Da Rimini al Sud America, i 25 anni di Raffaelli Editore

Da Rimini al Sud America, i 25 anni di Raffaelli Editore

La missione di esportare la poesia, il cui destino va di pari passo con quello della società.

Walter Raffaelli ci spiega come è cambiato il suo mestiere dal 1992 a oggi. Una società sempre più distratta e l’immobilismo nel campo artistico. La poesia relegata fuori dai maggiori circuiti editoriali e la mancanza di dialogo: “All’estero nessuno conosce i poeti italiani, e nemmeno noi sappiamo più nulla di loro”.

“Quello che faccio è ciò che faceva Achille Bonito Oliva con la Transavanguardia. Egli diceva che la vera opera d’arte era la sua, non quella dei vari pittori della sua scuola. I suoi convegni erano critica ad arte, non d’arte. Era lui l’Autore della Transavanguardia, e usava i pittori come se fossero pennelli. Io mi illudo di fare la stessa cosa nell’editoria: non scrivo di mio ma mi interesso di varie forme d’arte che propongo alle persone con le quali posso dialogare”. È così che definisce la sua attività Walter Raffaelli, fondatore e cuore pulsante di Raffaelli Editore, una delle realtà più longeve e vivaci del panorama editoriale riminese, che il prossimo aprile compirà 25 anni di attività. Moreno Neri ha scritto che “in una città normale un editore come Walter Raffaelli sarebbe un monumento cittadino”. Lo abbiamo intervistato per capire come sia cambiato il suo mestiere dal 1992 ad oggi.
Quando gli chiediamo perché abbia aperto una casa editrice a Rimini, risponde ironico: “Perché non mi ero accorto degli scatoloni di mondezza che avevo di fronte, sennò sarei andato da un’altra parte”. Il riferimento è alla situazione di degrado di Vicolo Gioia, a due passi dal Corso, dove ha sede la casa editrice. “Pensavo che la situazione potesse risolversi – dice Raffaelli – invece sembra il Bronx, con il grande magazzino qua di fronte che usa il suolo pubblico come discarica per i propri rifiuti. Penso che, come in tutte le città dove c’è un senso civile, dovrebbero tenere i loro rifiuti all’interno e poi tirarli fuori quando passa il camion a raccogliere. Invece c’è sempre del degrado, che chiama sempre più degrado, con passanti che utilizzano il viottolo per espletare i propri bisogni. All’inizio ho fatto esposti su esposti, sia al Comune che all’igiene ambientale, però alla fine devi fartene una ragione”.

Walter Raffaelli è nato a Pesaro e si è formato alla Scuola del Libro di Urbino, “dagli anni ’70 prestigiosissima a livello internazionale. Io in realtà volevo andare a Firenze a studiare architettura, ma sono passato di lì e mi sono innamorato dell’arte e della letteratura. Prima di fare l’editore ho lavorato nella stampa d’arte e i primi libri li ho pubblicati con un laboratorio che aveva sede fra Pesaro e Urbino”. Quando ha iniziato la nuova avventura editoriale, Raffaelli si è accorto che “arte figurativa e letteratura sono un po’ la stessa cosa”. In che senso? “Non c’è molta differenza fra un’incisione e una poesia. Fra pittura e incisione c’è la stessa distanza che passa dal romanzo alla poesia. Nella pittura c’è un respiro più lungo, i colori miscelati, la possibilità di continuare a lavorare sulla tela per più giorni, prima che si secchi la tinta. Così nel romanzo. Invece nell’incisione, come nella poesia, le idee devono essere chiare fin dall’inizio, e l’importanza del silenzio (il bianco del foglio) è massima”.
Dopo 25 anni di attività Raffaelli Editore conta più di 700 titoli pubblicati in cartaceo, per la maggior parte opere poetiche. Come è cambiato il mondo dell’editoria dagli anni ’90 ad oggi? “È cambiato moltissimo, ma non quanto la società. È mutato principalmente per le esigenze del sociale, che chiedono certe cose piuttosto che altre. Io sono nato in un’epoca in cui c’erano ancora i caratteri in piombo, mentre ora non esistono più. Per questo le parole che indicano i luoghi dove si stampa dovrebbero essere sostituite: nella tipografia, per esempio, la tupos (impronta, in greco) non c’è più. La litografia (da lithos, pietra) non esiste più. Adesso queste tecniche suscitano molto interesse in altre parti del mondo, ma non qui”.

