“Ho conosciuto l’ufficiale tedesco che risparmiò il Ponte di Tiberio”

“Ho conosciuto l’ufficiale tedesco che risparmiò il Ponte di Tiberio”

Il prof. Zanoni ci ha inviato questa lettera. E' un documento importante, anche se non ha nessuna pretesa di scientificità. Essendo stato un docent

Rennecke (con la bustina) in una fotografia scattata a Cassino (l'immagine, collezione privata, è stata pubblicata dal Carlino il 21 settembre 2004

Rennecke (con la bustina) in una fotografia scattata a Cassino (pubblicata dal Carlino il 21 settembre 2004)

Il prof. Zanoni ci ha inviato questa lettera. E’ un documento importante, anche se non ha nessuna pretesa di scientificità. Essendo stato un docente universitario, il prof. Zanoni sa bene quanto sia dirimente la terminologia e nel suo racconto parla di un “aneddoto”. Ma l’incontro con l’ufficiale tedesco è avvenuto, e da lui ha ricevuto la confidenza che durante la sua carriera militare solo una volta contravvenne agli ordini ricevuti: lo fece per salvare un ponte a Rimini, nel 1944. Chi era quell’ufficiale? Non ha un nome nei ricordi del professore. Forse si tratta del maggiore Rudolf Rennecke, superiore del maresciallo dei paracadutisti tedeschi Willi Trageser, reduci entrambi dalla battaglia di Montecassino? Dal punto di vista storico la vicenda è nota grazie al lavoro di “scavo” compiuto da Amedeo Montemaggi. Ma il racconto del professor Zanoni in alcuni punti, anche importanti, si discosta dai fatti noti fino ad oggi. Scrisse Montemaggi (riferendo la testimonianza di un soldato tedesco) che il ponte di Tiberio non andò distrutto a causa di “un certo accavallamento di fili, per cui ci fu solo un’esplosione parziale che non fece alcun danno, solo due fornelli esplosero, provocando lievi danni”. I sei fornelli inesplosi vennero rinvenuti 13 anni dopo, nel 1957, quando il manto stradale del ponte venne sistemato e ne diede notizia lo stesso Montemaggi sul Carlino. E, soprattutto, il merito del Ponte risparmiato è stato attribuito a Willi Trageser, mentre l’ufficiale senza nome sostiene di essere stato lui a far piazzare l’esplosivo scadente e, soprattutto, a rimanere vicino al ponte, in modo da deciderne i destini al momento opportuno.
Il colonnello Horst Pretzell riferì, poi, che l’alto comando tedesco aveva ordinato che il ponte fosse risparmiato, ma quest’ordine non risultò ai genieri paracadutisti, né Rudolf Rennecke confermò l’ordine ricevuto di risparmiare il ponte. Quindi ci fu una mano in loco che cambiò il corso della storia. Sarà stata quella dell’ufficiale che svelò il suo segreto seduto ad un ristorante vicino al fiume Arve? E il professore lo riconoscerà in queste foto?

Sono nato a Venezia, mio padre amava viaggiare come prima di lui suo padre e suo nonno. Ricordo le vacanze estive da liceale durante le quali ero certo mio padre mi avrebbe portato con lui in uno dei suoi viaggi, città nuove da scoprire con la trepidazione di un regalo scartato lentamente.
La meta era quasi sempre una città europea ed altrettanto spesso dalla finestra dell’albergo si vedeva un ponte; mio padre da buon veneziano mi ripeteva spesso e con una certa enfasi che rasentava, appunto, la paternale, che “in qualsiasi città avrei sempre trovato almeno due tipi di edifici in grado di raccontare puntualmente la storia di quel luogo: chiese e ponti.

La frase di mio padre rivestirà molti anni più tardi un ruolo fondamentale nell’aneddoto che mi accingo a raccontare, una storia di complice amicizia nata durante l’equinozio del 1944 tra un anonimo ufficiale tedesco ed il Ponte di Tiberio.

