Rimini romana ha avuto due porti? Il falso “seno di mare” di Cesare Clementini

Rimini romana ha avuto due porti? Il falso “seno di mare” di Cesare Clementini

“Haveva la Città due porti di Mare" scrive il Clementini nel 1617. Oltre a quello indiscutibilmente noto, ce ne sarebbe stato (addirittura sino alla metà del XVI secolo) un secondo, formato da una insenatura che cominciava dall'oratorio di San Girolamo e arrivava in mare all'altezza dell'attuale palazzo delle poste di via Roma. Un falso, secondo il prof. Rimondini, che ha avuto però molto seguito e parecchi convinti sostenitori. Fino ai giorni nostri. "Mi piacerebbe che le mie affermazioni venissero discusse e magari confutate". La sfida è lanciata.

Mi piacerebbe che le mie affermazioni e ipotesi sul “Seno di Mare” o “porto salso” o secondo porto romano di Ariminum venissero una buona volta discusse e magari confutate, posso certamente pensare di avere ragione e invece di fatto sbagliarmi, mi dispiacerà ma dovrò accettare, nel caso, le eventuali buone ragioni degli altri. Intanto però espongo di nuovo le mie ipotesi di lavoro, che credo ancora valide, mai confutate, anzi questa volta supportate da nuovi argomenti, e in modo articolato partendo dal testo dell’inganno dello storico barocco Cesare Clementini – le pagine 56 e 57 del primo volume del Racconto istorico del 1617 – e metto delle lettere nei punti a mio avviso più falsi ed eloquenti:

“Haveva la Città due porti di Mare, per uno servendo il Fiume Arimino, nel quale entravano con vele piene grosse navi, come hanno veduto i nostri Avi, legate ad anelli confitti nel bellissimo Ponte col tempo fatto d’Augusto c’hoggidì si conservano (a). Ma questo Porto, benché infinite volte negli antichi, e ne’ moderni tempi risarcito, si dubita un giorno ancora, poco men di perderlo.
E per l’altro, un Seno di Mare istesso (b), posto fra il predetto, e ‘l Fiume Ausa, il quale formava una meza Luna, capace di ogni grossa armata (c). Considerò il Consolo che questo grandemente restava offeso da Maestro, e Tramontana, venti impetuosissimi (d), onde vi riparò acciocché i Vaselli non perissero, con una fortissima muraglia, fondata di grosse, et vive pietre alla larghezza di mezza canna, et altezza d’una intiera continuando poi l’alzata con spoglia di mattoni cotti, e bitume, e chiara compastate insieme, infine à due altre canne (e).
Comincia questo muro, ove di presente è l’Oratorio de Confrati di S.Girolamo, (f) spingendosi per un quarto di miglia in mare, in forma lunare con una Torre in cima d’honesta altezza, ove si teneva il lume à beneficio de’ naviganti (g), il tutto si vede anco hoggidì intiero, se bene inutile, sendosi allontanato il mare un pezzo, che cinquant’anni sono quivi faceva fondo atto a ricever qual si fosse grosso legno (h).
Cinse P. Sempronio ancora il detto Porto con gradili di marmo (i), il che pur si vede, non ostante la quantità fatta cavare da mio Padre per lo valore di più di quattrocento ducati, sendo Padrone di quel Sito, e Terreno, come anco hoggidì siamo, e fu già delle Monache di S. Christoforo, ma permutato l’anno mille trecento ottanta sei con Giovanni di Ranieri Clementini, uno de’ miei Antenati (l).”
[1]

Rimini, afferma il Clementini, aveva non un solo porto ma due porti sul mare; il primo è quello storicamente sicuro sul fiume, ma degli anelli conficcati nel ponte per legarvi le barche (a), che si vedevano, dice lui, nel 1617, non vi sono tracce se non in una incisione fantastica di Alessandro Bornaccini. Il secondo porto, dice l’autore, è formato da un “Seno di mare”, cioè da una insenatura che comincerebbe dall’oratorio dei confratelli di San Girolamo (b) (f) per arrivare dopo “un quarto di miglio” (g) – un miglio italiano m.1.851, un quarto m. 462,74 – in mare, nel sito ove allora era la Torraccia e oggi è il palazzo delle poste dentro il recinto della stazione, oltre via Roma.
Riuscite ad immaginarlo? Il mare entrerebbe nell’antica e nell’attuale città con un golfo “a forma di meza Luna”, come un Corno d’Oro di Istambul in miniatura; per di più, se credete a questo, beccatevi anche altre due fantasie barocche: questa insenatura era capace “di ogni grossa armata” (c) cioè di ogni grossa flotta da guerra, quando? In antico? No, cari, più sotto ribadisce “cinquant’anni sono quivi haveva fondo atto a ricever qual si fosse grosso legno” (h). Il Clementini afferma che nel 1567 il seno di mare a forma di mezza luna era ancora in essere e funzionante.

