano la faccia feroce, occorre lavorare per ridurre il danno.

I libri in Italia si leggono poco. Figurarsi uno dal titolo Officine della dissociazione. Transiti metropolitani. Roba da super addetti ai lavori. Ma questore e ministro che intervengono a vario titolo sul Cocoricò, il secondo annunciando il pugno duro su scala nazionale, farebbero bene a leggerlo. E anche tutti coloro che di professione si occupano di informazione e in questi giorni vanno sentenziando sulla discoteca di Riccione, a partire da Beppe Severgnini. I giornali si sa come funzionano: passata la tempesta, l’argomento discoteca andrà in archivio fino a nuovo allarme. Ma lo Stato, le istituzioni, i commentatori informati sui fatti e, perché no, i genitori, le cosiddette “agenzie educative”, chi si occupa di salute e tanti altri, gli occhi su questa ricerca dovrebbero metterceli.

Pubblicata nel 2000, l’ha curata Leonardo Montecchi (nella foto), da decenni al Sert di Rimini, psichiatra, fondatore e direttore della scuola di prevenzione “J. Bleger” impegnata nella formazione degli operatori che operano sul campo. La ricerca ha coinvolto numerosi frequentatori del Cocoricò e di altre discoteche fra Rimini e Riccione (ma il volume contiene anche altro), con interviste e colloqui approfonditi. La “migrazione periodica notturna di giovani in cerca di discoteche”, come la chiama, è un fenomeno di massa. E questa semplice constatazione permette di capire subito che il “pugno duro” (che in Italia è una contraddizione in termini, figurarsi se a minacciarlo è il ministro che vorrebbe trasformare le discoteche in oratori un po’ più frizzantini) nei fenomeni di massa è, direbbe il Fantocci della corazzata Potemkin, “una cagata pazzesca”. Serve altro.

“Dai dati in nostro possesso possiamo pensare che i dispositivi messi in atto nei rave party e nelle discoteche come il Cocoricò siano delle vere e proprie officine della dissociazione”, si legge. Raccontano i giovani, tutti con meno di 20 anni, che ancor prima della discoteca, è l’ambiente della riviera romagnola che spinge a provare le droghe, in quanto “ambiente attrezzato tutto l’anno per il divertimento a tutti i costi“.
“La discoteca c’entra”, dice uno, “ma se non ci fosse troverei tanti altri posti per drogarmi o per bere…”.

“Al Cocco su 3000 persone, 2500 sono fatte, la musica del Cocco ti manda fuori anche se non hai preso niente, se vuoi riuscire a ballare quella musica per 4 ore devi calarti”. Qualcosa devi assumere. Il luogo è determinante per lo scatenarsi delle emozioni: “Una volta provata questo tipo di esperienza, difficilmente riesci a dimenticarla. Tutte le volte che torni al Cocoricò o in locali simili, ti fai trascinare dalla musica, dalle vibrazioni che escono dalle casse, dai laser che ti colpiscono agli occhi, dai ragazzi e dalle ragazze che ballano, dall’onda travolgente che quella massa danzante emana per tutta la durata della notte”, commentano i ricercatori. I “testimoni” dicono la loro anche sulla percentuale di “fatti” di altre importanti discoteche del riminese. Ma al Cocoricò “girano pastine e sono fatti dall’80 al 90%, qualche trip, niente coca, l’età va dai 15 ai 20 anni”. Commentano gli estensori della ricerca che le affermazioni degli intervistati non possono essere considerate oro colato e i dati presi come assoluti, anche perché “le percentuali riferite variano notevolmente a seconda della compagnia che i giovani frequentano”, ma “comunque anche i più tranquilli indicano in alcuni locali una presenza di persone drogate che supera il 50% dei clienti”.

Si arriva in discoteca spesso già pieni di alcol e una volta dentro si continua. “Molto spesso viene usato per sbloccarsi e da molti giovani è considerato alla stregua di tante altre droghe”.
“Io bevo e uso pasticche, a volte sto male, ma in genere ci si diverte, si sta benissimo, si fa amicizia meglio, si fanno cose che diversamente non si fanno”, spiega un ragazzo.

“Mi sembra di essere in una cattedrale, davanti a me l’altare coi sacerdoti (i dj, ndr), intorno a me in pista i fedeli, sopra di me la cupola a piramide… mi sento stranamente attratto da questa realtà magnetica, da questo movimento, dalla musica martellante, dalle luci”.

