Il dopo Errani. Cosa vuol fare dell’Emilia Romagna il gran rottamatore?

Sarà Matteo Renzi a dire l'ultima parola sul successore di Vasco Errani. Gli eredi del grande Pci nella terra di Peppone dovranno allinearsi. Richet

Sarà Matteo Renzi a dire l’ultima parola sul successore di Vasco Errani. Gli eredi del grande Pci nella terra di Peppone dovranno allinearsi.
Richetti, Bonaccini, Balzani, Manca, un civatiano o addirittura Delrio? Ecco lo scenario, finalmente spiegato nel dettaglio, soppesando le chances dei vari competitor. Una partita che si presenta imprevedibile e incerta e che avrà ripercussioni sui territori. A partire da Rimini, laboratorio in piena confusione e fermento. L’analisi di Sergio Gambini.

Ci vorrebbe la conoscenza e la maestria che ha mostrato Erodoto nel descrivere il passaggio dello sterminato esercito di Serse dall’Ellesponto per illustrare e catalogare le numerose fazioni politiche interne al PD e il loro schieramento in vista delle prossime primarie per designare il candidato del centro sinistra alle elezioni regionali dell’Emilia Romagna. E anche un po’ di fantasia e di immaginazione perché, come nel caso di Erodoto, per alcune di queste componenti si sconfina nel campo decisamente incerto ed immaginifico della leggenda, che, per quello che ci riguarda, è naturalmente leggenda metropolitana.
Ci sono tre piani distinti che si sovrappongono in questa intricata vicenda, quello nazionale, quello regionale e quello locale e lo sviluppo di ciascuno di essi finisce per conferire curvature nuove ed a volte inattese alle scelte che i diversi protagonisti della scena politica locale compiono e compiranno in vista dello schieramento di partenza.
Da iscritto al PD sono confortato dall’unico dato certo che si è imposto con evidenza in questo marasma: il candidato renziano delle primarie, che sarà poi il candidato forte, alla fine lo deciderà Renzi.
Se sarà Bonaccini o Richetti o addirittura il Presidente del Consiglio sarà disposto a rinunciare alla preziosa collaborazione di Delrio, lo deciderà comunque lui ed è fuori discussione che uno di questi nomi possa scontrarsi con l’altro, in una lotta fratricida.
Non è una gran esito per gli orgogliosi eredi del grande PCI dell’Emilia Romagna, ma presso la nostra base, il leaderismo renziano ha un grande successo anche perché della palude infeudata da piccoli e grandi professionisti delle carriere e dai capicorrente locali decisamente non se ne poteva più.
La scelta si conoscerà nei prossimi giorni ed ha un grande spessore politico per capire dove davvero vuole portare Matteo Renzi la regione a maggior insediamento organizzato del PD.
Non si tratta solo di definire la quota di discontinuità nelle politiche di governo regionale che verrà realizzata rispetto all’era di Vasco Errani, ma anche se la regione Emilia Romagna tornerà ad essere, dopo qualche anno di appannamento, un laboratorio politico di innovazione programmatica.