Ricostruzione sulla pianta di Alfonso Arrigoni del “seno di mare” dalla Torraccia all’Oratorio di San Girolamo, che il Clementini afferma capace di ricevere flotte di navi.

Guardate alla pianta di Rimini di Alfonso Arrigoni, unita al libro del Clementini: tra il “Muro dell’antico Porto” – che indica in realtà le “Bertesche di mare” malatestiane con la torre cilindrica del ‘500 detta la Tenagliozza – e la raffigurazione dell’interno della città, chiusa dalle mura malatestiane e dal bastione quadrilatero di San Cataldo del tempo di Carlo Malatesta, fino all’oratorio di San Gerolamo vi pare possibile che cinquant’anni prima dell’incisione della pianta vi fosse un golfo di mare capace di ricevere una flotta? No, non è possibile.
Ma non basta; segue la descrizione delle Bertesche di mare, che sappiamo opera malatestiana della metà del ‘300, presentate come “una fortissima Muraglia” (e), voluta dal console Publio Sempronio Sofo, che nel 268 fondò la colonia di Ariminum, per riparare i vascelli dai venti Maestrale e Tramontana (d) – ma l’Adimari precisa: si tratta del vento di Levante [2] -, con una torre faro (g). E’ interessante però la descrizione con misure di questa muraglia: forse dipende da un’osservazione e da una misurazione vera delle pietre di fondamento del muro malatestiano – pietre probabilmente prese dai Malatesta nell’Anfiteatro – e cioè: un muro largo mezza canna, cioè largo m. 2,71, di altezza di una canna, cioè m. 5,42 -; la parte superiore in mattoni sarebbe stata alta due canne m. 10,84. Ma, ribadisco, sono misure che si riferiscono al muro malatestiano costruito nei fondamenti con materiale di certo recuperato dall’Anfiteatro. Si prenda atto anche che il Clementini non parla di “banchina” o di “molo”. Lui descrive il muro solo come paravento. La banchina se l’inventano i raffinati boccaloni del ‘700 e gli addetti al museo di oggi, affascinati persi dal Clementini.
Quando i resti di questo muro furono trovati nello scavare i fondamenti del palazzo delle poste, pochi anni fa, vennero scattate delle foto, esposte in museo, senza misure né pianta, le immagini che sembrano proprio ‘fondamenta’ sono presentate come “banchina” del porto romano.
I “gradili di marmo” (i) o gradinate di pietra credo che tutti sappiano riconoscerle come resti dei sedili dell’Anfiteatro di Ariminum, ancora parzialmente visibili. Non si tratta qui di un falso, ma di un errore. Prendo atto infine che Oreste Delucca, dopo la sua ventennale e veramente strepitosa ricerca nell’archivio notarile, pur dando credito alla “muraglia” clementiniana, non riesca a trovarla nei documenti notarili dal ‘200 al ‘400. Trova bensì un “murus vetus” nell’area che ci interessa, che però sarebbe “ortogonale al muro romano” [3]. Né pare che abbia trovato tracce della descrizione clementiniana del “porto salso” dentro le mura tra l’oratorio di San Girolamo, la chiesa e il monastero di Santa Maria degli Angeli fondati nei primi del ‘300 dalla Beata Chiara, una buona parte di un isolato, gli orti e le mura, negli altri documenti notarili. In quest’area non c’è traccia di mare, di golfo, di muro. Oreste ha trovato migliaia di documenti nuovi, avrebbe potuto riscrivere la storia di Rimini, peccato che non l’abbia fatto, ha seguito una tradizione fuorviante. E il Clementini afferma che il porto salso c’era dai tempi della fondazione di Ariminum fino alla metà del secolo XVI!

Pietro Santi, disegno della Torraccia prima della sua caduta nel 1806. E’ la torre malatestiana che era stata costruita assai probabilmente impiegando le pietre dell’anfiteatro, intorno alla metà del ‘300. Con metonimia – parte per il tutto – era chiamata “Le bertesche di mare” dal nome delle difese sommitali in legno, note dal 13. La torre entrava in acqua e con il muro difendeva la spiaggia dalla parte di Riccione, mentre una simile difesa era stata costruita, come già sappiamo dalla parete del Borgo San Giuliano.

Pietro Santi. I resti della Torraccia dopo la caduta.

