La memoria ferita: il mitico Tiffany’s

La memoria ferita: il mitico Tiffany’s

Nato come dependance di una grande ed esclusiva villa in viale Regina Elena, piomba dalle stelle alle stalle diventando una scuderia per cavalli, prima che Piero Baldinini ne faccia un locale di grido. Che ne è oggi di questa reliquia della nostra Belle Epoque? Abbandonata come un relitto qualsiasi, tra improprie lamiere rugginose e rampicanti invasivi, in estate assediata da auto in sosta.

Per raccontare la storia della costruzione che molti riminesi conoscono con il nome di Tiffany’s bisogna fare un salto temporale di un centinaio di anni. Siamo nel 1907. Il nuovo secolo non rinuncia all’eredità artistica e filosofica, l’innovazione culturale più rilevante dell’ultimo scorcio del 1800: lo stile Liberty. L’Europa ne subisce fortemente la fascinazione. L’architettura delle città spesso si conforma compiaciuta al nuovo carattere stilistico. Anche Rimini, in parte, vi si allinea. Sorgono ville e villette che in qualche caso interpretano superbamente i canoni dell’Art Nouveau.

La “Società Milanese Alberghi, Ristoranti e Affini” commissiona la realizzazione del Grand Hotel di Rimini al giovane, ma già affermato architetto, Paolito Somazzi. Nato a Montevideo da padre svizzero e madre spagnola, questi torna ben presto nella Lugano del padre, dove lascerà tracce importanti del proprio lavoro.
L’originale professionista, specializzato nella realizzazione di grandi strutture alberghiere, disegna quello che diventerà uno degli alberghi più famosi del mondo. Il genere architettonico di Somazzi, essendo egli di cultura svizzera, sarebbe propriamente lo Jugendstil, ma qui ammicca a quello della cosiddetta Secessione Viennese, il movimento artistico fondato da Gustav Klimt. Considerazioni in merito allo stile ce ne sarebbero di complesse e forse infinite, ma l’eclatante esito finale è tuttavia cristallino. Mette tutti d’accordo, perfino i furiosi abbattitori di simboli dell’immediato dopoguerra riminese.

Ciò che lega la piccola costruzione (il Tiffany’s) con il Grand Hotel è la paternità del progetto: Paolito Somazzi li firma entrambi, ma in anni differenti. E differenti sono gli stili architettonici. Vanno fatte alcune precisazioni. L’edificio che per praticità abbiamo finora chiamato Tiffany’s è la dependance di una grande villa in viale Regina Elena. La celebre attrice Bianca Aventi (Firenze 1869- Ferrara 1944) la fa realizzare dall’architetto un anno prima del Grand Hotel. L’eclettico Paolito disegna la villa come un grande cottage, molto elegante e con i tetti spioventi che, osservando le foto, sembrano realizzati con l’antica tecnica delle scandole di legno che il nord Europa adotta d’abitudine per le coperture.
L’attrice, insieme con il marito Carlo Aventi Roverella ha già una sontuosa abitazione in Viale Vespucci. Ci permettiamo di avanzare questa ipotesi: i coniugi Aventi forse hanno conosciuto Somazzi mentre questi è a Rimini per definire il lavoro di costruzione dell’albergo. Il progetto della villa è decisamente più agile e rapido di quello assai più complesso del Grand Hotel. L’architetto, magari ha potuto soddisfare prima (o contemporaneamente all’altro lavoro) la committenza dei coniugi Aventi. Che sia andata così?

Ca’ Bianca, come viene denominata la villa, è edificata nel 1907. Il Grand Hotel si inaugura il primo di luglio dell’anno seguente suscitando ammirazione e clamore. A titolo di cronaca, nel 1913, l’anno prima di morire appena quarantenne in un incidente stradale, Paolito Somazzi realizza la Cassa di Risparmio in piazza Ferrari, la cui facciata a bugne è un palese richiamo al quattrocento fiorentino.

Dopo poco più di un ventennio, contrassegnato da feste e ricevimenti, i coniugi Aventi, intorno a metà degli anni ’30, vendono villa e dependance al re dei cappelli, il celebre Giuseppe Borsalino. L’imprenditore la regala alla moglie Alessandra Drudi, apprezzata interprete di operetta, il cui nome d’arte è Gea della Garisenda (Cotignola 1878- Verucchio 1961). Ca’ Bianca diventa Villa Sandra, in onore della cantante. Purtroppo, i devastanti bombardamenti che dilaniano Rimini durante la seconda guerra mondiale, causano il crollo della bella residenza sulla spiaggia. Rimane però in piedi la dependance, a solitaria testimonianza di un passato felice e glorioso.

