Dietro l’impennata dei “buoni” che vanno a braccetto col lavoro nero. Parla l’autore della prima ricerca sui voucher

Dietro l’impennata dei “buoni” che vanno a braccetto col lavoro nero. Parla l’autore della prima ricerca sui voucher

In provincia di Rimini i voucher venduti sono passati dai 391.448 del 2013, agli 844.496 dell'anno successivo, fino a 1.592.217 del 2015. Collocandosi al terzo posto in regione dopo Modena e Bologna. E il turismo incide per quasi il 30%. Ma il dato è in continua crescita. Solo nel primo semestre del 2016 a Rimini sono stati venduti 1.062.132 voucher. Intervista al ricercatore che ha realizzato per Ires la prima e più aggiornata ricerca sul cosiddetto lavoro accessorio: Gianluca De Angelis.

Gianluca De Angelis

Gianluca De Angelis

Lei ha curato per Ires, insieme a Marco Marrone, una recente ricerca sul lavoro accessorio in Italia e in Emilia Romagna, che credo sia la più aggiornata in questa materia. E’ così?
Sì, al momento il nostro lavoro è quello più aggiornato, anche se nel lavoro di ricerca è difficile porre la parola fine a qualcosa. Nel caso della ricerca svolta, ad esempio, l’aggiornamento dei dati era all’ultima frazione di tempo possibile al momento della scrittura, ma già ad oggi l’INPS ha diffuso nuovi dati sui voucher venduti e, credo, che con richieste specifiche si possano avere anche i dati relativi all’uso nelle province. Ma vista la gestione delle informazioni statistiche dell’INPS, la scarsa precisione nella diffusione, si tratta di ipotesi. Anche per questo, l’idea di fondo della ricerca era tanto quella di strutturare un rapporto che facesse da punto di partenza e sistematizzasse l’analisi dei dati, nazionali e, ove possibile regionali, quanto quella di andare oltre quei numeri e collocare il lavoro accessorio nella realtà delle storie dei lavoratori.

Qual è, in sintesi, il quadro che emerge sull’utilizzo dei voucher lavoro?
Dopo aver ricostruito l’iter giuridico del dispositivo, mettendolo a confronto anche con gli analoghi sistemi europei, ci siamo concentrati su alcuni aspetti specifici sui quali abbiamo insistito anche nell’esplorazione qualitativa del fenomeno: quello dell’emersione, delle relazioni interne al luogo di lavoro e della diseguaglianza.
Il quadro che emerge è quello di uno strumento che è ambiguo rispetto al processo di emersione, poiché, di fatto, abbassa i requisiti minimi affinché un lavoro possa definirsi regolare. Quando un lavoratore ti dice “a voucher o in nero, per me è uguale” significa che il voucher sta contribuendo a ridefinire, in negativo, il concetto di emersione. Noi proviamo a descrivere questo effetto evidenziando come il voucher sia stato assorbito dalle dinamiche preesistenti e che caratterizzavano i singoli comparti e che se di emersione di deve parlare, è solo con riferimento all’aspetto contabile. Questa lettura mi pare sia rafforzata anche dalla frequenza con cui i lavoratori hanno indicato un uso del voucher integrativo del lavoro in nero e non sostitutivo.
L’altra questione è quella dei rapporti interni ai luoghi di lavoro. Il voucher, infatti, indica un’ulteriore linea di demarcazione tra i lavoratori, aumentando la diseguaglianza. Se, come ci ha raccontato uno degli intervistati, nei fogli dei turni di un’impresa il nome del lavoratore viene sostituito con la lettera V, che sta per voucher, non mi pare sia stato fatto alcun passo avanti in termini di riconoscimento. Ecco perché parliamo di emersione puramente contabile.
C’è poi un terzo risultato, meno visibile degli altri, che è quello delle informazioni che ci chiedevano i nostri interlocutori. Per tutti i giorni di permanenza nei CAF, infatti, le persone che chiedevano informazioni per i voucher dei propri figli, parenti o conoscenti ci dicevano, in sostanza, di sapere poco o nulla dello strumento. Anche durante le interviste, abbiamo fatto un grande sforzo per provare a rispondere a richieste anche molto complicate relative alla cumulazione e alla rendicontazione. D’altra parte non è facile comprendere come certe condizioni possano considerarsi legali e comprendo bene i dubbi che sorgevano in sede di intervista agli stessi intervistati.