E veniamo alla torre “ove si teneva il lume”, la Torraccia (g). Il Tonini trascrive la descrizione e le misure di questa torre riportate dal suo predecessore nella Biblioteca Gambalunga, Antonio Bianchi, dopo il 28 gennaio 1807, data del crollo della torre:

“…la torre era di mattoni, basata sopra un molo di marmi ben connessi con quantità grande di piombo, il quale terminava ad angolo acuto, i cui due lati esterni al di là della base della torre erano di 5 piedi riminesi – un piede riminese m. 0,5425; 5 piedi m. 2,71 -. La torre aveva sei piedi per ogni lato – m. 3,25 -, ed era alta sette lunghezze – m. 22,75 -. Dopo la caduta di detta torre fu demolito anche il molo, di dove fu cavata una quantità di marmi fino ad una certa profondità…” [4]

Avrete notato che Antonio Bianchi parla di “molo”, termine che gli viene dal Bianchi – vedi sotto – che, come già osservato, il Clementini non nomina. Il falso generava errori.
Un disegno di Pietro Santi del 1807 ci mostra la torre crollata per la metà e poi un altro fa vedere la sua base dopo il crollo del tutto. La torre è rappresentata troppo stretta rispetto alle misure del contemporaneo Bianchi. Certamente è interessante la rappresentazione della base della torre a più ordini di massi squadrati. Come già notato, si può ragionevolmente pensare che i Malatesta per costruire le fondamenta delle loro difese di spiaggia abbiano prelevato i sedili di pietra. dell’Anfiteatro. [5]
Dall’analisi del brano del Clementini mi sembra patente che si debbano considerare fantasie barocche o proprio falsi i punti (a), (b), (c), (f), (g), (h), ed errati i punti (d), (i). Il punto (l), che il Clementini dice basato su documenti notarili verosimilmente è vero. Sono pronto a discutere il tutto e le articolazioni di dettaglio. Chi non è d’accordo scriva le sue ragioni e le spedisca a Rimini 2.0.

L’UNICO PORTO ROMANO SUL FIUME E POI IL PORTO DELLA ”AVEXA” NEL SITO RIMINESE DI RAFFAELE ADIMARI

Ci sarebbe da esaminare anche il testo dell’Adimari, pubblicato un anno prima di quello del Clementini, il Sito riminese in due libri. Nel primo libro Raffaele Adimari scrive che Rimini ha il luogo del porto “il quale ha fatto sempre la bocca del Fiume Marecchia”: é chiaro no? Ha scritto: “sempre”. E cita come prova visiva il bassorilievo di Agostino di Duccio nel Tempio Malatestiano con la barca che esce a vele spiegate. Guardatelo bene anche voi.
Ma non tante pagine e forse tanto tempo dopo avere scritto queste precise parole sul porto romano deve aver parlato col Clementini, che deve averlo convinto di sostenere, per carità di patria, l’esistenza del secondo porto, il “Seno di Mare”. Nel secondo libro scrive:

“…leggendosi nelle Historie che questa nostra Città era dottata di così buon porto, che in esso si radunavano l’Armate di Mare, di Galere, Navi et di ogni sorte di Vaselli; il che, come di sopra si è accennato, era dove è “la Torre dell’Ausa”, et alla drittura dell’amphiteatro…” [6]

E cita documenti di imbarchi di truppe veneziane e malatestiane del ‘400 che sono nelle cronache malatestiane ma non descrivono il porto di attracco e di partenza –. E allora, caro Raffaele, il porto unico di “sempre” del fiume del primo libro che fine ha fatto? L’Adimari poi, già che c’è, propone di fare un nuovo grande porto nell’Ausa. Non è una grande idea. Certo è un pensiero migliore della trasformazione dell’Ausa in fogne, ancora in corso. Che vi fosse in diversi tempi fino al secondo dopoguerra un piccolo porto alla foce dell’Ausa è accertato storicamente. Dire che la Torraccia venisse chiamata “la Torre dell’Ausa”, come fa l’Adimari per primo, significa usare un’espressione accettabile solo nel senso di torre vicino all’Ausa. Ma quest’espressione ha dato luogo a un errore: chiamare il porto dell’Ausa quello del falso del Clementini, un errore da un falso. Il secondo porto romano “seno di mare”, anche nelle pagine del Tonini diventa erroneamente “il porto dell’Ausa”, il porticciolo accertato negli Statuti di Rimini. [7]

Luigi Tonini, incisione che rappresenta il corso del Marecchia che taglia per la città e il Borgo di marina e va a sfociare alla Torraccia. Questa metamorfosi del falso del Clementini era stata suggerita nel ‘700 da Tommaso Temanza, in alternativa ai due porti, quello di mare per lui impossibile da mantenersi. Nell’800 il Tonini la fa sua. E tuttora gli sprovveduti la ritengono valida. Ma non ci sono segni fisici di questa deviazione a sinistra del porto e dell’invasione della città o del Borgo di Marina.

