Il lato imbecille della forza. Ponte di Tiberio e PDintorni

Il lato imbecille della forza. Ponte di Tiberio e PDintorni

Appunti corsari di fenomenologia degli sfascisti delle mura medievali-malatestiane

Si scrive Rimining, si legge consumo e trasformazione di ogni luogo, inclusi quelli storici, in palcoscenico e luna park. Ovvero la messa a reddito di tutto. Leggere per capire da dove nascono i buchi. Prima parte.

Dove ero rimasto? Al tentativo di spiegare, nella conferenza stampa del 20 luglio, che Umberto Eco nel suo saggio Apocalittici e integrati, scritto nel lontano 1964 ma più volte riedito da Bompiani fino all’ultima edizione del 2016, chiariva come nella cultura popolare determinata dalle comunicazioni di massa «tutte le cose sono egualmente degne di considerazione; Platone ed Elvis Presley appartengono allo stesso modo alla storia».
Il segretario comunale del PD Alberto Vanni Lazzari e il consigliere comunale del PD Giovanni Casadei, nel loro scomposto intervento del 21 luglio, proprio perché mancano di quella dettagliata presunzione di conoscenza che in noi vituperano, da un lato credono di insultarci affibbiandoci la qualifica di Monument Men e dall’altro ci accusano di essere i portatori della solita trita difesa di una cultura “alta” e del conseguente disprezzo per una proposta culturale “bassa”.

Non hanno neppure capito di cosa si parlava e invece di mettermi in discussione, con le loro fatue argomentazioni, sono riusciti unicamente a denigrare una parte consistente dell’immenso patrimonio semiotico che ci ha lasciato Eco. Complimenti per la presunzione di conoscenza, così troppo facilmente ribaltabile su di loro! E costoro, privi persino dei fondamentali della cultura popolare di Gramsci che invitava a «parteggiare», vorrebbero amministrarci valorizzando, senza accorgersi che con le loro espressioni verbali mostrano la loro inadeguatezza insieme al timbro della censura e rivelano le vecchie facce da Azzeccagarbugli, da Don Ferrante, da Don Rodrigo, da servi e bravacci, da canaglia del forno delle Grucce.

C’è chi pensa che l’intervento intorno al Ponte di Tiberio non sia un progetto bello, azzeccato, come invece dichiara il circolo PD di San Giuliano, un Revenant – per restare nelle metafore cinematografiche di cultura bassa – che si credeva defunto da almeno cinque anni. Sorprende che chi si dichiara democratico consideri la discussione come un ostacolo alla via della democrazia. Vivere – scriveva Gramsci nel 1917 – vuol dire essere partigiani. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
Per parte mia non nutro alcuna avversità per i muti e gli indifferenti: mi limito a qualificarli come tali nella loro epica condizione di pusillanimità o nel loro naturale stato di dormiveglia e ne osservo l’esistenza. Come esamino l’esistenza dei critici senza arte né parte, che, favorevoli o contrari ai lavori, se ne escono con la solite frasi: «non si critica a lavori iniziati» (quasi che un abuso perché iniziato lo si dovesse lasciar terminare) o, i secondi, «ma perché non siete intervenuti prima?» (chiedendomi, a mia volta, dove fossero loro quando da novembre si è cominciato a mettersi di traverso).

Ecco, nonostante queste mie imperturbabilità, io mi sento partigiano. Lo sono stato per tutti gli anni Ottanta e per larga parte dei Novanta, da operatore culturale, avendo bene in mente la cultura di massa e qualsiasi intervento, privo della contaminazione del profitto, che ne contrastasse la mercificazione. Diciamo, molto sinteticamente, che mi sono molto occupato di cultura bassa e poco di cultura alta. Non è questa la sede per rievocare i periodici Centolire e Caos 14/29, lo Slego nelle sue quattro migliori stagioni, il Rockhudson’s, l’IO, Castelsismondo Cinema, Gradisca
Sono e ancora resto partigiano, nelle vesti di filologo, dal 2000. Lo ammetto: da allora, in una sorta di naturale contrappeso, ho invertito le dosi, molta cultura alta e poca cultura bassa. Per la prima mi occupo di Platone, Elio Aristide, Ipazia, Macrobio, Giorgio Gemisto Pletone, arrivando fino a Lessing e Herder. Credevo di aver pagato il mio tributo alla seconda con Fulcanelli, il più famoso e leggendario alchimista del XX secolo.

