Crollano gli hotel annuali a Rimini, Palas ed “eventite” non fanno la differenza

Crollano gli hotel annuali a Rimini, Palas ed “eventite” non fanno la differenza

Nel lontano 1996 a Rimini c'erano 220 hotel annuali. Quasi vent'anni dopo se ne contano solo 34 in più. Con un "regresso" vistoso negli ultimi anni. Q

Nel lontano 1996 a Rimini c’erano 220 hotel annuali. Quasi vent’anni dopo se ne contano solo 34 in più. Con un “regresso” vistoso negli ultimi anni. Quelli che pubblica Rimini 2.0 sono i dati ufficiali (ottenuti dalla Provincia di Rimini) e lo scenario che dipingono fa riflettere da molti punti di vista, come scrive nel suo commento un esperto (teorico e pratico) in turismo qual è Gabriele Bucci.

1996

1996

2000

2000

2005

2005

2010

2010

2013

2013

2014

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Il calo è generalizzato e vale anche per le altre città di mare della provincia: Riccione, Cattolica, Bellaria, Misano. Ma è Rimini che merita di finire sotto la lente.
Il nuovo Palas, ci ha spiegato anche di recente il presidente di Rimini Fiera Lorenzo Cagnoni, avrebbe favorito riqualificazione e destagionalizzazione. I numeri non lo certificano. La “navicella” (costata più di 100 milioni di euro, è sempre bene ricordarlo) è stata inaugurata nell’ottobre del 2011. Nel 2010 le aperture annuali a Rimini erano 288, l’anno dopo sono scese a 283, nel 2012 a 280, nel 2013 un forte calo: 265. Quest’anno (dato aggiornato al 16 settembre) 254. Il picco positivo lo si è avuto nel 2005 con 300 strutture annuali poi è iniziata una discesa che non sembra arrestarsi. Negli ultimi 10 anni si sono “perse” 45 strutture ad apertura annuale.
Non vanno molto meglio le cose per Riccione – altra città che si è messa sul mercato del congressuale con un Palas nuovo fiammante, in questo caso inaugurato nel maggio del 2008 – anche se il calo è meno vistoso.
E’ venuto anche il momento di chiedersi dove stia portando la politica turistica dell’amministrazione comunale in tandem con le associazioni di categoria, che da tempo filano dritto rispetto ai voleri di Palazzo Garampi. La “eventite” del sindaco Gnassi cosa sta producendo in termini di crescita reale del turismo (vero, non quello del “casino e fuggi”) e della qualità dell’offerta? “Rimini ha già imboccato da tempo la strada della destagionalizzazione, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti”, ha dichiarato un mese fa il sindaco. Sotto gli occhi di tutti ci sono questi numeri. E cosa hanno prodotto quasi dieci anni di show di Capodanno con mamma Rai? Che ne è del tema della riqualificazione? Nel 2013 è scaduto il termine per l’adeguamento delle strutture, ad apertura annuale, alla normativa antincendio e anche questo ha influito, probabilmente, nel far cambiare idea ad alcuni albergatori, che hanno preferito la stagionalità. Ma pure questo è un certo segnale. Quale valore aggiunto hanno portato i Club di prodotto? Ecco, di tutto questo è venuto il momento di ragionare, fuggendo gli “spot” che sono diventati la cifra comunicativa della giunta comunale (c.m.).

Dalla destagionalizzazione alla ristagionalizzazione

di Gabriele Bucci

UN PROBLEMA ESTERNO.
La “grande illusione” della destagionalizzazione capace di produrre utilità marginali crescenti per le imprese e un nuovo ciclo di rilancio e rinnovamento del nostro sistema dell’ospitalità si frange contro la conclamata difficoltà dei “campioni” infrastrutturali che non sono in grado di pompare l’ossigeno delle presenze in maniera consistente e, soprattutto, continuativa.