Il lettore medio pensa che il libro che cerca si trovi in libreria, ma non è così

Anche il rapporto dell’editore con le librerie si è modificato negli anni, “ma non tutti i lettori se ne sono accorti. Il lettore medio pensa che il libro che cerca sia in libreria, ma non è così. Quello che passa in libreria è solo una parte della produzione di libri, spesso la parte (dal mio punto di vista) meno interessante, che viene pubblicata dalla forza editoriale di imprese che investono molti denari, che tengono in moto una macchina che costa molti soldi e che di conseguenza deve produrre. Non ci può essere un’idea nuova, un aspetto squisitamente culturale in questo meccanismo. Il piccolo editore è costretto quindi a spostarsi verso un prodotto diverso, che però non entra più in libreria. La distribuzione è parte di quella macchina”. Molto spesso l’unica scelta che rimane alla piccola casa editrice è quella di ridurre all’osso la struttura per sopravvivere.
Secondo Raffaelli, parte della colpa di questa situazione è da imputare agli stessi editori: “Non abbiamo costruito un’alternativa, siamo delle isole che non vogliono gettare ponti ma solo ponti levatoi, che si ritirano al calar del buio. All’inizio pensavo di poter formare un gruppo che unisse un centinaio di piccoli editori italiani, per cercare di risolvere la questione, ma non ce l’ho fatta. I piccoli editori sono come dei principi che si fanno la guerra a vicenda e non si uniscono. Per esempio, Tremonti ci ha tolto la tariffa editoriale ridotta, creando un danno gravissimo al nostro mercato, e non siamo riusciti a dire niente”.

Walter Raffaelli

Il mercato editoriale è cambiato e Raffaelli si è dovuto adeguare: “Ora pubblico 50-60 libri cartacei all’anno, più un centinaio in digitale. Stampo 210 copie di tiratura campione a titolo, poi si aggiunge a richiesta. È difficile distribuire nelle piccole librerie in giro per l’Italia, che magari chiudono all’improvviso e tu perdi tutto. È una scommessa”. Per questo l’editore riminese ha allargato i confini ad altri continenti: “Vendo in Sud America, Australia, Stati Uniti, anche titoli solo in lingua straniera. Dal punto di vista degli introiti si naviga a vista, ma una delle voci più significative sono le sovvenzioni dei Paesi esteri. Gli istituti statali finanziano le pubblicazioni di loro autori all’estero. Come minimo pagano il traduttore, che costa come la tipografia. Io prima avevo una media di 250 copie vendute per titolo, ma ora è molto più bassa”.
Da anni il mercato della poesia in Italia fa sempre più fatica, ed è sempre più raro trovare grandi librerie fornite di una buona sezione poetica. Le vendite calano continuamente e, secondo Raffaelli, i poeti nostrani hanno le loro responsabilità: “Quello che succede è scandaloso. I dati dicono che in Italia almeno un milione di persone scrive poesie, ma nessuno di questi scrittori legge. Non tornano i conti, infatti, con il numero di libri venduti. Quel milione sarebbe un mercato sufficiente per la poesia. Quindi bisogna mettere a posto i termini e chiamarli ‘scrittori in versi’, il termine ‘poeta’ va meritato”.

Il cambiamento dell’editoria deriva da quello molto più repentino della società, si diceva. Che cosa intende? “Troppo spesso i giovani di oggi non sono miei interlocutori. In pochi anni abbiamo fatto molte conquiste ma abbiamo anche perso tanto. Le giovani generazioni non conoscono il portato culturale dei secoli scorsi (un esempio sono le tecniche incisorie, quasi sconosciute) di cui la nostra società distratta pensa di non avere bisogno. Abbiamo perso tante cose che ci sono state al fianco per secoli e che erano a misura nostra. Forse il cambiamento è stato un po’ troppo veloce e ha svalvolato le menti”. A me sembra, continua Raffaelli, “che oggi il pensiero del singolo abbia meno importanza che in passato. Si sta amalgamando tutto, i bisogni diventano gli stessi, ci si somiglia sempre di più. Ma questo non è vero. Se ti soffermi a parlare con i ragazzi, scopri che essi sono degli interlocutori, ma spesso non sanno di esserlo”.
Dal punto di vista dell’arte e della cultura, “mi chiedo se tutta la tradizione italiana, tutto quello che siamo stati nella storia, sia un vantaggio oppure uno svantaggio. Per esempio, nell’ambito della poesia, vedo che i miei amici sudamericani (continente che seguo molto) hanno una disinvoltura che noi non abbiamo, a volte anche colorata di ingenuità. Hanno un entusiasmo strepitoso che noi non abbiamo più: per una piccola invenzione, per un verso che funziona. Organizzano festival con migliaia e migliaia di persone. Medellín (Colombia), che conosciamo per i cartelli della droga, ospita un evento di poesia che conta 20mila persone di pubblico”. In Italia, invece, il vissuto passato sembra una zavorra. Si chiede Raffaelli: “Come mai abbiamo perso l’entusiasmo? Come mai là c’è questo pubblico e qui no? E non vale solo per la poesia, ma per ogni espressione artistica. A Città del Messico hanno premi letterari da 250mila dollari, e lì la vita costa un quarto che da noi. In Italia arriviamo massimo ai 10mila euro”. In America Latina l’editore ha incontrato una voglia diversa, un attivismo che qui da noi sembra sepolto da tempo: “Organizzano cose che noi giudicheremmo utopiche, ma li sentiamo vivi. A Rimini, invece, chiude un giornale come La Voce e nessuno fa o dice niente. È una vera disgrazia, perché è importante avere più voci diverse”.