E invece, in questa vita partigiana contro le devastazioni in vari modi di ciò che i detrattori dell’opinione avversa considerano una inutile e polverosa «sacralizzazione del territorio» (Samuele Libero Zerbini) o un marginale «feticcio» (Alberto Vanni Lazzari e Giovanni Casadei), nella difesa sia delle mura medievali-malatestiane sia delle mura della seconda metà dell’Ottocento (cultura alta, in quanto beni culturali, ahimè per lorsignori, costituzionalmente protetti) spetta occuparci anche dei danneggiatori collaterali (esempi di cultura bassa e bassissima). Ho il fondato timore che questi ultimi non capiscano proprio, in senso mentale, il problema.

Anche se, per farmi meglio capire, introduco casi eccezionali e di spessore ben diverso, almeno i talebani afghani che distrussero nel 2001 i Buddha di Bamiyan o i jihadisti dell’Isis che nel 2017 hanno colpito i tesori archeologici di Palmira, avevano le loro ragioni, perché gran parte dell’islam fondamentalista è iconoclasta. Nel caso in esame siamo invece al lato imbecille della forza, quello per cui il Ponte di Tiberio è uguale a qualsiasi altro ponte, anzi a qualsiasi prodotto. Dunque, una cosa smerciabile a un turismo cafone, una scenografia come altre da consumare e in cui immergere una cittadinanza sempre più coatta e in uno stato di alcolica imponderabilità di valori. Non rendendosene conto, il trio piddino confessa l’imbecillità e lo stordimento che occorrono al nuovo potere per portare al limite massimo la mutazione della città in un gigantesco baraccone di divertimenti/eventi. E ammette che in Rimining la sua unica possibile sacralità e il solo possibile rito feticista, non nominati, sono il consumo, le forme di intrattenimento e la trasformazione di ogni luogo in palcoscenico e luna park, nell’ennesimo specchio in cui far riflettere un presente ridotto ad un’unica dimensione, quella economica, in breve la messa a reddito, selvaggia e irrispettosa, di qualsiasi luogo della città, inclusi quelli storici. Si è costretti ad assistere alla trasformazione dei luoghi in cui viviamo da beni pubblici inestimabili in risorse da sfruttare: Ponte di Tiberio, Parco Marecchia, spiaggia libera, area circostante Castelsismondo, Conad e condomini sul Lago della Cava… È il trionfo di quello che ancora Gramsci negli anni Trenta, nei Quaderni dal carcere, chiamava «cretinismo economico».

Nulla deve ostare a tutto questo, anche se questo travolge persino la vita privata dei cittadini, rapinando pezzi della loro qualità di vita ed erodendo beni pubblici comuni. Persino la Costituzione e le leggi che ad essa si informano sono inciampi. Lo rivela, con candore, il quarto moschettiere piddino, quello di San Giuliano: Alcuni degli oppositori di oggi, ieri sono stati Amministratori di questa città e sanno bene quanto è già difficile governare rispettando le procedure burocratiche.
Non avrai altra ideologia che quella del consumo e del loisir, il patrimonio storico va valorizzato, contestualizzato, aggiornato, costi quel che costi. Non c’è più nessun interesse, o necessità, di mascherare con ideali, o cose del genere, un edonismo neo-laico in cui qualsiasi spazio è la location del consumo, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico, ottusamente estraneo alle scienze umane, stoltamente insofferente a ogni sistema di tutela artistica, culturale e ambientale.

Oggi ritengo che a Rimini ci sia un Emergenza cultura. Non è niente di banale: la coscienza civica si palesa come la chiamata a prendersene cura. E ciò vale per coloro che sono stati educati e formati alla responsabilità e al dovere, e il dovere è un obbligo, non importa quanto alto o basso sia il compito. Perché si è in debito nei confronti della giustizia quanto lo si è verso la propria città e verso i maestri e le conoscenze che ci ha donato. Verso quella città, che è, per definizione, costruzione sociale e bene comune, non un territorio o un bene culturale da sfruttare e distruggere dai potenti di turno (i veri fascisti di oggi nel senso pannelliano e pasoliniano) a vantaggio di una monocultura turistica predatoria e di un iperconsumismo edonistico-dionisiaco, a spese di quella vera tradizione umanistica distrutta dal rapporto tra prodotto e consumo su cui si è a lungo soffermato Pasolini nella sua analisi dell’omologazione, questa forma di atroce nevrosi euforica, che fa accettare senza quasi resistenza alcuna il nuovo conformismo con cui il potere reale sostituisce ogni altro valore estetico, paesaggistico, storico e morale del passato.