Ora dobbiamo compiere un balzo temporale di oltre vent’anni: le ferite di guerra, inferte senza discriminazioni a tutta la città, vede Rimini impegnata nella faticosa ricostruzione. Questa si rivelerà laboriosa ma scoordinata, anche per impreparazione della macchina amministrativa. Abbattimenti sconsiderati, costruzioni senza regole partorite da regole senza costrutto, occultamenti (colposi) di aree archeologiche il cui scopo è di erigere discutibili esaedri di calcestruzzo. La cementificazione degli anni a seguire conduce inevitabilmente al conio del verbo “riminizzare”. Nel 1988 il neologismo è inserito per “meriti sul campo” nel Dizionario Ragionato di Angelo Gianni e Luciano Satta.

La dependance di Villa Sandra, risparmiata dal catastrofico “verbo”, rimane agli eredi di Gea. Nel 1966 la prende in affitto un capace imprenditore riminese, Piero Baldinini; egli ci racconta che quando mette mano al piccolo cottage, trova che è adibito a scuderia per i cavalli.
Che fosse la primaria destinazione d’uso o se la trasformazione sia avvenuta nel corso degli anni, non è dato saperlo. Sta di fatto che Baldinini, con la consulenza di un architetto, la ristruttura internamente. La fa pavimentare, costruisce una scala interna in muratura e sistema i locali in modo tale da creare una sorta di pub inglese con tanto di mini-golf esterno. In estate il connubio tra lo spazio interno e quello del grande giardino sono l’idea vincente per attirare il turismo giovane, amante della musica e dei conseguenti “quattro salti”. Questo è il tipo di pubblico che sta per connotare il turismo riminese del trentennio seguente.
Inizialmente ci si arrangia a fare musica con un giradischi, poi Baldinini scrittura un trio di chitarristi locali, “The Red Devils”. Il gruppo è composto dai fratelli Lazzarini e dal suo fondatore, Ivano Tonini.
E’ quest’ultimo che convince il proprietario del locale a creare un appuntamento fisso con la musica dal vivo. I tre suonano ed entusiasmano con il repertorio dei Beatles. Il successo è immediato. Di lì a un anno Tonini parte per l’Inghilterra. Approda nel Gotha della musica europea. Vi rimarrà qualche anno.

Foto gentilmente concessa da Piero Baldinini

Nella Rimini degli anni ’60 esistono giusto poche balere e rari, ma esclusivi night. Nuove idee cominciano a trasparire, ma sono progetti in stato embrionale. Il fenomeno delle discoteche non è ancora deflagrato con la dirompente potenza che avrà agli inizi degli anni ’70. Piero Baldinini sarà tra i primi audaci imprenditori, con l’apertura della Quinta Dimensione, a intonare la marcia trionfale delle discoteche. Il nome del club lo suggerisce Ivano Tonini, da poco tornato in Italia. Intorno al ’72-’73, per dedicarsi esclusivamente alla nuova avventura “Underground”, Baldinini cede la licenza del Tiffany’s. La nuova gestione continuerà con impostazione “disco-bar” ancora per diverso tempo.

Interno del Tiffany’s. Foto gentilmente concessa da Piero Baldinini

Durante gli anni che accompagnano il locale quasi al limitare del nuovo millennio, il Tiffany’s si ritrova come per incanto cinto da strutture posticce, malamente appiccicate che ne aumentano la capacità numerica di clientela, ma ne diminuiscono assai l’estetica e il fascino. Non sappiamo e non spetta a noi valutare se le ingloriose appendici aggiunte fossero autorizzate oppure no. Ci limitiamo a prendere atto di una trasformazione estetica che non ci convince affatto. E ci chiediamo se chi doveva vigilare lo abbia fatto nel migliore dei modi. Troppo spesso siamo costretti a porci gli stessi interrogativi. Auguriamoci che un giorno qualcuno risponda.

Di certo, da una ventina d’anni almeno, sotto i grigi tetti a punta non è transitata più anima viva. E oggi, che ne è della dependance o se preferite, della scuderia, parte di una bella e famosa villa del 1907, disegnata da un celebre architetto?
Toglietevi la curiosità e andate a vederla. Se percorrete viale Regina Elena, la trovate alla vostra sinistra davanti alla fermata 18 dell’autobus. Altrimenti, sul lungomare Giuseppe di Vittorio è davanti al bagno 66A.
Il colpo d’occhio è desolante. Vedrete una reliquia della nostra Belle Epoque buttata là, come un relitto qualsiasi, tra improprie lamiere rugginose e rampicanti invasivi, assediata (in estate) da auto in sosta.

Conoscete il nome del vialetto pedonale che le sta di fianco, quello che raccorda la via del filobus con il lungomare? Si chiama Amarcord. Dunque, tutto torna. La Villa, il Grand Hotel, Fellini, Amarcord: la storia di una città; che non sempre sa ricordare e soprattutto, rispettare la propria memoria.
Amarcord…

Nota a margine:
Abbiamo attinto alcune informazioni su Villa Ca’ Bianca da un interessante articolo a firma dell’avvocato Alessandro Catrani. Lo abbiamo letto su Ariminum, pregevole rivista diretta dal Professor Manlio Masini. Ringraziamo entrambi.

Fotografia d’apertura: il Tiffany’s in una fotografia gentilmente concessaci da Piero Baldinini

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