E questo immobilismo sociale si evidenzia anche nelle forme artistiche. “È vero che non sappiamo produrre più arte? A volte sembra così, ma non è vero. All’estero senti dire che in Italia non c’è più niente di buono nelle arti. È la prima volta nella storia che si assiste all’assenza di un artista italiano famoso all’estero. C’è sempre stato un campione che tutti conoscevano, ora non c’è. In realtà non è vero che non c’è, ma è che non fa parte del meccanismo che può portarlo alla fama”. Il ‘900 della poesia italiana, afferma, “è finito nel ’75, con la morte di Pasolini. Con quella data finisce l’idea di ideologia, di formazione di gruppi e di condivisione. Nell’ambito delle arti, ciascuno è diventato un’isola, lavora per sé, non c’è più scambio. È mai possibile che non sappiamo quali sono i più grandi poeti della nostra generazione in Francia, Spagna, Germania? Non dialoghiamo, non ci muoviamo neanche se ci ammazzano. Basta che ci portino le ‘sfumature di grigio’ e va bene così. Ci sono molte idee che circolano, ma noi ci lamentiamo pensando che non ci siano. Aspettiamo che ci arrivino nel salotto di casa. Se si pensa che la tecnologia che abbiamo oggi non c’è mai stata prima… noi che abbiamo tutto questo siamo più che mai isolati e apatici. Ci riempiamo la bocca del termine globalizzazione, ma non sappiamo più cosa voglia dire: vorrà dire conoscere l’altro? O ci interessa solo il mercato dell’altro? Nel campo dell’editoria questo è gravissimo. Il confronto e il dialogo sono fondamentali per la crescita”.

Leggere non costerà più niente e il problema sarà cosa leggere e chi potrà farsi garante della correttezza e della qualità dell’opera

Nonostante tutto ciò, l’idea che Raffaelli ha del futuro è tutt’altro che pessimistica: “Io penso che il futuro sarà una cosa meravigliosa. Questi ultimi anni, che sembrano disastrosi, contengono un’idea di cambiamento che ci costringerà a scegliere da che parte stare. Questo mi sembra molto bello. Per forza dovremo darci una mossa e lavorare per le nostre idee”. Per Raffaelli, il destino della società e della poesia vanno di pari passo, e per la sua casa editrice ha in mente grandi progetti: “L’idea è di pubblicare una biblioteca totalmente in digitale. Grazie all’esperienza che ho fatto in Sud America, vorrei offrire l’abbonamento annuale a centinaia di titoli (dai classici ai contemporanei, editati con cura), a 5 euro. Sono convinto che leggere presto non costerà più niente e il problema sarà cosa leggere e chi potrà farsi garante della correttezza e della qualità dell’opera. Mentre pensavo a questo, sono andato a Bogotà e ho visto che un’università locale fa qualcosa di molto simile”.
Il formato digitale non soppianterà il cartaceo? “Chi lo afferma dice baggianate, il digitale e il cartaceo andranno in modo parallelo, sono due dimensioni che si completano. Il libro non solo non scomparirà, ma tornerà ad essere libro grazie al digitale. Il secondo, non costando quasi nulla, favorirà il riconoscimento del libro come un oggetto prezioso, che deve costare ma deve essere fatto con rispetto del lettore. Dobbiamo tornare all’idea della qualità di ciò che si pubblica, chiederci cosa ci serve veramente e lavorare in quella direzione”.

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