Tra editor e colleghi è nota l’acribia dei miei commenti. Dunque, cercherò di essere preciso come lo sono nelle note dei miei libri.
Sono stato ricevuto alla Soprintendenza di Ravenna il 2 maggio scorso con Ennio Grassi e Stefano Piccioli. Rimini 2.0 ha dato il 3 luglio un resoconto di questo incontro col dirigente, arch. Giorgio Cozzolino, e col responsabile per la zona di Rimini, arch. Vincenzo Napoli.
Scrive Carlo Andrea Barnabè sul Resto del Carlino del 28 luglio: I lavori al ponte di Tiberio sono una boiata pazzesca? Può essere, ma fatico a immaginare un sovrintendente che autorizza allegramente la conversione del bimillenario ponte in un luna park galleggiante. Di solito, da Ravenna fanno le pulci anche alle tegole. Una sfilza di niet. Tutto resti com’era e dov’era.
Per l’appunto anch’io, quel 3 maggio, la pensavo allo stesso modo. E ci sembrava strano e preoccupante che i lavori, allora non ancora messi in cantiere, prevedessero una miriade di buchi nelle mura medievali-malatestiane della sponda destra e lo sfondamento di due ampie porzioni delle mura antistanti della seconda metà dell’Ottocento.
Ricordo perfettamente che l’arch. Napoli, circa le prime, ci rispose che si trattava di «mura recenti».
Ricordo perfettamente che, sui previsti sfondamenti delle seconde, ci ribatté che sarebbero intervenuti su «recenti tamponamenti».
Ricordo perfettamente che sempre l’arch. Napoli, sulla contrarietà di Italia Nostra, ci rispose che Italia Nostra nazionale era favorevolissima al progetto Tiberio Comparto 4. Affermazione del tutto falsa, come si è potuto in seguito verificare e come potrebbero raccontare, con dovizia di particolari e aprendo un altro capitolo, Sonia Fabbrocino e gli amici di Italia Nostra.
Ricordo perfettamente, infine, quanto ci disse l’arch. Cozzolino sulla «fellinizzazione» di Castel Sismondo e sui finanziamenti del Ministero da cui la stessa Soprintendenza dipende. Ma questo è, di nuovo, un altro capitolo, di cui, se del caso, si parlerà in altro momento.

Siccome ho appreso a dubitare, sempre, anche di quelle che credo siano le mie certezze incrollabili (alla maniera di Socrate «so di non saper nulla») ho cominciato a studiare testi, documenti, atti amministrativi e persino, attraverso mia moglie, conversazioni sull’argomento della storicità delle mura nei social. Oggi, rispetto a quel 2 maggio, ne so molto di più e di questo devo ringraziare l’arch. Napoli, il quale con missiva del 17 luglio ha voluto cortesemente informarci che, sì, le mura sono medievali-malatestiane e che lui non ci ha mai detto che sono recenti e (da uomo di potere – questa è la cosa grave!) ci diffida dallo scrivere e riferire quello che ho sentito con le mie orecchie. Ora, senza cattiveria polemica, reputo che con questa tardiva conversione a 180 gradi mi pare si dia la zappa sui piedi. Non si esprime invece sul suo asserto circa le nicchie ottocentesche che lui ritiene «recenti tamponamenti», senza che di ciò si sia trovato nella Soprintendenza uno straccio di documentazione.

Io non ho alle mie spalle nessuna autorità. Forse ho un briciolo di autorevolezza, che mi proviene paradossalmente dal non averla mai cercata; dall’essermi messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non essere fedele a nessun patto se non quello con i lettori dei miei libri, o dei miei saggi, o dei miei più modesti articoli, lettori che io valuto del resto degni di ogni mia considerazione. Supponiamo che questo minuzzolo di autorevolezza, malgrado me stesso, sia decretato oggettivamente in alcuni ristretti ambiti del contesto culturale italiano e mondiale e che, per riflesso, si estenda ancor più limitatamente nella vita pubblica cittadina, tale da poter esprimere qualche verità al di fuori dell’autorità.