Negli anni settanta, nel periodo in cui ero docente all’Accademia di Ginevra, ero solito cenare nel periodo estivo in un piccolo ristorante italiano vicino al fiume Arve. I camerieri erano italiani come la maggior parte dei commensali, era impossibile non notare un distinto uomo tedesco di mezz’età solo al tavolo che parlava con i camerieri in italiano, un discreto italiano. Anche la seconda sera in cui ci incrociammo al ristorante entrambi eravamo soli e decidemmo
(aiutati dal pragmatico titolare del ristorante) di cenare assieme; ascoltai delle sue nobili origini, degli studi classici e di come avesse migliorato il suo italiano durante la guerra attraversando il nostro paese come ufficiale.
Eravamo seduti a fianco della vetrata che dava sul fiume e il ponte attraeva magneticamente il nostro sguardo. Il compito di ogni ponte, ovviamente, è di unire sponde altrimenti o apparentemente separate. E noi fino a quel momento lo eravamo, io un tedioso professore troppo giovane per essere saggio e lui un distinto uomo di affari tedesco amante della vita dopo aver conosciuto profondamente l’arte della morte.

Complice l’ottimo vino e la musica classica in sottofondo iniziarono i ricordi giovanili tra cui, per ispirazione visiva, la frase di mio padre riguardo i ponti e le chiese.

Ricordo perfettamente che i suoi occhi si fecero penetranti, come pervasi da una luce più profonda; stette un minuto buono in silenzio poi mi disse che durante la sua carriera militare solo una volta contravvenne agli ordini ricevuti e fu per salvare un ponte a Rimini nel 1944. Gli dissi che conoscevo bene la città in quanto era la mia meta preferita di villeggiatura estiva e prima che gli chiedessi se poteva e voleva raccontarmi lui continuò a parlare.

Era imperativo in quel momento rallentare l’avanzata alleata e abbattere il ponte di Rimini, quello romano, li avrebbe rallentati non poco. Mi disse che lui stesso ordinò al sergente del genio Trageser (confido ancora nella mia memoria per i nomi) di preparare l’esplosivo per il ponte.
Ma lui ammirava quel ponte. Gli ricordava i suoi studi, quell’antico popolo che costruiva ponti come questo di Rimini e altri che aveva veduto in Europa, strade come la via Emilia e la Flaminia.

E lui si rendeva conto in quel momento di rappresentare un impero nato già morto…probabilmente perché i ponti e le strade li distruggeva invece che costruirli.

La voce si fece più grave raccontandomi che in quei suoi giorni di permanenza a Rimini c’era una immagine che non riusciva a togliersi dalla mente, una immagine veduta nel Duomo di Rimini: il Granchio Malatestiano della Cappella dei Pianeti. Quell’immagine era un tarlo nella sua mente: “Il Cancro è un granchio di mare particolare – mi disse – se perde l’orientamento di notte mentre è sulla sabbia ritorna a ritroso dalla riva al mare e si dice che riemerga solamente l’indomani con la luce del sole”.

La notte dell’equinozio d’autunno 1944 l’ufficiale tedesco ordinò al sergente del genio Trageser di non usare l’esplosivo ad alto potenziale, sarebbe stato sufficiente – mentì – quello arrivato dalla Francia che solo lui sapeva essere molto scadente e sensibile all’umidità. Per non far insospettire nessuno mi disse di averne fatto piazzare una quantità notevole ma collegata malamente per poter essere disinnescata al momento opportuno da una persona sola. Lui stesso.
Fece in modo di rimanere poco prima dell’alba del 21 settembre 1944 solo vicino al ponte mentre il resto della truppa proseguiva per la via Emilia, facendo poi detonare un paio di candelotti di esplosivo inumiditi per far alzare solamente molto fumo. Quando raggiunse il resto del convoglio Trageser vedendo il fumo aveva già comunicato al comando della distruzione del ponte rischiando la corte marziale. Il comando per loro fortuna aveva problemi ben peggiori e il ponte di Rimini fu presto dimenticato.

Costruire, mantenere, distruggere …spesso dopo quell’incontro pensai che la scelta dell’ufficiale prima o poi spetta a tutti. Qual è la cosa giusta da fare? “The right thing” come dicono gli anglosassoni? Abbiamo una scelta questo è l’importante, abbiamo sempre una scelta…

Prima di congedarci mi disse che non volle mai più tornare a Rimini, come non mi disse mai il suo nome. Spero che ci abbia ripensato e che sia tornato a trovare il suo, nostro, vecchio amico.

Rosino Carlo Zanoni

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