Il lato destro del porto medievale e rinascimentale.

Faccio seguire alcuni documenti editi ed inediti relativi alla sorte della menzogna dei “due porti” romani nel ‘700 il secolo dei Lumi. Ad occuparsi del falso porto “Seno di Mare” accettando le invenzioni barocche clementiniane sarà il principale studioso del nostro ‘700: il medico erudito Giovanni Bianchi (Rimini 1693 – 1775) alias Janus Plancus. Lo studioso cercherà di convincere Tommaso Temanza, “proto” di Venezia, cioè ingegnere veneziano addetto alla cura delle lagune, a Rimini negli anni ’40 del ‘700 per un’ispezione sullo stato del ponte romano e poi impegnato dal Bianchi in un’operazione editoriale sulle antichità della città, e trent’anni circa più tardi si darà da fare col secondo porto anche col prelato del Vaticano Stefano Borgia che stava studiando i porti pontifici.
Ma Giovanni Antonio Battarra (Pedrolara Coriano 1714 – Rimini 1789), allievo del Bianchi, non si farà infinocchiare. Queste ‘ragioni’ del Temanza mi sembrano sufficienti per chiudere da un punto di vista fisico-idraulico la questione del falso. L’obbiezione fisica e idraulica principale al porto su un “Seno di Mare” fu opposta da Tommaso Temanza (1705-1789) al dottor Giovanni Bianchi. Un seno di mare, affermò, in una spiaggia sabbiosa non si mantiene idraulicamente e fisicamente tra due fiumi così vicini, il Marecchia che butta in mare ghiaia e l’Ausa che butta fango; in breve tempo il porto, che sarebbe geograficamente piccolissimo, verrebbe riempito e chiuso dagli inerti trascinati. Un porto di mare sulla spiaggia per mantenersi richiede collegamenti con retrostanti lagune estese come quelle antiche di Ravenna o quelle dei suoi tempi di Venezia. Il Temanza per primo ipotizza, in alternativa ai due porti, che ve ne fosse solo uno quasi una sintesi dei due porti romani che il Clementini aveva inventato. Ipotizza, per venire incontro al Bianchi, che il Marecchia, piegando verso est, attraversasse lo spazio del Borgo di Marina e della spiaggia e sfociasse nel sito della Tenagliozza e della Torraccia, cosa che il Bianchi gli contesta con sicumera ribadendo l’esistenza di due separati porti romani, accertata, gli scrive, fin dai tempi di Strabone. Poi però deve averci ripensato e accetterà l’idea del Temanza. [8] Come abbiamo già accennato sarà il Tonini, seguito da tanti altri, anche a noi contemporanei, ma più giovani di chi scrive, a far propria questa “proposizione”.
Ancora, il Bianchi tenta di persuadere monsignor Stefano Borgia (1731-1804), futuro cardinale, che si stava occupando di un’opera politica e storica sui porti dello stato pontificio, e che ne aveva dubitato, sull’esistenza dei due porti romani di Rimini. In una lettera del 25 aprile 1770 il Borgia scrive:

“Convengo con lei su la difficoltà di sapere il tempo preciso dell’interrimento del Porto Salso di questa Città; ad ogni modo veggo che la cosa può sicuramente stabilirsi dentro il secolo XVI.
Io non so se da questo incominciato interrimento debba ripetersi l’idea del nuovo Porto su la Marecchia poiché il Cardinale Anglico nel secolo XIV ce li descrive come ambedue fiorenti, e del Porto della Marecchia pare a me che ci sia motivo da ritenerlo per fino dal secolo XI.”
[9]

Prima porta medievale che dava sulle banchine del porto.

Ed ecco un nuovo esempio di come un falso ne produca necessariamente molti altri. La citazione della Descriptio Romandiolae del cardinale Anglic Grimoard viene tradotta in modo errato da gente che di sicuro sapeva il latino assai meglio di chi scrive; ecco la frase che è estratta dall’opera del cardinale Anglic del 1371:

“Civitas Arimini … habet portum pulcherrimum supra mare iuxta civitatem et supra flumen Mariculae” [alla lettera: La città di Rimini … ha un porto bellissimo sul mare presso la città e sopra il fiume Marecchia].