Leonardo Montecchi è su posizioni chiare da sempre in fatto di droga. E’ fra quelli che pensano che le politiche proibizioniste non hanno risolto il problema (è anche favorevole alla liberalizzazione della cannabis) e occorre lavorare in modo pragmatico per ridurre il danno e i rischi conseguenti all’assunzione di droghe. In che modo? “In Inghilterra e Olanda, ad esempio, nelle discoteche ci sono i cosiddetti “drop in”, spazi di informazione sulle sostanze, i loro effetti e rischi, e dove gli operatori sono in grado di mettere in atto alcuni interventi di primo soccorso”, dice a Rimini 2.0 Montecchi. Del tipo? “Nel caso dell’assunzione di ecstasy refrigerare la persona risulta molto importante. Molti non sanno che se hai assunto ecstasy è necessario bere molta acqua e non alcolici.
 Oppure il personale dei “drop in” è in grado di capire subito che bisogna attivare il soccorso sanitario. Anche in Italia e pure a Rimini, dove è attivo un progetto che si chiama “Circolando”, non mancano queste esperienze, ma non in modo capillare e sicuramente sarebbero da potenziare”.

Cosa pensa Leonardo Montecchi del provvedimento di chiusura e del giro di vite annunciato dal governo? “Della serie facimmo ‘a faccia feroce… In questo periodo mi viene in mente una canzone di Guccini: “Il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto, l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto…è un dio che è morto”. Si salvano l’anima chiudendo una discoteca. Ma così i giovani non assumono più l’ecstasy, ma stiamo scherzando? Anche la stampa ha molta responsabilità perché a seconda di come si descrive un fatto si può provocare un’onda di indignazione oppure di approfondimento, porsi degli interrogativi, cercare di capire davvero, chiedersi come mai accadono certe cose, cos’è la discoteca, la musica techno e così via”.

Eppure la vostra ricerca spiegava già praticamente tutto. “Fu un lavoro molto complesso e approfondito, durato cinque anni e svolto con collegamenti e collaborazioni a livello internazionale. A Rimini cominciavano ad arrivare persone che non erano più il classico eroinomane o cocainomane, ma che assumevano l’ecstasy, qualcosa di nuovo e tutto da da decifrare, per cui abbiamo cercato di capire, con un lavoro metodologico di osservazione partecipata, entrando in contatto coi giovani e molto altro”.

Le discoteche, sia per come sono strutturate e sia per la musica, le luci e tutto il resto, producono, come raccontano i ragazzi nella vostra ricerca, un effetto molto simile alla assunzione di droga. Può spiegarci cosa succede? “La ricerca approfondì anche questo aspetto con una esperienza che realizzammo in un centro sociale di Bologna. La sommatoria di musica, suoni, immagini, e un ballo che dura tutta la notte, provoca uno stato modificato della coscienza, tanto che non c’è bisogno di assumere sostanze. Quella sperimentazione si concluse proprio al Cocoricò, dove combinammo la musica gnaua, che è una musica della trance di una confraternita marocchina, con la techno. In certe discoteche come nei rave party avvengono proprio fenomeni di trance metropolitana. La differenza è che nelle confraternite come quella Gnaua gli adepti ad un certo punto entrano in trance, però di tipo ritualizzato e organizzato, cosa che invece non avviene nella trance metropolitana, dove invece mancano organizzazione e controllo con tutti i rischi conseguenti. Ballare la techno non è una malattia ma una risorsa e la modificazione della coscienza è un effetto della partecipazione all’esperienza, così come per chi corre la maratona o fa ciclismo senza doparsi”.

Se lei dovesse indicare soluzioni immediate, magari da applicare in tutte le discoteche della riviera la prossima estate, quali privilegerebbe? “Due sono fondamentali e una terza la considero molto importante: “drop in” all’interno di tutte le discoteche e “stanze di decompressione” caratterizzate da musica meno intensa, dove poter alleggerire il carico emotivo accumulato. La terza riguarda invece i dj: solitamente i referenti delle discoteche verso l’esterno (istituzioni, forze dell’ordine, ecc.) sono i proprietari, ma la figura centrale per quel che si svolge sulla pista è il dj. A mio parere è con loro che andrebbe fatto il lavoro maggiore perché sono loro l’anima della discoteca, sono loro che conducono il rituale e con loro sarebbe importantissimo stabilire una serie di comportamenti. Già riunire tutti i dj della riviera e ragionare insieme sarebbe una svolta. A Rimini non è mai stato fatto e credo da nessun’altra parte”.

Rimini promuove anche eventi di grande richiamo sui giovani, come la Molo Street Parade, che immagino attirino sostanze di ogni tipo. “Sono in contatto col prof. Schifano, docente e tossicologo che lavora a Londra col quale ho scambiato qualche opinione anche in occasione della recente Molo Street Parade. Mi ha detto che spesso a Rimini e in Riviera, anche grazie ad eventi di massa di carattere musicale, vengono diffuse sostanze nuove o ancora non ben classificate”

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