Matteo Richetti, renziano della prima ora, presidente dell’assemblea regionale prima di trasferirsi a Montecitorio, è il democristiano che non ti aspetti.
La fusione tra DS e Margherita – l’amalgama mal riuscito, secondo le taglienti parole di D’Alema – è avvenuto nella nostra regione anche come sommatoria di radicamenti diversi in gangli del potere e dell’economia regionale. Da una parte i governi locali, il sistema pubblico delle partecipate, il grande mondo della cooperazione, le potenze sociali tradizionalmente legate alla sinistra, dall’altra i resti del collateralismo dello scudo crociato insediato nelle fondazioni bancarie, nelle associazioni di categoria, nelle banche popolari, nelle Camere di commercio. Radici diverse, ma una comune convenienza a mettere a profitto nuove sinergie di governo e di potere, mai sperimentate nei decenni della prima repubblica.
Tra l’altro le componenti della Margherita non erano tutte assimilabili all’ambizioso disegno ulivista di Prodi e perciò, una volta tramontato il professore, hanno trovato nella combinazione di quegli insediamenti il principale collante per la convivenza dentro un PD regionale a prevalente trazione post comunista.
Richetti è risultato l’erede DC più eccentrico e lontano rispetto a questa impostazione, fino ad affrontare le primarie che designarono Bersani schierandosi da subito all’opposizione, cosa obiettivamente non facile nella regione culla del “tortello magico”. Per farsi portavoce della rottamazione in Emilia Romagna ci voleva una buona dose di coraggio politico, di autonomia e di libertà dai condizionamenti del sistema di potere regionale e locale.
Il parlamentare modenese ha anche favorito, dopo il fallimento di Bersani, l’avvicinamento di una parte consistente del mondo DS a Matteo Renzi. Chi ha assistito al tour delle feste del PD dell’estate scorsa, quando ancora Stefano Bonaccini, segretario regionale, non aveva deciso il da farsi, porta con sé l’immagine di un fine politico che con le sue parole e la sua iniziativa ha spianato la strada alla conversione di tanti bersaniani.
Conquistata l’Emilia Romagna a Matteo Renzi, con il cambiamento di schieramento del segretario regionale, divenuto in modo inatteso il responsabile renziano nazionale della campagna delle nuove primarie, la stella di Matteo Richetti si è però un po’ offuscata. Il passo falso più grave è stato il solitario voto contrario all’ingresso del PD nel Partito Socialista Europeo, ingresso voluto con tanta determinazione da Renzi. Un errore politico purtroppo molto evidente, particolarmente dopo il successo elettorale di primavera e la dimensione di leader internazionale conquistata dal Presidente del Consiglio italiano proprio grazie a quella scelta di schieramento a sinistra, in una delle due grandi famiglie politiche europee.
La forza di Richetti nella corsa alla presidenza della regione è anche il suo punto di debolezza, la sua candidatura rappresenta infatti una manifesta discontinuità con l’erranismo, del quale ha sempre vissuto ai margini.
Rassicurare la grande preoccupazione del ceto politico che ha governato i territori della regione negli ultimi quindici anni è divenuto, nelle ultime settimane, il suo mantra, ma nonostante ciò è ancora incerto se quelle centinaia di dirigenti e amministratori della cosa pubblica si fideranno davvero delle sue promesse.

L’eventuale candidatura dell’ex sindaco di Forlì, Roberto Balzani, è legata al successo di questo tentativo. Anche lui è un renziano ante litteram, come Renzi vinse le primarie per la carica di sindaco contro l’apparato DS, ma a differenza di Richetti ha accentuato i caratteri di discontinuità invece di smussarli.
Allo stato attuale è l’unico di cui si conosca un accenno di piattaforma programmatica, i cui contenuti sviluppano le battaglie che aveva già intrapreso come sindaco. E’ l’outsider vero, la rottura con il passato, la bestia nera dell’apparato, la speranza di una sinistra liberal e lontana dal vecchio sistema di potere regionale. L’avere lasciato Forlì dopo il primo mandato non gioca però a suo favore.
Sono personalmente convinto che Balzani, in presenza di una candidatura di Richetti, rinuncerà alle primarie. Il grosso dei renziani della prim’ora di fronte ad una vincente investitura romana per Richetti lo abbandonerebbe e la sua battaglia a quel punto sarebbe una corsa di assoluta minoranza, una testimonianza priva di possibilità di successo, mentre le sue ragioni, seppur in modo più paludato, sarebbero comunque ben rappresentate dal parlamentare modenese. Nel caso la decisione di Matteo Renzi si fermasse invece su Bonaccini, allora a Balzani si aprirebbero spazi politici più ampi e, seppur con possibilità di prevalere non certe, potrebbe farsi l’alfiere della discontinuità con l’epoca di Errani.