La traduzione che a me sembra errata aggiunge un altro porto al singolare portum: cioè traduce così: “E ha un porto bellissimo presso la città sul mare e un altro porto sul fiume Marecchia” [ma allora dovrebbe esserci un aliud – altro – che non c’è e bisogna inventarselo]. Ma io credo sia più corretto tradurre: “E ha un porto bellissimo [parte] sul mare presso la città e [parte] sul fiume Marecchia”. E’ vero che non ci sono i due partim – parte – che peraltro sono intuibili, ma la traduzione che articola un porto parte sul fiume e parte in mare mi sembra più corretta e accettabile della traduzione che crea i due porti inventandosene uno. La raffigurazione di questo porto in due parti si vede in una formella del dossale del 1409 con la storia di San Giuliano del pittore Bittino da Faenza conservata nella chiesa di San Giuliano.
E’ il porto di Carlo Malatesta del 1400 che mostra una parte sul fiume, raffigurandone le sponde contenute da un muro di mattoni orlato da massi di pietra d’Istria – come poi verrà ripreso nel ‘700 -, e una parte nel mare, detta la palata, con gabbioni di vimini intrecciati.
Ma il Bianchi cita anche un passo dell’antico geografo greco Strabone (63 a.C-23 d.C.), che il Tonini riassume:

“Strabone mentre annovera la città di Rimini [prima della fondazione della colonia nel 268 a.C.] fra le principali degli Umbri, assicura che aveva fiume e PORTO dello stesso nome [della città].”

Come si possa sostenere che in questo passo in cui è elencato fiume e porto “dello stesso nome [della città]”, e quindi avendo lo stesso nome della città, fiume e porto sembrano un tutt’uno, la “e” non è disgiuntiva, come vi siano attestati due porti non mi è facile capirlo. Ma io non conosco il greco e non posso esprimere un parere da esperto. [10]
Anche il Bianchi nel 1770, come anticipato, sembra si fosse convinto dell’esistenza di un unico porto formato dal Marecchia con foce alla Torraccia – il presunto faro -, cioè aveva finito per accettare la “proposizione” suggerita circa trent’anni prima dal Temanza, che sulle prime aveva negato. In una lettera all’Amaduzzi del 15 febbraio 1770 il Bianchi argomenta, a proposito dei dubbi di monsignor Borgia:

“…intorno de dubbi che egli aveva intorno del Porto Salso, che era anticamente in Rimino e che ora da molto tempo non c’è più, non essendogli rimasto che la Torre del Fanale, e una parte dell’antico molo, non servendo ora di porto che il Canale del fiume Marecchia, che fu deviato da quel porto salso e ridotto a Porto, il quale è stato pure servibile fino da quattro cinque anni in qua…” [11]

Adesso crede che il Marecchia piegasse a sinistra fin dentro “il porto salso” del Clementini e che poi sia uscito in mare diritto come ai suoi tempi – e ai nostri -.

Invece Giovanni Antonio Battarra (1714-1789), che pure era andato in cerca delle tracce di questa deviazione del Marecchia negli orti e negli spazi di Marina col suo maestro Giovanni Bianchi, finisce per non credere alla piega del Marecchia verso la Torraccia presunto faro antico. I due studiosi riminesi cercavano di trovare le tracce del collegamento del Temanza tra il Marecchia e il presunto porto della Tenagliozza e della Torraccia, usando come prove del passaggio del Marecchia la presenza di ghiaia sui terreni in quegli spazi di presunto passaggio; come sappiamo da una lettera del Battarra a Cristofano Amaduzzi del 5 aprile 1770:

“Ieri [4 aprile 1770] fummo con monsignor Bianchi a visitare la Torrazza, la Tanagliozza, e le mura dei Cappuccini dove è il supposto Anfiteatro, e visitammo quei muri dell’antico Porto, e certamente non si raccapezza se fosse fatto dall’Ausa, dalla Marecchia, oppure da un seno di Mare. […] Circa il corso antico della Marecchia verso l’Ausa né io, né il Dottor Bianchi siamo troppo persuasi, conforme anche difficilmente può indovinarsi dove fosse il canale del vecchio Porto nelle vicinanze della Torraccia, non essendovi alcun vestigio. Il Marecchia ha varie volte abbandonato il suo alveo, ma non mai verso l’Ausa; perciocchè per queste Campagne che sono fra il Ponte e S.Arcangelo si trova un’ immensità di ghiaja, ma fra il corso presente e l’Ausa per qualunque scavo si faccia non se ne trova una quanto un mezzo bajocco.” [12]

Nel secolo seguente gli storici non fecero che seguire le elucubrazioni del Bianchi. Purtroppo Luigi Tomini si bevve non solo le menzogne del Clementini ma anche gli errori di aggiustamento che ne erano derivati producendo, come abbiamo accennato, altri tre grossi errori di suo – vedi sotto -. Abbiamo però visto che non tutti gli storici del ‘700 ci credettero. Non il Battarra, che era il più razionale e culturalmente onesto di tutti, che negò al Bianchi di alterare le misure del canale di porto in un disegno che aveva fatto per monsignor Borgia per farlo apparire più largo. L’amor di patria non gli faceva aggio sulla ragione matematica.
Il Tonini godeva giustamente di molta considerazione presso gli archeologi e gli storici del ‘900.
Guido Achille Mansuelli purtroppo gli dette credito e tutti gli altri dietro a lui.

