La città delle colonie: danno la caccia ai gadget fascisti, invece di valorizzare il Ventennio style

La città delle colonie: danno la caccia ai gadget fascisti, invece di valorizzare il Ventennio style

Solo i giganti abbandonati possono salvare una Riviera senza identità

"Stiamo sprecando gli unici luoghi veramente identitari della Riviera romagnola, che in questo senso valgono molto più del Grand Hotel, e laddove sono state imboccate delle ipotesi di riutilizzo, si è sbagliata strada". Parla l'arch. Massimo Bottini, che da anni si batte per la valorizzazione di queste strutture. E dice: "Il Comune di Rimini deve affrontare il tema colonie come sta facendo con Castelsismondo e Teatro Galli". Il Campus universitario? Alla Bolognese.

“Stiamo sprecando gli unici luoghi veramente identitari della Riviera romagnola, e laddove sono state imboccate delle ipotesi di riutilizzo, si è sbagliata strada, tanto è vero che tutti i progetti (Bolognese, Novarese, ecc.) sono abortiti. Le colonie tornino ad essere colonie”. Massimo Bottini, di professione architetto, storico rappresentante di Italia Nostra, da anni studia e tiene vivo il tema dei giganti in abbandono che punteggiano la costa, con pubblicazioni e mostre che fanno il giro del mondo.
Ma da una classe politica impegnata a bandire i gadget fascisti ci si può aspettare una valorizzazione intelligente del Ventennio style? “Sulla costa non mancano i volumi, mancano i luoghi. Quando sono nate le colonie erano il pieno nel vuoto, mentre oggi per le dimensioni dell’area di rispetto che le circonda, costituiscono il vuoto nel pieno“. E se stiamo parlando di luoghi identitari di questa importanza – riflette Bottini – “perché l’amministrazione comunale non li tratta alla stregua di Castelsismondo e del Teatro Galli, per i quali non si è certo affidata ai privati per trovare la soluzione. Io sono convinto che le colonie valgano più del Grand Hotel e Rimini con la sua vocazione di turismo popolare dovrebbe fare un monumento alle colonie perché ad esse è legata la fortuna di questo territorio”.

L’architetto Massimo Bottini

Un fenomeno di massa all’origine del nostro turismo. Le colonie in Italia nel 1938 hanno ospitato poco meno di 800 mila bambini e dunque sono state un vero e proprio fenomeno di massa, incentivato anche da una rete ferroviaria capillare che rendeva più agevoli gli spostamenti: “Pochi sanno che la stazione ferroviaria di Miramare si chiamava Rimini Colonie o che a Bellaria Igea Marina c’era una terza fermata all’altezza della colonia dei Ferrovieri”. Sono le colonie che inaugurano la consuetudine della vacanza estiva al mare durante le ferie, ed è Mussolini (che Andrea Gnassi e il Pd vogliono cancellare anche dalle bottiglie di Sangiovese) che introduce i periodi di riposo retribuiti. “Sono luoghi, le colonie, carichi di una memoria emotiva, qui un esercito di bambini ha conosciuto il mare”.

Parlando di colonie ci si muove in una selva di paradossi. Questi scheletri, che assumono le forme più diverse e continuano a manifestare (pur nelle condizioni in cui sono) la loro altezzosa imponenza, che mantengono intatto tutto il loro fascino e a confronto delle costruzioni contemporanee sembrano avere una durata eterna, parlano anche dell’insipienza di chi amministra le nostre città. Esempio. Rimini dopo essere entrata nella storia dei neologismi di cui avrebbe fatto volentieri a meno, con “riminizzazione”, ha ora deciso di inaugurare la stagione del “basta cemento”. Non più nuovi volumi ma recupero dell’esistente, ci è stato ripetuto fino alla noia. E cosa c’è da recuperare, nel già edificato, se non le stupende architetture degli anni Venti e Trenta? Eppure in questo campo si susseguono solo fallimenti. Non solo a Rimini, sia chiaro, ma anche a Riccione e Bellaria.

Massimo Bottini, che le colonie nate sotto il fascismo le conosce a menadito (e non solo le nostre ma quelle sparse in tutta Italia), per averle anche censite una ad una, una idea ce l’ha. “Non si è ancora combinato niente perché le colonie sono state viste solo come una opportunità in termini di volumi, dimenticandosi del loro Dna, della loro storia, di quello che hanno regalato allo sviluppo del turismo, e considerandole in maniera avulsa dal paesaggio. Bisognerà pur chiedersi perché fino ad oggi gli unici casi di fruizione delle colonie sono stati di tipo scolastico?”. E infatti le colonie patronato scolastico e forlivese sono sede dell’Istituto professionale alberghiero e del “Marco Polo”, più di recente la Comasca è diventata sede delle scuole della Karis. Oppure a Cesenatico la colonia Francesco Baracca, che ospita l’Istituto tecnico commerciale. “Gli edifici scolastici spesso e volentieri sono anonimi, banali, mentre nei casi che abbiamo appena ricordato si respira quasi l’orgoglio di un Campus”. Come dargli torto. E già che siamo in argomento, Bottini mette un altro carico: “Non è con gli spazi ricavati nel centro storico che l’università di Rimini potrà avere un brand, mentre io la immagino alla perfezione nella Bolognese”. Un Campus coi fiocchi. E già vede il successo di una prestigiosa summer school in quel contesto. “Mica sul mare ci devono stare solo gli ombrelloni e gli alberghi!”

