Gente che sta bene

Gente che sta bene

La passerella? E' la "risposta a un piccolo gruppo di persone che sta bene nella vita". Così sentenziò l’anti-Malatesta di palazzo Garampi. Ben diverso da chi ha fatto costruire il Tempio di Rimini ispirandosi alla filosofia e tenendosi lontano dal volgare. Essere elitari, spiegava Goethe, significa essere rispettosi. Invece il nostro e il suo partito di riferimento non sanno nemmeno essere conseguenti: sui vaccini si affidano alla competenza di un medico come Roberto Burioni anziché alle folle antivax, mentre nel caso di arte, cultura, storia e urbanistica i competenti diventano i nemici. E detta legge il PR. La lezione di Bobbio, più attuale che mai.

Dove vi è dominio, esistono masse;
dove vi sono masse, vi è il bisogno della schiavitù.
Dove vi è schiavitù, gli individui sono pochi,
e hanno contro di loro gli istinti del gregge.
(Friedrich Nietzsche, La gaia scienza)

Se deve scegliere chi deve essere crocifisso,
la folla salverà sempre i Barabba.
(Jean Cocteau, Le Rappel à l’ordre, 1926)

A Pasqua sono stato contento come una Pasqua.
La mattina, leggendo i due quotidiani locali, ho scoperto, con mia grande sorpresa, di far parte di una élite.
Un po’ parafrasando Totò, devo confessare che elitario non lo nacqui, lo divenni, modestamente. È accaduto trentacinque anni fa quando ho conosciuto mia moglie, borghigiana DOCG, a denominazione di origine controllata e garantita, essendo nata, come testimonia il suo estratto di nascita, proprio in una delle stanze che da diversi anni abitiamo.
Il sindaco Andrea Gnassi, alla vigilia di Pasqua, infatti, in occasione della inaugurazione della discussa passerella sul Marecchia, come riferisce uno dei due quotidiani locali, ispirato da una gran voglia di rivincite nei confronti di chi ha contrastato il progetto «scommettendo sul fallimento» con esposti e denunce, ha dichiarato – ho letto – che il Ponte di Tiberio è un «patrimonio di bellezza» che «va offerto alla gente, alla città, perché crea comunità».
E ha continuato dichiarando che quella che per me è una banalissima passerella, che ha fatto scempio delle mura medievali-malatestiane restaurate nella metà del Settecento e strutturalmente consolidate nel 2004, sarebbe la «risposta a un piccolo gruppo di persone che sta bene nella vita e non vuole vedere turbata la vista del proprio giardino». D’ora in poi, non solo noi fortunati di questo piccolo gruppo di cittadini che abita sulla sponda sinistra del Marecchia, nella via dall’omonimo nome, ma finalmente tutti, ma proprio tutti «possono godere della vista del Ponte di Tiberio».
Cosa non assolutamente vera, perché la stessa visione si sarebbe potuta ottenere semplicemente pedonalizzando il tratto di Via Bastioni Settentrionali, riservando al solo transito pedonale e ciclabile – finalmente – il Ponte di Tiberio e investendo grosso modo la stessa somma di questi insulsi lavori nella costruzione di un ponte alternativo. L’inconsistenza e la dabbenaggine dei progettisti che avevano ipotizzato una passerella di 2,50 m. si rivela nell’imbuto finale di questa passerella, decantata come soluzione ottimale per i disabili, laddove si registra qualche millimetro superiore al limite minimo legale di 0,90 cm. Un errore marchiano sul quale è meglio calare un velo pietoso.