Luigi Tomini incisione. Qui la fantasia del Tonini, compromessa dal falso del Clementini, tocca il delirio: il corso del fiume subisce ben quattro variazioni – senza alcuna prova fisica o documentale -. La prima si basa sulla variante del Temanza, il fiume che piega a destra e sbocca alla Torraccia attraversando la città e mette nel Borgo San Giuliano la chiesa di San Nicola, ben nota parte del Borgo di Marina! La seconda si basa su un errore di valutazione dell’età dell’ultimo telo di mura e torri del Borgo, che lui ritiene del secolo XIV, mentre sono difese dell’epoca di Roberto il Magnifico. La terza giravolta, si basa su palizzate, trovate mentre si scavavano muri della fabbrica di acido solforico, rimette il fiume nel corso che si vede nel bassorilievo di Agostino di Duccio. La quarta è l’invenzione assolutamente gratuita del taglio del fiume che il Tonini presume fatto da Carlo Malatesta ai primi del ‘400. Un pasticcio enorme ed è vergognoso che nessuno ‘storico’ di Rimini se ne sia accorto.

TRE ERRORI DI LUIGI TONINI SUL CORSO DEL MARECCHIA IN EPOCA ROMANA, NEL 1300 E NEL 1400

Luigi Tonini è un archeologo e storico bravissimo, con talento e copia di studi, è stato una benedizione per la storiografia riminese dell’800, tuttavia, come tutti noi, non era onnisciente; come tutti noi, chi più chi meno, commetteva degli errori. Non per questo gli toglieremo la nostra ammirazione o smetteremo di studiare i suoi libri.
Avendo fatalmente accettato il falso clementiniano dei due porti romani e la modificazione del secondo porto come foce del Marecchia, il cui corso avrebbe a suo avviso in un primo momento attraversato il Borgo di Marina sopra l’area della chiesa e del convento di San Nicolò – finiti così per essere compresi nel Borgo San Giuliano -, il Tonini deve poi trovare il momento e le cause dell’uscita diritta in mare del fiume a partire dal ponte di Augusto e Tiberio, come si vede nel bassorilievo del Tempio Malatestiano e il suo uso come porto testimoniato almeno dalla metà del 400 ai suoi tempi.

Partendo quindi da un altro brano del Clementini di dubbia consistenza storica, il Tonini attribuisce senza prove a Carlo Malatesta il taglio e la rettificazione del corso del Marecchia [13]. Il brano del Clementini illustra il risarcimento del porto di Rimini da parte di Carlo Malatesta nel 1400 – informazione basata sulle cronache medievali non sempre affidabili -, ma senza dubbi il Clementini parla di una ristrutturazione relativa al suo secondo porto, quello della Torraccia, in un’area precisa della città, in quanto afferma che il Malatesta “fece guastare le muraglie, fatte da Federigo, cominciando dietro la chiesa di S.Marino.”
E credo si debba intendere che la ragione di tale guasto di cui parla il Clementini sia immaginabile come il recupero di pietre e mattoni da usare nei moli e banchine del presunto secondo porto romano da restaurare.
In ogni caso niente nell’unico ‘documento’ del Clementini fa pensare a un taglio del muro del Borgo San Giuliano con “le torricelle”, che sia il Clementini che il Tonini hanno scambiato con la recinzione del Borgo di San Giuliano di Galeotto Malatesta del 1352 o del 1358, mentre si tratta di una struttura ossidionale tardo quattrocentesca che nel 1400 o nel 1417 non esisteva ancora e nel 1474 si stava completando [14]. Questo errore di datazione del muro con le “torricelle”, che il Tonini pensava arrivasse dal Borgo fino alle “torricelle” che lui ancora vedeva vicine alla chiesa di San Nicolò, non potrebbe essergli rimproverato perché il Tonini non aveva le conoscenze di architettura ossidionale che abbiamo oggi, e non immaginava che quel muro, con cannoniere tardo quattrocentesche in batteria, che veniva finito nel 1474 – anno che conosciamo grazie alle ricerche di Delucca – non potesse essere datato a metà ‘300. E tuttavia sbagliare la data di origine del muro con le “torricelle” è un errore fatale che toglie il fondamento a tutto il suo ‘ragionamento’ storico di diversioni e rettifiche del corso del fiume e del porto.