I voucher trovano una massiccia diffusione in Riviera e in particolare a Rimini, che risulta ai primi posti in Emilia Romagna. Quali sono i dati che fotografano questo fenomeno e i settori maggiormente interessati?
Per quanto riguarda il dato annuale, le rimando direttamente a quanto scritto nella ricerca (in provincia di Rimini i voucher venduti nel 2015 sono stati 1.592.217, ndr), ma per poter meglio rispondere alle sue domande, mi sono procurato i dati al primo semestre del 2016 per attività, nelle province dell’Emilia-Romagna. Si tratta di dati che non ufficiali, poiché ancora non consolidati e ottenuti tramite una richiesta specifica a fini di ricerca. Ciò specificato, suscitano un certo interesse proprio in relazione alle sue domande.
Al primo semestre del 2016, in Emilia-Romagna, sono stati venduti 8.822.380 voucher (equivalenti da 10 €). Il 22% di questi in provincia di Bologna (1.194.609), il 17% in provincia di Modena (1.503.729) e il 12% in provincia di Rimini (1.062.132). Tra le altre, arrivano al 10% solo Piacenza e Ravenna. Rimini è la terza provincia. Ma non è solo questa la particolarità di Rimini. Infatti, guardando le attività di utilizzo, il riminese è il territorio in cui l’uso dei voucher nel turismo è più significativo. Con 278.502 voucher venduti, infatti, oltre ad essere la regione in cui il ricorso al lavoro accessorio è più diffuso che altrove (il 26,2% del totale venduto a Rimini), è anche la provincia che incide di più relativamente alla regione: dei voucher venduti in Emilia-Romagna per attività turistiche, infatti, il 24,3% è riconducibile a Rimini, il 18,5% a Ravenna e il 14,6% a Bologna. Sulle attività resta, comunque, un grosso problema relativo al dato non classificato, che in regione arriva oltre il 56% (mentre è circa al 48% nel riminese).

Cosa si intende per dato non classificato?
Nella maschera di attivazione disposta dall’INPS è richiesto al datore di specificare il settore di attività, ma la scelta è solo tra Attività agricole, Commercio, Giardinaggio e pulizia, Lavori domestici, Manifestazioni culturali, Servizi e Turismo. Ci sono poi le “restanti attività”. Più della metà delle attivazioni in Emilia Romagna, però, non è riconducibile a nessuna di queste categorie e viene quindi rilevata come “attività non classificata”. E per l’analisi dei settori questo è un problema abbastanza significativo.

Dalla vostra ricerca emerge anche una relazione diretta fra voucher venduti e diminuzione delle assunzioni a tempo determinato?
Per tutte le questioni dette in precedenza, non c’è modo di mettere insieme dati così diversi. E’ ragionevole parlare di una relazione, e questo a partire da considerazioni fatte su diverse fonti, ma non è una certezza che si evidenzia nei nostri dati.
Come specificato nella ricerca a pagina 32, infatti, è l’Inps a ravvedere nel calo delle comunicazioni obbligatorie nei comparti in cui cresce l’uso dei voucher un effetto sostituzione. L’Inps lo fa per il lavoro a domicilio e turistico, ma non fa riferimento diretto all’Emilia-Romagna. Seguendo quel ragionamento, però, il calo delle comunicazioni obbligatorie nel turismo ravvisato anche nell’elaborazione dell’Ires dell’osservatorio provinciale può essere ricondotto alla crescita del ricorso al lavoro accessorio nello stesso settore e nello stesso periodo.
Non si tratta dell’effetto sostituzione per come è stato immaginato nel report sul lavoro accessorio disposto dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali il 22 Marzo 2016, essenzialmente diacronica sul piano del singolo lavoratore, ma più ampia, relativa alla preferenza dei datori per una retribuzione con il voucher, regolare, ma senza alcun contratto di lavoro.