Colonia Murri. Inaugurata nel 1912. Superficie coperta: mq. 3242, volume: mc. 48184. Al suo sorgere è stata l’emblema della modernità tecnologica: muratura con intercapedine d’aria, impianti di riscaldamento a termosifoni, impianto di sollevamento dell’acqua potabile. Cantiere in stand-by, lavori di fatto bloccati dagli anni 90. La proprietà è del Comune di Rimini.

Non lo dice, Massimo Bottini, ma sulla sua testa sembra formarsi la nuvoletta, e dal fumetto esce un pensiero di questo tipo: aprite gli occhi, pubblici amministratori. In una sua recente mostra sulle colonie è andato dritto al punto ed ha scritto: “In una Europa che invecchia, dove la popolazione anziana si avvia ad essere il doppio di quella giovanile, occorre ripristinare strutture pubbliche, seppur a gestione consortile, per ricreare un turismo sociale rivolto ai giovani ed alla terza età: Slow Social Trip, secondo Italia Nostra, è un elemento in primis su cui investire, dedicando specifiche risorse che ridotte sempre più nelle politiche nazionali, risulterebbero interventi perequativi egualitari in Stati connotati da problematiche simili”. Insomma, basta con l’idea secondo cui il futuro delle colonie dovrebbe essere disegnato solo dal privato e per certi usi: “La funzione sociale e pubblica deve tornare protagonista. Il cul de sac nel quale la vicenda delle colonie è finita, dice chiaramente che vanno immaginate, appunto, funzioni diverse da quelle ricettive e commerciali”.

Un altro passetto in avanti. “Rimini nasce con una vocazione di città giardino, che dal dopoguerra è stata progressivamente tradita con la famosa cementificazione. Gli enormi “varchi” che definiscono le colonie marine possono reindirizzarci a quella vocazione originaria. Ma lo si potrà fare in un solo modo: se il Comune saprà governare il processo di ideazione progettuale di questi luoghi, comprendendo l’assoluta importanza che assume oggi la rigenerazione ecologica di una città turistica”. Bottini spinge sull’acceleratore, convinto com’è che il distretto delle colonie sia una peculiarità da sfruttare che altri non possono vantare. “Solo qui, nel giro di pochi chilometri, esiste un così grande repertorio di luoghi che possono candidarsi ad essere dei fari di riferimento in un paesaggio anonimo, tutto uguale a se stesso”.

Le Navi a Cattolica. Dopo un lungo “restauro” sono divenute un bioparco marino. “Della struttura originaria sono stati conservati solo gli involucri esterni, mentre all’interno sono state completamente sventrate facendo perdere la lettura spaziale e distributiva che assieme ai materiali e alle tecnologie utilizzate costituivano l’unico esempio di architettura futurista dell’Adriatico”, dice Bottini.

La nuova vita delle colonie? Scuole, università, luoghi di educazione ambientale. Ma restando colonie. La prima obiezione è la solita: chi dispone di risorse per dare gambe al sogno? “Le rispondo subito, ma sarebbe sbagliato fare dell’aspetto economico la leva principale da azionare. Prima di tutto servono idee e la volontà che tornino ad essere dei punti di riferimento. Personalmente ritengo che si debba mettere in conto un riuso temporaneo. Spazi così ampi per poter essere ristrutturati e messi completamente a norma richiederebbero molti anni. Invece procedendo gradualmente riappropriandosi via via di piccoli spazi, si otterrebbe da subito il risultato di sottrarle al degrado (che ha anche dei costi sociali perché le colonie abbandonate diventano rifugio per sbandati e i ripetuti blitz delle forze dell’ordine non sono certo risolutivi), e farle diventare appetibili per vari scopi: funzioni pedagogiche, scolastiche, ludiche – a mio parere le più confacenti a queste realtà – ma anche laboratori per start up, creativi e tanto altro”.

Massimo Bottini starebbe ore a raccontare, ogni tanto gli si accende una lampadina e incastra un nuovo tassello del puzzle. Si alza, afferra cataloghi e libri sul tema, dal cellulare sfoglia gli scatti di una esposizione. “Vede, a Melbourne è allestita una mostra di Dan Dubowitz, dal titolo “Fascism in Ruins” e ci sono anche le nostre colonie. Pur se abbandonate da decenni sono ancora dei veicoli promozionali della costa. Questi luoghi, intesi come architetture, varchi, spazi aperti e memoria storica e turistica, devono essere valorizzati per ciò che sono: la grande chance di dare una identità riconosciuta al nostro turismo”.

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