Stefano Bonaccini ha provato fino ad ora a restare più defilato. La ragione va ricercata nel profilo nazionale che è venuta assumendo la sua attività e nella necessità di caratterizzare una sua eventuale candidatura come una soluzione politica di unità e di ricucitura delle diverse anime PD.
Il front runner della continuità era già in campo e soltanto un anno fa nessuno avrebbe messo in dubbio che il futuro candidato a governatore sarebbe stato il sindaco di Imola, Daniele Manca. Nella veste di segretario regionale tutti davano per certo il convinto appoggio di Bonaccini al vero pupillo di Errani.
Poi il mondo ha cambiato verso ed anche le cose più sicure sono state messe in discussione. Stefano Bonaccini ha abbandonato Bersani ed i suoi pretoriani, alle primarie Cuperlo, anche nella regione che avrebbe dovuto sostenerlo con maggiore forza, ha perso male ed ha rischiato di essere raggiunto da Civati e Daniele Manca da sicuro vincente è diventato un candidato di bandiera, un candidato eventuale che scenderà in campo per tutelare il vecchio sistema di potere solo se il candidato renziano sarà troppo spostato sul versante della rottamazione.
Anche Bonaccini viene da Modena e prima della chiamata romana si è parlato a lungo di lui come possibile sindaco della città emiliana. Non disdegnerebbe certo una esperienza di governo regionale, ma certamente ha aperte di fronte a sé molte altre strade per continuare il suo impegno politico e scenderà in campo perciò solo di fronte ad una prospettiva certa.
Stefano Bonaccini è un uomo chiave, è stato il traghettatore di una parte del ceto politico dirigente regionale, dal sostegno a Bersani al consenso a Renzi. Lo ha fatto in tempi molto rapidi, ma con grande cautela politica, ottenendo di compiere il passaggio senza sottoporsi a nessun reale percorso critico rispetto alle posizioni precedentemente sostenute.
In questo modo ha potuto essere il garante di una trasmigrazione indolore che ha rassicurato i dirigenti coinvolti evitando travagli e pesanti rese dei conti che in ciascun territorio avrebbero potuto sconvolgere equilibri e carriere.
Basti pensare a Rimini dove in poche giornate sono divenuti renziani sostenitori di Bersani come il presidente della provincia Stefano Vitali ed il sindaco Andrea Gnassi. Tiziano Arlotti, d’altra parte, si era mosso un attimo prima e così altri sindaci.
Bonaccini è nella collocazione giusta per cucire attorno a sé un consenso ampio e per lui vale lo stesso discorso fatto a proposito di Richetti sull’altro versante. La sua candidatura renderebbe del tutto marginale quella di Manca, spostando su di sé le speranze di coloro che confidano in un approccio più continuista.

Nel flipper del PD, tuttavia, le palline non stanno mai ferme a lungo ed in questo mosaico si è inserita recentemente una nuova tessera. Dopo l’elezione di Matteo Orfini a presidente del PD, il fronte che alle primarie aveva sostenuto Cuperlo, presidente dimissionario, è andato in frantumi. La corrente cosiddetta dei “giovani turchi”, per capirci quella di Stefano Fassina, di Andrea Orlando e di Orfini si è spaccata. Una parte ha ora ricucito la frattura con Renzi e sta ripercorrendo, pur mantenendo la propria identità più ancorata ai tradizionali valori della socialdemocrazia, il tragitto intrapreso la scorsa estate da Bonaccini. Se in regione si attendono sussulti a seguito di questa nuova dislocazione, a Rimini potrebbe essere terremoto.
Come spesso succede i nuovi arrivati nel reclamare il proprio spazio lo rivendicano direttamente nei confronti di chi li ha preceduti nel percorso di avvicinamento.
Ne ha anche parlato recentemente il quotidiano La Repubblica nelle sue pagine locali. A quanto si dice il capofila di questa parte dei “giovani turchi”, il parlamentare bolognese Andrea De Maria, avrebbe garantito il proprio appoggio a Matteo Richetti.
In questo caso l’asse della distinzione politica non sarebbe più quello tra continuità e discontinuità, ma l’esigenza di tutela di identità e programmi maggiormente caratterizzati a “sinistra”. Gli interpreti di questo disegno preferirebbero la candidatura di Richetti proprio per consentire che la sensibilità da loro rappresentata possa contrattare precisi spazi programmatici e ruoli di governo che nell’ipotesi Bonaccini sarebbero invece annacquati e già occupati dai transfughi del vecchio correntone bersaniano nel quale convivevano diverse matrici culturali.