Quali sono – per i datori di lavoro e per i lavoratori, in quest’ultimo caso anche dal punto di vista delle tutele e della previdenza – gli aspetti positivi e negativi dell’utilizzo dei voucher, e quale la ragione di questa impennata relativamente recente?
Parlando da ricercatore non posso dire quello che non ho analizzato. Non avendo parlato con i datori, quindi, non posso dire molto più di quello che è possibile ricostruire a partire dalla ricerca svolta. In questi termini, per il datore di lavoro il vantaggio sta nella facilità di utilizzo e, non da ultimo, sul livello salariale minimo che il voucher configura. Anche al lordo dei contributi, infatti, il voucher consente un risparmio sul costo del lavoro non indifferente, sia diretto che indiretto. Diretto perché il costo del lavoro scompare e la spesa in voucher è assimilabile ai costi gestionali di impresa, anche dal punto di vista fiscale. Indiretti, perché tutti i costi e gli oneri legati al numero di dipendenti, vengono meno visto che il lavoratore voucherizzato non è praticamente considerato un lavoratore, tantomeno un lavoratore dipendente.
Il risparmio per l’impresa che il voucher configura, quindi, è a tutto detrimento dei diritti e delle tutele dei lavoratori.
A vantaggio del lavoratore, invece, c’è senza dubbio l’assicurazione INAIL in caso di infortunio. Un vantaggio di cui, fortunatamente, sempre meno lavoratori hanno percezione. Questo in parte perché, guardando gli ultimi dati INAIL, gli infortuni diminuiscono nel loro complesso, mentre aumentano le malattie professionali, che però non sono coperte dal voucher. In parte perché il voucher copre il solo episodio che avviene durante l’ora di lavoro retribuita con il voucher. Se si pensa che il 30% degli infortuni mortali in Emilia-Romagna avviene in itinere, si comprende meglio come il vantaggio c’è, ma non basta a configurare un miglioramento complessivo percepibile delle condizioni di lavoro.
Anche il contributo alla gestione separata è minimo e chi lavora sa quanto sia difficile avere davvero la possibilità di godere del diritto alla pensione pubblica.
Più ambigua è la questione del voucher come soglia minima salariale. Diversi lavoratori, infatti, ci hanno detto che con l’introduzione del voucher hanno visto calare il proprio compenso orario. Altri, però, ci hanno detto anche che, per assurdo, quando c’è il voucher sono pagati di più che quando non c’è. La difficoltà della lettura sta, soprattutto, nel mix tra lavoro nero e voucher, che caratterizza la quasi totalità degli intervistati. Di sicuro, comunque, in questi termini qualcosa è successo. Basti pensare all’introduzione dell’unità di misura oraria del lavoro. Mentre si diffondono le iniziative finalizzate al superamento di quest’astrazione, infatti, non è da poco che venga ripristinata per legge ed estesa a quasi tutti i settori.
Di negativo, plausibilmente per datori e lavoratori, c’è la questione della reciproca deresponsabilizzazione di cui pure abbiamo scritto. Se, infatti, è vero che il voucher pone datore e lavoratore sullo stesso piano, in una sorta di toccata e fuga che avvantaggia la posizione del datore di lavoro, è anche vero che il datore di lavoro che usa i voucher non è detto ottenga professionalità e lealtà da parte del lavoratore. Per questo, però, il problema è nella possibilità di scelta, che resta in capo al datore.