Il Clementini parla del muro federiciano – che in realtà era il muro romano di Ariminum – dietro la chiesa di San Marino, ma il Tonini lo corregge sostenendo che il Clementini si è sbagliato e che abbia sostituito la chiesa di San Marino con una chiesa del Borgo San Giuliano che si chiamava S. Mauro, e ‘precisa’ che il guasto delle “muraglie” si spieghi col taglio del fiume per mettere dal Borgo di San Giuliano nel Borgo di Marina la Chiesa e il Convento di San Nicolò.
Ma poi complica ulteriormente il corso del Marecchia, perché afferma ancora che prima di Carlo Malatesta il fiume si sarebbe spostato, sarebbe tornato indietro dalla Torraccia alla sua foce in mare “come oggidì” – cioè come al tempo del Tonini – staccandosi o venendo staccato dalla foce alla Torraccia e facendo un ansa intorno al convento e chiesa di San Niccolò per poi scorrere diritto verso il mare.
Questo complicato e del tutto immaginario doppio movimento del fiume gli è stato suggerito dal ritrovamento di resti di “palate” scoperti nel terreno dove si stava costruendo, al suo tempo, la “Raffineria de’ Zolfi”. Le palate scoperte possono appartenere alla sponda destra del Marecchia, ma non possono essere la traccia del mutamento del corso del fiume tra la metà del ‘300 e il 1400, del quale fenomeno, che sarebbe stato assai rilevante, non esiste documento alcuno, come non esiste documento che Carlo Malatesta abbia drizzato il fiume. Tale taglio e tale drizzamento sarebbero stati una bella e costosissima impresa e i cronisti che notano imprese meno sorprendenti e costose ne avrebbero parlato. [15]
Ma insomma si capisce bene come il discorso del Tonini molto avventuroso, molto improbabile e senza un solo documento di supporto, sia un parto grottesco della originaria falsificazione barocca del Clementini.

Lo splendido telo di mura del Borgo San Giuliano dell’epoca di Roberto il Magnifico (1440-1482) – una torre veniva completata nel 1476 -. Se si scavasse una parte del fossato apparirebbe l’effetto piramide di cui parla Roberto Valturio per il castello e sarebbe una parte di Rimini di grandissimo valore: “un luogo di delizia pieno”.

Provate a riflettere sull’immagine del porto di Rimini nel bassorilievo del Cancro del Tempio Malatestiano: non c’è proprio spazio per far girare il fiume sulla sua destra sopra il Borgo di Marina; né sotto, perché finirebbe subito in mare; ma non si tratta di una fotografia, d’accordo. E tuttavia i recenti scavi di Adarte alla porta Galliana hanno dato credito al realismo della rappresentazione dimostrando che esisteva veramente una falsabraga davanti alla torre portaia, come raffigurato nel bassorilievo.
Il Marecchia porto di Rimini che corre dritto verso il mare con i suoi porti romano, medievale e rinascimentale, per così dire, in fila, si può ancora apprezzare a occhio se si guardano le sponde del fiume ancora oggi. Si vedono a sinistra subito sotto il ponte – o meglio si potevano vedere, perché attualmente il porto romano è sotto l’acqua – le banchine romane aderenti al ponte, poche decine di metri dopo dall’altra parte del fiume ci sono i muri del ‘300 con due porte chiuse, una ogivale e una a tutto sesto – con le tipiche ghiere a mattoni disposti nell’arco a coltello con sovrapposta linea di mattoni sdraiati di cornice -, che davano accesso alle banchine medievali probabilmente di legno.
Tutto quel muro diritto che arriva a porta Galiana è visibilmente medievale e nelle parti sommerse o sepolte si può scommettere che vi siano fondamenta romane.
Certamente è stato aumentato e risarcito in epoche più recenti, fino ad arrivare alle odierne bertesche gnassiane che incombono sul ponte antico.

Particolare della pianta dell’Arrigoni con segnato un guado o un muro trasversale di incerto uso.

So bene che ci sono studiosi che credono, per altri motivi, che il fiume dopo il ponte piegasse a destra verso la città. In effetti a qualche decina di metri dal ponte c’è sott’acqua un muro obliquo che attraversa il fiume; chi dice che sia romano e chi più tardo, purtroppo gli addetti ai lavori non l’hanno nemmeno fotografato, rilevato e misurato negli anni ’70, quando si cementificò il ponte di Augusto e Tiberio e il muro supposta diga venne scoperto. Poco dopo questo muro, più o meno dell’area della chiesetta della Madonna della Scala c’era un guado. La questione è certamente complessa, comprendendo anche un fenomeno di subsidenza. Ma il muro è un solo elemento e se anche fosse romano non sarebbe sufficiente a trarre conclusioni definitive per un periodo di tempo di quasi dieci secoli Ariminum dal III secolo a.C. al settimo secolo d.C.
Che le pile del ponte romane siano inclinate per ricevere dal lato della conoide, a monte, le acque in entrata del fiume non significa poi che le acque in uscita siano obbligate ad andare a destra, di fatto possono andare dove vogliono. Mandare il fiume a destra lungo la presunta ‘diga’ significa investire il porto medievale e la città, che sono ancora lì a ben vedere senza segni di investimento e di attraversamento. Farlo passare più sotto la porta Galliana? Allora si investirebbe e si dividerebbe il Borgo di Marina…Tutte ipotesi che si reggono, a mio modesto avviso, su fantasie senza fondamento che moltiplicano gli errori causati da un malaugurato falso barocco clementiniano.