L’ipocrisia e l’impostura dei progettisti si smaschera nei ciclisti a pedalata assistita o rotonda che numerosi la percorrono incuranti dei numerosi comunicati stampa che la qualificano come un percorso pedonale e con bici a mano per procedere in sicurezza sulla Via Bastioni Settentrionali, giacché non vi è alcun cartello che la indichi come tale in una città dalla fin troppo abbondante segnaletica stradale, associata alla imperante maleducazione dei ciclisti e alla irregolarità della maggior parte delle piste ciclabili riminesi. L’improntitudine e il dilettantismo di chi ha progettato e soprinteso questi futili lavori si è palesato con l’asporto del pregiato manto di ciottoli fluviali ottocenteschi recuperati nel 2009 di Via Bastioni Settentrionali, costato diverse centinaia di migliaia di euro e sostituito con un’orrida striscia di asfalto nero con la scusa della sicurezza. Era scivoloso, dicono i boccaloni e il loro portavoce Assessore e dobbiamo quindi attenderci un’analoga asfaltatura in Via IV Novembre e nel sagrato del Tempio Malatestiano data la pericolosità della preesistenza di quello che rappresentava il tradizionale rivestimento stradale di Rimini. Lì c’è gente che è scivolata nel Rinascimento e non è tornata mai più come Ai confini della realtà.
Tuttavia, bisogna dare a Gnassi quel che è di Gnassi. È un ottimo PR, un superbo facitore di «narrazioni», come oggi si usa dire, un talento da conta favole per una massa che vuole sentirsi raccontare le cose in forma ridotta e manipolata, una massa che adora il non-senso e l’inutile, lo spreco e lo sfregio, lo sproposito e il madornale.
In quanto tale è, in primo luogo, l’anti-Malatesta per eccellenza. Non è come chi che ha fatto costruire il Tempio di Rimini ispirandosi alla filosofia e tenendosi lontano dal volgare. Al contrario la sua visione parte dalla costruzione di una passerella intorno al Ponte di Tiberio, sulle mura che furono malatestiane e parzialmente restaurate nel Settecento con ciò che c’è di più volgare – il trash, il kitsch, il banale del larice e dello zinco – seguendo il gusto del volgo e indignando i dotti e i filosofi. Gnassi, insomma, è un po’ la riedizione dei romanzetti da spiaggia che imperversavano negli anni Trenta, con la differenza che questi non si presentavano come alta cultura con tanto tronfio entusiasmo e kitsch.
Si sa, in Italia la letteratura, la storia, la filosofia, persino l’architettura, sono il latino di oggi, mentre tv, facebook, video musicali, insopportabili palazzi sono le lingue volgari odierne a disposizione delle masse. Come preconizzava Pasolini la volgarità è il pieno rigoglio del conformismo. Su questo humus del conformismo prospera la superficialità: 9 secondi, come quella di un pesce rosso in una boccia di vetro, è la soglia media di attenzione dei più giovani, mentre il tempo medio che un adulto dedica a leggere un qualsiasi contenuto su internet raramente si avvicina ai 17 secondi: titolo, sottotitolo e un like. Anche a Rimini la politica si fa attraverso i due quotidiani di carta e i più moderni mezzi di comunicazione di massa e non si vede nessuno che parli con i cittadini elettori in un rapporto fisico.
I conformisti, gli approssimativi, la massa dei like, i più furbi con la loro sgarbata sicumera, i cialtroni sempre alla moda e volti al progresso e alla riqualificazione ad ogni costo, sono tutti certamente rassicurati dal racconto del Sindaco che riduce l’opposizione a un piccolo gruppo di persone, dissimulando che l’inutile passerella è stata contrastata da Italia Nostra nazionale e non solo da un piccolo e battagliero gruppo di borghigiani. Cioè da una associazione di cui hanno fatto parte Elena Croce, Giorgio Bassani, Antonio Cederna, Fulco Pratesi. Nomi noti, forse, solo a una élite, quel 40% di italiani che legge almeno un libro in un anno (in Svezia sono il 90%).
Nel non detto di Gnassi si omette che la questione degli interventi intorno al Ponte di Tiberio è stata oggetto, in crescendo, di mozioni in Consiglio Comunale (Gioenzo Renzi di Fratelli d’Italia e Carlo Rufo Spina di Forza Italia), di interrogazioni in Consiglio Regionale (Raffaella Sensoli del MoVimento 5 Stelle), di ben tre interrogazioni parlamentari al Ministro dei Beni Culturali nella passata legislatura (Fabio Rampelli, capo-gruppo alla Camera di Fratelli d’Italia; Massimo Palmizio di Forza Italia, suo storico fondatore; la senatrice del Movimento 5 Stelle, Michela Montevecchi). Si tralascia di dire che il progetto è stato contrastato pacatamente dall’Ordine degli Architetti e con più vigore, tra gli altri, dagli architetti Stefano Piccioli, Giovanni Galanti, Ettore Maria Mazzola e osteggiato dai massimi studiosi di storia malatestiana come Giovanni Rimondini, Franca Arduini e, a scanso di false modestie, chi scrive e biasimato da un intellettuale come Ennio Grassi, ex assessore alla Cultura di Rimini ed ex deputato del Pds. Che è stato ed è combattuto da due delle sopravvissute “penne” del buon giornalismo riminese, Claudio Monti e Davide Cardone, che su altre cose importanti la pensano molto diversamente.
Di fronte a questo parterre, la platea che il sindaco può esibire non è fatta di competenti, ma di iscritti al PD e di qualche associazione che fa parte della «rosa magica» (ad ogni città il suo fiore, come al bulletto di Rignano il giglio).