Se non sbaglio i dati disponibili sui voucher venduti sono ancora molto scarsi e regna una certa opacità: si sa quanti sono i lavoratori coinvolti su scala nazionale, regionale, in Riviera e a Rimini in particolare, e poi chi sono (sesso, età…), di quali settori fanno parte?
Sì, nonostante le tante parole spese su opendata e trasparenza, in Italia abbiamo un problema serissimo con le basi informative. Dalla loro costruzione alla loro diffusione. Da una parte, infatti, il processo di definizione delle categorie, pur essendo un fatto politico, è considerato come una questione tecnica su cui nessuno può intervenire. D’altra parte, l’accesso ai dati, anche quando sono pubblici e frammentati dalle diverse gestioni, è spesso a pagamento. Insomma, il mancato investimento in termini di conoscenza pubblica si palesa anche per questi aspetti.
Con i voucher il corto circuito è evidente a tutti. L’Istat non rileva il fenomeno perché nel questionario per la rilevazione continua sulle forze di lavoro manca una domanda relativa alla forma di pagamento. E chi conosce un minimo il funzionamento della rilevazione sa che l’aggiunta di una domanda non è cosa semplice e fattibile al bisogno. D’altra parte l’Inps non è un ente di ricerca, ma amministrativo, quindi, pur avendo un ufficio statistico interno non dovrebbe, ma potrei sbagliarmi, essere tenuto a fornire dati la cui elaborazione è costosa in termini di tempo e risorse.
Al momento, comunque, le basi informative sul lavoro accessorio sono di due tipi. Il primo è sui dati consolidati annualmente, prestatori e voucher venduti; il secondo sui dati grezzi dei voucher venduti, diffusi mensilmente. Il primo è costruito annualmente dall’Inps, scalabile su base regionale e accessibile dal sito ufficiale Inps dell’osservatorio sul lavoro accessorio. Il secondo è aggiornato mensilmente e accessibile a partire dall’Osservatorio sul Precariato, che sintetizza i flussi dai diversi canali di vendita dei voucher per regione.
Sull’argomento, a fare più rumore sono i dati sui voucher venduti, aggiornati mensilmente con opacità su diversi aspetti. I problemi più importanti sono che “voucher venduto” non significa voucher riscosso, quindi non è dato sapere se poi il voucher è stato utilizzato o meno e, mancando i dati sui datori e sui percettori, non è dato conoscere i settori di impiego e le altre specificità del loro utilizzo.
Per queste ragioni, al momento, i dati sui percettori sono fermi al 2015 e sono quelli analizzati nella nostra ricerca. I dati sui voucher venduti, invece, sono ufficialmente fermi a maggio 2016.

Lo strumento del voucher ha influito nella emersione del lavoro nero (che era uno degli obiettivi del legislatore), fenomeno che, com’è noto, costituisce da sempre una piaga in Riviera, oppure ha peggiorato le cose rendendo più difficile l’individuazione del sommerso?
In parte ho già risposto, ma, volendo precisare, posso dire che nella nostra esperienza la liberalizzazione del voucher ha reso più facile mascherare i comportamenti elusivi. Il sommerso è un terreno difficile su cui lavorare con i dati, ma con le interviste abbiamo evidenziato come il voucher è stato assimilato nei meccanismi preesistenti nei diversi settori. Laddove c’è del sommerso, insomma, il voucher non l’ha sostituito, ma l’ha integrato rendendo più difficile i controlli e le vertenze.