Gabriele Bucci

Gabriele Bucci

Al di là delle presenze turistiche originate per propria brillante iniziativa, ogni struttura ricettiva si nutre, infatti, di ciò che il territorio produce in termini di accessibilità, attrattività, animazione ed eventi.
Non è una novità che la scelta della località dipende almeno al 70% da quello che succede fuori dal ricettivo.
In questo senso, manca ancora una politica turistica comunale in tale ambito, che non si limiti agli eventi estivi, per me troppo enfaticamente “pompati” rispetto al rapporto fra quanto costano e quanto producono (al netto dei turisti “di Pietracuta” come li chiama il Presidente Mussoni).
Ergo, se gli alberghi da annuali ritornano stagionali, c’è qualcosa che non funziona fuori, che non alimenta i flussi turistici necessari ad approvvigionare le strutture ricettive medesime.
A mio avviso, non viene ancora adeguatamente sviluppata, come punto qualificante di una moderna politica turistica, una efficace architettura organizzativa “di rete” che sappia integrare, su specifici mercati e/o segmenti turistici, tutte le componenti di una specifica offerta (sport, salute, benessere, eno-gastronomia, cultura, spettacolo, etc.) da quella ricettiva a quella extraricettiva, da quella territoriale a quella infrastrutturale.
Siamo famosi nel mondo per la nostra capacità organizzativa e potremo chiaramente farcela con successo. Ma risultano ostative a questo le poche ma ancora potenti ed influentissime rendite di posizione di quel coacervo di organizzazioni rappresentative ed imprenditoriali, consulenti, formatori ed esponenti del mondo economico e politico che su questi modelli hanno costruito le proprie carriere e fortune.
Il dato è evidente se si osservano i gruppi promo-commerciali esistenti che, non solo sono più o meno gli stessi da più di 10 anni (salvo le trasformazioni “tattiche” nelle varie A.T.I. che si sono susseguite), ma anche dal fatto che quasi sempre si occupano della sola promo-commercializzazione più che impegnarsi in modo marcato sui contenuti del prodotto (vedi esempio del disciplinare di ciascun gruppo nell’ambito del nuovo aggregato regionale dei bike hotels) e dei suoi rapporti con il territorio.
Certo anche qui ci sono lodevolissime esperienze, ma leggendo la serie storica dei destinatari dei finanziamenti della Legge Errani (e le rendicontazioni sugli effetti delle relative “campagne”?) non è difficile affermare che esistono eccezioni che però confermano la regola.

UN PROBLEMA INTERNO.
Ma il problema non è solo esterno, è anche interno alla struttura.
Non è solo un fatto di adeguamento antincendio.
Non è infatti detto che, riguardo agli aggiuntivi flussi potenzialmente attivabili, tutte le attuali strutture riminesi risulterebbero sufficientemente appetibili, in grado di soddisfare i livelli di qualità ospitale richiesti da certi target di consumo turistico o da certe nazionalità di provenienza.
Inoltre, le attuali gestioni potrebbero non risultare sempre remunerative visto che i margini si sono particolarmente ridotti non solo per la “povertà” di mercati e clienti, bensì anche per la concorrenza al ribasso, per il dumping su prezzi e servizi che si innesca fra le stesse strutture ricettive che non riescono, come sopra si diceva, ancora a ragionare in logiche di aggregazione, di rete o di sistema che vadano oltre il proprio “particulare”.
Ammesso poi che l’immane sforzo di riqualificazione (poco sostenuto da politiche turistiche pubbliche, sia in quantità che in qualità e in continuità) grazie a nuovi investimenti (ammesso che i bassi margini, il prelievo fiscale e tributario abnorme e il credito bancario possano sostenerli), abbia prodotto dei risultati, non è detto che questi possano essere apprezzabili tanto da giustificare l’apertura annuale.
Non bastasse ciò, grazie al credit crunch e in presenza di guadagni sempre più risicati e demotivanti, non gira affatto al necessario regime il volano della riqualificazione dell’esistente o della nascita di nuove offerte o strutture ricettive. Salvo qualche lodevole intervento, magari spinto da interessanti contributi pubblici, nella media, non fossero passati quasi 40 anni dal suo conio, si potrebbe riesumare la metafora del Censis sulla paralisi degli investimenti.

