Il Teatro Galli pseudofilologico (e inadeguato) ha diversi padri, uno è Cervellati. Parla l’ex sindaco Chicchi

Il Teatro Galli pseudofilologico (e inadeguato) ha diversi padri, uno è Cervellati. Parla l’ex sindaco Chicchi

E' vero quel che dice l'architetto Cervellati sull'idrido che sta nascendo in piazza Malatesta. Ma l'errore, anzitutto suo, è stato quello di pensare al Galli come ad un monumento anziché a privilegiare la dimensione funzionale della macchina tecnologica per spettacoli. Avremo un teatro costato più di 30 milioni di euro che non potrà ospitare nemmeno il pubblico della Sagra Malatestiana. Fortemente problematico per gli spettacoli lirici e di prosa. Con Cervellati condividono questo splendido risultato i capofila del teatro com'era dov'era e, soprattutto, la politica che ha inseguito qualche voto. Giuseppe Chicchi taglia e cuce.

“Le preoccupazioni dell’architetto Cervellati sono condivisibili ma peccano di strabismo”. Non si può non chiedere all’ex sindaco Giuseppe Chicchi una reazione alle parole di Cervellati sullo “scempio” del recupero in corso d’opera della (fu) creatura polettiana. “Quello che sta nascendo in piazza Malatesta è un ibrido fra un teatro storico (in cui prevaleva l’uso del legno) e un teatro moderno in cemento armato con problemi di acustica. Si troveranno forse delle soluzioni correttive ma resterà un teatro problematico per gli spettacoli lirici e di prosa. Semmai Cervellati dovrebbe chiedersi se poteva essere diversamente, una volta compiuta la scelta della ricostruzione “filologica” o pseudo tale”.

La sua amministrazione com’è noto fece una scelta diversa.
Esattamente, e in continuità amministrativa con la giunta precedente retta dal Sindaco Conti.

Però non è così che si fa un recupero filologico.
Cervellati cita il Palazzo della Mercanzia a Bologna come esempio di ricostruzione filologica. Si tratta in effetti di un bel edificio in stile neo gotico la cui destinazione funzionale è a uffici. Ma è un esempio sbagliato perché a Rimini si sta ricostruendo un teatro, cioè un edificio soggetto a severe norme di sicurezza, in una città classificata sismica e destinato ad attività ad alto contenuto tecnologico. Cervellati invece ha in mente la ricostruzione di un monumento, di un edificio neoclassico indifferente alla destinazione d’uso per cui viene ricostruito. Stiamo parlando di due cose completamente diverse fra loro; per un teatro la dimensione “monumentale” è secondaria, prevale la dimensione funzionale della macchina tecnologica per spettacoli. Ricordo per inciso che questa operazione costa alla città di Rimini più di trenta milioni la cui spesa, essendo sottratta ad altri investimenti, induce a chiedersi cosa restituisce ai cittadini in termini di funzioni. Speriamo poi che si possa evitare l’effetto “Walt Disney” con falsi decori, magari in poliestere, per l’interno. Se potessi inviterei il committente a vigilare sull’operato della CMB di Carpi che ha rilevato l’appalto dal fallimento CESI.

Quindi anche le funzioni saranno penalizzate.
Amo ricordare che il Teatro Vittorio Emanuele fu costruito a metà Ottocento con 900 posti per una città di 29mila abitanti. Oggi Rimini ha quasi 150mila abitanti e avrà un teatro da 680 posti, con un pubblico della Sagra Malatestiana che sfiora i 1300 spettatori per sera. Le conseguenze saranno una bassa qualità degli spettacoli lirici, un deficit di gestione strutturale e la Sagra resterà al Palas.
Per di più Rimini per almeno quattro mesi all’anno è una città ben più grande dei suoi residenti. Non riusciremo ad arricchire il nostro prodotto turistico con la lirica come invece sarebbe stato possibile con il “Natalini” da 1150 posti. Insomma, uno splendido esempio di programmazione pubblica!

Praticamente lei sostiene che nella sostanza avremo oggi una brutta copia di un teatro pensato per un’altra epoca e per altre esigenze.
Si potrebbe aprire un discorso di carattere storico sociale: Poletti era architetto del Papa che governava la nostra città con l’appoggio dell’aristocrazia e della borghesia agraria locale. Non a caso il Vittorio Emanuele era un condominio: le famiglie benestanti di Rimini acquistarono il diritto d’uso permanente sui palchetti dai quali potevano esibire la loro ricchezza, i figli da maritare, potevano cenare o fornicare al suono dell’orchestra, ecc. Il teatro era uno status symbol per pochi, serviva a farsi vedere piuttosto che a vedere. L’avvento della democrazia ha prodotto una composizione sociale della città totalmente diversa, il reddito si è spalmato sui nuovi ceti, ad essi la città fornirà un servizio scadente: pochi posti, acustica e visibilità mediocre, un teatro inadeguato. Ci sono responsabilità ben precise.

Di chi?
Una parte a carico di Cervellati che, dopo aver perduto il concorso di idee per la ricostruzione del 1988, ha preso l’incarico da Sgarbi senza batter ciglio. Ma, come si dice, il lavoro è lavoro, il pane è pane. Un’altra parte a carico di Rimondini e amici che hanno costruito la favola di una ricostruzione filologica settanta anni dopo la distruzione, in un contesto sociale e normativo totalmente cambiato. La fetta più grossa è però in capo alla politica che, nonostante i soldi e il tempo spesi per arrivare al “Natalini esecutivo”, immediatamente appaltabile già nel 1999, ha deciso di cambiare per tirar su qualche voto dai contestatori che, dopo la sentenza del Tar, avevano già ripiegato le loro bandiere e risalivano le valli come i soldati austriaci sconfitti nel 1918.

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