LA TORRE FARO DI CARLO MALATESTA 1400-1414

Un’indagine filologica condotta sul campanile di San Nicolò mostra una cella del ‘600 con le campane, che insite sul fusto che è un corpo medievale, assai probabilmente del tardo Trecento o dei primi del Quattrocento. Il fusto di questo palinsesto architettonico presenta uno duplice scasso per facciata che termina ad una certa altezza con uno scivolo, come in altri muri dell’architettura del ‘300 riminese. Tra il termine in alto di questo scasso e la cella seicentesca, c’è un muro assai ‘vissuto’ con le tracce di beccatelli rasati – ci sono sette mensoloni rasi, rilevati nella facciata verso il fiume, ai quali vanno aggiunti i due d’angolo scomparsi -.

Tentativo di ricostruzione del palinsesto del campanile di San Nicolò: a) situazione attuale b) riapertura delle tre finestrelle per lato – prima trasformazione in campanile della torre faro – c) la torre faro con i beccatelli e i merli.

Il coronamento a beccatelli e merli fa pensare ad una torre di difesa, ma potrebbe essere anche una torre con in alto una cesta di ferro sollevata per contenere il fuoco – come si vede in una Divina Commedia, ms medievale della Gambalunga che mostra i segnali di fuoco sulle torri di Malebolge. Potrebbe essere un faro medievale da attribuire a Carlo Malatesta che operò nel porto di Rimini nel 1400 e nel 1417.
Si vedono anche in alto nette le tracce di tre finestrelle per lato, di quando la torre, rasate fu trasformata in campanile. All’interno in una parete della torre verso la chiesa si è conservato il cornicione ornato della chiesa stessa di San Nicolò. La torre su quel lato si appoggia al muro della chiesa. La porticina mezzo chiusa della torre nella facciata verso la città doveva dare su un camminamento al di sopra dei muri perimetrali delle chiesa, la quale assumeva così l’aspetto di una chiesa ‘forte’ o parzialmente usata come struttura ossidionale di difesa del Borgo Marina.

[1] Cesare Clementini, Racconto istorico della fondazione di Rimino e dell’origine e vite de’ Malatesti, In Rimino per il Simbeni 1617, pp.56-57.

[2] Luigi Tomini, Rimini avanti il principio dell’era volgare, Rimini 1843, p. 226.

[3] Oreste Delucca, L’Abitazione Riminese cit., pp.962, 963, nota 12.

[4] Luigi Tonini, Rimini cit., p. 215.

[5] Piero Meldini, Giuseppe Nanni, Pier Giorgio Pasini, Angelo Turchini, Grafica riminese cit., p.40, immagini I,25-26.

[6] Raffaele Adimari, Sito riminese, I-II, Brescia 1616, I p. 4; II, p.61.

[7] Luigi Tonini, Rimini cit., p. 217.

[8] Giovanni Rimondini, Il carteggio tra Giovanni Bianchi e Tommaso temanza in occasione della redazione dell’opera Delle Antichità di Rimino 1735-1742, in Tommaso Temanza, Delle Antichità di Rimino, Venezia 1741, riedizione anastatica Cassa di Risparmio di Rimini, Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini, Rimini 1996; in particolare le lettere nn.13 a p.51, 14 e 16 a p. 52, 19 e 20 a p. 54.

[9] Biblioteca A. Gambalunga di Rimini, Carte Gambetti, Lettere a G.Bianchi, lettera di Francesco Borgia del 25 IV 1770.

[10] Luigi Tonini, Rimini cit., p. 2.

[11] Savignano sul Rubicone, Accademia dei Filopatridi, Lettere di Giovanni Bianchi a Giovanni Cristofano Amaduzzi, 15 II 1770.

[12] Ivi, 5 IV 1770.

[13] Cesare Clementini, Racconto Istorico cit., II, p. 252.

[14] Oreste Delucca, L’Abitazione Riminese cit., pp. 1308,1310.

[15] Luigi Tonini, Rimini nella Signoria de’ Malatesti cit., pp. 160-162, 250-253, 433.

2 – continua (la 1° parte)

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