UN PROBLEMA DI ESTERNALITA’ E DI SISTEMA.
Oltre al tema dei tanti ed onerosi adempimenti a carico, oltre al tema del prelievo fiscale tramite il medium degli studi di settore, oltre ai margini che non valgono l’impegno profuso, un altro dei motivi del ritorno alla stagionalità estiva va individuato nella crisi delle vocazioni turistiche.
Non parlo di lavoratori, ma di auto-imprenditorialità.
Chi ha potuto, grazie al benessere economico prodotto dalle aziende di famiglia, studiare ed affermarsi professionalmente in altri ambiti ed ha affiancato o è subentrato ai genitori ormai anziani è, come si dice, “di bocca buona”. Non gradisce affatto l’auto-sfruttamento che è stato il tratto dominante delle generazioni precedenti di gestori e che (per l’imprevedibilità, l’andamento irregolare e la sensibilità al prezzo della domanda turistica, per gli alti costi di gestione, per il prelievo tributario sempre crescente che riducono i fatturati ed i margini di guadagno) inevitabilmente si impone a quelli delle piccole e medie strutture che si muovano ancora in modo individuale, non essendo organizzate o in piccole catene volontarie o in altre aggregazioni gestionali “plurali” né gestite di conseguenza in forma più imprenditoriale (qui torna d’attualità la vecchia figura del lavoratore d’albergo o, per salire un poco, del lavoratore autonomo più che quella dell’imprenditore che cura le strategie aziendali ed organizza il lavoro degli altri).
Non gradisce nemmeno la necessità di stare sul pezzo 24 su 24 in ragione del fatto che nei ripetuti momenti di “stanca” fra un evento e l’altro, per risparmiare sul personale occorre adoperarsi in prima persona come lavoratore “universale”.
In questo senso, a mio avviso, non è da sottacere la crisi degli affittuari tradizionali (strozzati da canoni elevati o impediti da contratti troppo corti, rinnovabili anno per anno) con il pernicioso effetto di una loro sostituzione con “avventurieri” di vario genere il cui obiettivo non è certo di fare impresa e che di conseguenza deprimono in modo spesso irreversibile le dinamiche di prezzi sufficientemente remunerativi, immagine della località e di certe sue aree a vocazione turistica nonché la stessa voglia di continuare dei colleghi “sani”.
Infine, altro dato da registrare è che ad acquistare gli hotel di più ampia dimensione e qualità sono sovente soggetti non interessati a gestirli e, quindi, alla ricerca, se non di affittuari, almeno di direttori all’altezza.
Questo è un tema che ho sottoposto all’Università di Rimini in alcuni incontri con il corpo docente: impegniamoci a creare figure professionali di alto profilo per il ruolo di direzione, negli anni a venire potrebbero tornare molto utili per assecondare questa tendenza nonché la necessità di quegli imprenditori che hanno già affiancato alla tradizionale gestione di uno o più alberghi, anche quella di stabilimenti balneari, ristoranti, agriturismi, resort e centri benessere e di altre strutture complementari al turismo, tutte gestite in una logica integrata e con un indirizzo diversificato sui vari target e mercati.
Per coloro che, invece, non sono su questa strada, meglio allora tornare “stagionale” ed aprire “a singhiozzo” in funzione degli specifici eventi (fieristici, congressuali, sportivi, spettacolari, etc.) e non sottoporsi a questo mal tollerato surmenage.
Ne guadagna la salute e la “bascozza”.
Certo, ci perdono la località e il sistema complessivo, tuttavia, da che mondo e mondo, non si è mai vista una persona intraprendere un’attività per rimetterci su questi piani.
A farlo sono magari coloro che si sono avviati sulla strada descritta da Rifkin nel suo recentissimo “La società a costo marginale zero”, ma qui non parliamo della situazione reale né del ricettivo né della città di Rimini.
A meno che non lo dicano i “papers” del Piano Strategico, ma su questo terreno forse non sarei ritenuto degno di avventurarmi…

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