Ora, non sta a me dare suggerimenti a un PD in affanno. Mi limito ad osservare che trovo strabico un partito che, da un lato, nel caso dei vaccini si affida alla competenza di un medico come Roberto Burioni e non alle folle antivax, e, dall’altro, nel caso di arte, cultura, storia e urbanistica si consegna a chi non ha perso tempo a studiare e a conoscere.
A parte le facezie e premesso che non pretendo che tutti abbiano il mio stesso approccio, confesso di essere un «uomo del dubbio». Anche socraticamente «so di non saper nulla» e nel confronto dialettico sono disposto a cambiare opinione. E, sui lavori intorno al Ponte di Tiberio, in questi ultimi mesi, la mia opinione iniziale, l’ho cambiata e di molto. Nel senso che la mia opinione contraria si è rafforzata e affinata, grazie ai contributi alla discussione che ho avuto modo di leggere e sui quali ho riflettuto e da cui tante nuove cose ho appreso e imparato.
I più brillanti contributi al dibattito dei favorevoli agli interventi intorno al Ponte di Tiberio sono stati, invece, gli attacchi agli avversari – noi –, qualificati come «rosiconi», «i soliti a cui non va mai bene niente». Si sa: ci vuole meno sforzo mentale a condannare che a pensare e il parere della massa non può che essere l’espressione dell’incompetenza, accompagnata dall’ignoranza anche nei modi. Il problema è che questa incompetenza non si limita alla ciarle, ma trova concreta espressione nel fare amministrativo e combina pasticci e disastri.
Da questo punto di vista, e solo sotto questo profilo, mi sento elitario – nel senso più autentico del termine, perché mi prendo carico della responsabilità per «il meglio» della mente umana e della comunità in cui vivo. Una élite culturale deve sentirsi responsabile della conoscenza e della conservazione delle idee e dei valori più importanti, del suo patrimonio culturale, del significato delle parole. Essere elitari, spiegava Goethe, significa essere rispettosi: rispettosi del divino, della natura, degli altri esseri umani, e dunque della nostra umana dignità. Possiamo essere tutti elitari, a condizione di dare a tutti la possibilità di apprendere e di essere correttamente informati, di dare a tutti la possibilità di imparare. Solo allora un concetto vero di democrazia potrebbe avere qualche significato, perché senza questi sufficienti livelli di conoscenza non si esce dal sottosviluppo e dalla sudditanza nei confronti dell’élite economica, dei poteri forti della mercificazione a qualsiasi costo, le vere élites. Perché noi siamo un élite alla rovescia che rappresenta il civismo culturale, che si prende la responsabilità per quel meglio che nella città non si vede e che crede, ostinatamente, nella promessa dell’articolo 9 della Costituzione che dà alla Repubblica la missione di tutelare il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Ma la Repubblica siamo noi cittadini o chi temporaneamente ci amministra e governa?
Sessantatre anni fa, e non sono molti, sette anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, uscì Politica e cultura, forse il volumetto più noto di Norberto Bobbio.
Il compito degli uomini di cultura – scriveva – è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze. Di certezze – rivestite della fastosità del mito o edificate con la pietra dura del dogma – sono piene, rigurgitanti, le cronache della pseudocultura, degli improvvisatori, dei dilettanti, dei propagandisti interessati.
Bobbio allora, in polemica con i comunisti che proponevano una politica culturale, difendeva e distingueva una politica della cultura: la prima calata dall’alto, l’altra sgorgante dal basso, dagli stessi intellettuali che dovevano difendere la cultura coniugandola oltre che con la libertà anche con la verità, perché le più comuni offese alla verità consistono nelle falsificazioni di fatti o nelle storture di ragionamenti. Aggiungeva che ogni sistema liberale ammette la seconda, ma rifiuta la prima radicalmente, perché rifiuta la pianificazione culturale da parte dei politici perché è sempre spia di un potere dispotico. Bobbio, quando scriveva, come ci ricorda Michele Ainis nel libro composto con Vittorio Sgarbi e intitolato La Costituzione e la Bellezza (2016), aveva in mente l’esperienza del realismo socialista, insieme alla memoria del ministero della Propaganda di Goebbels o del Minculpop fascista. Ovviamente, la pratica della politica culturale, per Bobbio, non è una peculiarità del comunismo e del nazi-fascismo, ma è anche tipica dei sistemi capitalistici che tendono similmente ad esercitarla.
Il parallelismo con la pacchiana vision di Gnassi, che pianifica incultura, falsifica fatti e sragiona, può apparire improprio per le diverse dimensioni dei fenomeni, soprattutto quelli più tragici dei sistemi dittatoriali menzionati, ma rimane indubitabilmente adeguato per lo stile, ugualmente odioso come i tragici fenomeni testé menzionati.
Forse è venuto il momento di passare da una semplice proclamazione di indipendenza della cultura cittadina dalla politica amministrativa a un ancora più attivo e corresponsabile impegno di vigilanza, di rigore e di fermezza nei riguardi di una scellerata pianificazione culturale della città che va sempre più disastrando il fazzoletto di terra in cui viviamo e i cui danni al paesaggio e le devastazioni al nostro patrimonio storico, checché ne dica la Soprintendenza, non sono affatto reversibili.

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