Sullo sfondo di questo scenario, che rimane ancora fondamentalmente una partita a due, incombe la possibile candidatura del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano Delrio, ex sindaco di Reggio Emilia. E’ il braccio destro di Matteo Renzi, anche lui proviene dalla Margherita, ma come presidente dell’ANCI ha costruito un importante tessuto di relazioni e rapporti con i governi locali dell’Emilia rossa.
La sua candidatura porrebbe certamente fine ad ogni discussione perché sia i sostenitori di Bonaccini che quelli di Richetti sarebbero tacitati da una proposta così autorevole, tuttavia la funzione che svolge al governo nazionale appare in questo momento difficilmente sostituibile. Se la scelta dovesse ricadere su di lui c’è chi giura che sarebbe un chiaro segnale della volontà di Renzi di andare rapidamente ad elezioni anticipate. La sua assenza si farebbe comunque sentire a Palazzo Chigi, anche dopo il voto, ma nell’ipotesi di vittoria, il Presidente del Consiglio potrebbe in cambio contare sul tessitore ideale, dal versante delle regioni, per fare avanzare la riforma del Titolo V della Costituzione e quella del Senato in chiave di Assemblea delle Autonomie.

In passato, agli esordi di questa partita, si era affacciato anche il nome di Franceschini, il cui radicamento però nel PD regionale è in rapido declino. Il Ministro dei Beni Culturali appare come uomo di un’altra epoca, segretario nazionale del dopo Veltroni e competitor delle prime primarie di Bersani, ha visto drasticamente ridimensionato il suo ruolo di punto di riferimento dell’area cattolica dentro il PD, né sembra disporre di un potere di condizionamento interno ai palazzi romani capace di lanciarlo su Via Aldo Moro.
In corsa ci sarà certamente anche un rappresentate della corrente che fa capo a Filippo Civati. Dovrebbe garantire, tra l’altro, la presenza di una quota rosa nel gioco tutto maschile delle primarie emiliano romagnole. La corrente ha avuto un buon successo di preferenze, peraltro inatteso, con l’elezione della giovane occupypd Elena Schlein al parlamento europeo.
Oggi tuttavia con il grande pasticcio dei dissidenti del Senato sulle riforme costituzionali, i civatiani, alle cui file appartengono molti di essi, appaiono in grande difficoltà. Sono entrati in un cono d’ombra, si dice ci sia anche chi sta meditando l’abbandono del partito, mentre la base fatica a comprendere l’esasperante braccio di ferro ingaggiato contro Renzi. D’altra parte se lo spazio per la sinistra dei democratici si restringe come consenso, si affolla invece di aspiranti comandanti. Sono infatti in arrivo i transfughi di SEL di Gennaro Migliore, mentre i reduci del sostegno alle primarie di Cuperlo si vanno segmentando contendendosi il medesimo obiettivo di prendere la leadership della rappresentanza identitaria.

Dietro la semplificazione dei due assi politici lungo i quali si snoda il confronto nel PD, quello continuità/discontinuità rispetto all’era Errani e quello innovazione/conservazione della identità della sinistra, ci sono ovviamente analisi, sensibilità programmatiche, idee di riforma del modo di governare assai più ricche e più complesse, ma c’è anche un quadro di attese personali e di futuri organigrammi che condizionano la ricaduta locale dello scenario regionale.
Rimini, da questo punto di vista è un laboratorio in piena confusione e vive un grande fermento, perché è uno dei pochi territori regionali nei quali i vertici bersaniani del partito, che avevano vinto sul filo di lana le primarie per il segretario provinciale, non hanno seguito Stefano Bonaccini nella sua trasmigrazione. Inoltre proprio quella componente maggioritaria potrebbe risentire fortemente della spaccatura avvenuta nei “giovani turchi”.
E poi c’è il tema della rappresentanza del nostro territorio in regione. Mentre il consigliere regionale Roberto Piva ha concluso i suoi due mandati ed è soggetto a naturale ricambio, anche l’assessore regionale Maurizio Melucci dovrebbe considerare esaurita la sua esperienza a Bologna.
Tutto è destinato a cambiare e le scelte nazionali/regionali del candidato a governatore impatteranno su di una mappa riminese di correnti e schieramenti in continua ridefinizione. La scalata ai seggi regionali non è mai stata così imprevedibile ed incerta come in questa occasione.

Sergio Gambini

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