Quali sono gli abusi più vistosi nell’utilizzo dei voucher? E il sindacato ha un ruolo a garanzia dei diritti dei lavoratori, oppure la “partita” si gioca solo fra datore di lavoro e lavoratore?
In assenza di un contratto vale la negoziazione faccia a faccia. La partita, come dice lei, si gioca senza regole condivise e, in ultima istanza, senza arbitro. Il ruolo del sindacato è molto relativo di fronte alla polverizzazione organizzativa tipica di alcuni comparti. Il contratto, con tutte le problematiche ad esso legate, è la porta attraverso cui le regole entrano nei luoghi di lavoro anche laddove il sindacato non è presente. Col superamento del contratto, il lavoro accessorio chiude la porta alla minima regolazione, generale e particolare. Questo implica un più difficile contenimento della diseguaglianza tra datori e lavoratori. Non parlo solo degli abusi e del mix con il lavoro nero. Dalle interviste da noi realizzate emerge che i lavoratori non hanno modo di sapere quante ore lavoreranno con certezza, quando saranno richiamati, quanto guadagneranno in un mese o in una settimana. Subiscono la reperibilità, subiscono il ricatto – implicito o esplicito – dovuto all’assenza di garanzie e trasparenza.

Di recente il governo ha approvato il decreto legislativo integrativo e correttivo del Jobs Act. Anche per i voucher sono state introdotte delle modifiche, ad esempio quella della tracciabilità (prima dell’inizio della prestazione di lavoro accessorio vanno comunicati alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro i dati del lavoratore, il luogo e la durata della prestazione). E’ un aggiustamento importante o a suo parere non sufficiente a correggere le storture?
Le nuove regole non sono ancora entrate in vigore e non ho ancora avuto modo di verificare la nuova maschera per l’attivazione. Non so, quindi, fino a che punto il problema della durata possa dirsi risolto. Se, cioè, con l’entrata in vigore del nuovo decreto è davvero impossibile al datore pagare un minimo in voucher e integrare in nero il resto della giornata lavorativa.
Si tratta, comunque, di un aggiustamento parziale. Il problema è che i lavoratori pagati con il voucher, per legge, non sono considerati lavoratori, bensì percettori o prestatori, e non hanno, quindi, alcuno dei diritti che sono normalmente attribuiti al lavoratore. Si tratta di uno dei tanti meccanismi di risemantizzazione del lavoro, che di fatto lo nega, trasformando la relazione lavorativa in un confronto senza regole tra parti diseguali.
A mio parere, il lavoro deve essere sempre pagato in tutte le sue componenti, quelle relative al lavoro svolto, ma anche quelle relative alle tutele in caso di malattia, di disoccupazione, di vecchiaia, infortunio. Non solo, chi lavora deve potersi permettere di studiare, di leggere e di andare al cinema o a teatro e in vacanza. Il voucher nega questa possibilità perché nega, a monte, l’esistenza di una relazione lavorativa. Non so se un ripristino alle condizioni iniziali, cioè l’utilizzo in determinati pochi settori e per specifiche figure, possa bastare. Di sicuro, comunque, al momento non vedo alcuno spazio per miglioramenti che non passi per l’abrogazione dello strumento. È indubbio che facilitare le modalità di assunzione regolare sia un vantaggio per quei lavoratori costretti ad una continua transizione tra un mini-lavoro e un altro, ma in nessun caso questa facilitazione dovrebbe costare un solo centesimo ai lavoratori. A differenza di quanto avviene negli altri paesi europei, invece, in Italia il costo della semplificazione è tutto a carico del lavoratore.

Qual è il livello dei controlli svolti dagli organi ispettivi? Andrebbero potenziati soprattutto in estate sulla riviera romagnola?
Purtroppo non ho dati al riguardo e non conosco gli esiti dell’attività ispettiva nel riminese. Per quanto ho avuto modo di comprendere, comunque, l’importanza del fenomeno voucher è da rintracciarsi nel contesto normativo e culturale in cui si inserisce. In un contesto caratterizzato dalla gratuitizzazione del lavoro, dal tirocinio infinito, dalla crescente informatizzazione, la questione voucher determina solo un ulteriore passo a tutto svantaggio del lavoratore. In questo senso è evidente come l’attività ispettiva possa fare ben poco. Anche quando usato regolarmente, infatti, il voucher svaluta il lavoro e inasprisce la diseguaglianza.

COMMENTI

DISQUS: 0