Enrico Piccari, presidente del gruppo consiliare PD, nel suo intervento contro la sezione riminese di Italia Nostra, apparso su Chiamamicitta.it il 26 luglio, oltre ad utilizzare l’antichissimo arnese della retorica chiamato argumentum ad hominem – azione con la quale si evita il merito della discussione, attaccando le persone che sono portatrici della tesi opposta, come se le loro altre qualità o circostanze personali rendessero non valide o meno veridiche le loro affermazioni –, si serve di un altro argomento specioso che ha del sorprendente. Scrive, infatti di una del tutto congetturata aggressione nei confronti dei responsabili della Soprintendenza, su cui si cerca di esercitare una pressione tanto maldestra quanto volgare e violenta nei modi e nelle parole. L’abilità di questo ragionamento consiste infatti nel denunciare un’aggressione che non c’è mai stata manifestando, nel contempo, una fasulla difesa d’ufficio, di biologico complemento e di unta complicità, da uomo del regime. Anche in questo caso credo e voglio credere, per la simpatia che nutro verso Enrico, che non si sia neppure reso conto dell’enormità scritta che gli ho sottolineato telefonandogli lo stesso giorno. Uno sproposito dettato da pura incoscienza e in lui scattato solo per il puro automatismo di un mestiere sia pur servile dato dall’appartenenza ad un partito che del leaderismo ha fatto la sua cifra, che preferisce la «governabilità» alla democrazia, i «poteri forti» al popolo sovrano.

Ebbene, per il riflessivo Juri Magrini che all’indomani delle figuraccia elettorale del PD ne rivelava all’apparato la causa dichiarando: non rappresentiamo più nessuno e siamo percepiti solo come il partito del potere, degli interessi e dell’establishment, questo dovrebbe essere il pretesto per gettare la spugna: oramai il dato che segnalava è congeniale e, forse, non più riparabile. La sua analisi è risultata assolutamente inefficace e non è concessa alcuna possibilità, nemmeno teoretica, di proporre una gestione del territorio cittadino più democratica e avanzata.
Poiché la cosa riguarda anche la mia persona ed è quindi almeno apparentemente meno importante vi dedicherò poche righe. Se c’è qualcuno che dovrebbe sentirsi aggredito dal Soprintendente arch. Napoli, quello sono io. Carlo Andrea Barnabè ed Enrico Piccari mi hanno conosciuto e mi conoscono per sapere abbastanza bene che di me si possono dire molte cose, magari anche alle mie spalle, ma non che sia un mentitore come insinuato dal Soprintendente. Se così non è, alla meno peggio, sarei un rimbambito che capisce fischi per fiaschi. Posso assicurare Barnabè e Piccari – testimoni coloro che mi sono vicini – che, per mia fortuna, non do segno alcuno di demenza senile. Quindi non solo ricordo perfettamente ma cerco anche di esprimermi giudiziosamente.

Pur nella metamorfosi della gestione storica, artistica e ambientale in mera ragioneria turistica, si nutrivano tuttavia insensate speranze e si è sognato fino all’ultimo che i progetti intorno al Ponte di Tiberio o almeno i suoi aspetti più sfascisti potessero essere messi in discussione e che la democrazia formale contasse in fondo qualcosa.
Si sperava che la Soprintendenza, la cui funzione «naturale» dovrebbe essere quella della tutela dei beni storici, avendo il Napoli del 13 luglio corretto il Napoli del 2 maggio, ne traesse le debite conseguenze. Eppure, nemmeno il Napoli ultimo è d’accordo con gli architetti Daniele Fabbri e Francesca Della Rosa per i quali le mura sfondate, bucate, lacerate e violate, che saranno richiuse con non si sa cosa, essendo state consolidate nel 2004-2009 sono, come per magia, perciò divenute recenti o, se proprio si insiste, al massimo del 1751. In questo vertiginoso gioco di contraddizioni, neanche i tecnici comunali sono riusciti a mettersi d’accordo con il medesimo loro datore di lavoro, il Comune di Rimini, che, proprio nel corso dei progetti 2004-2009, parlava, persino nel titolo degli interventi effettuati, di «manutenzione, consolidamento e recupero dei Bastioni Medievali del Bacino del Ponte di Tiberio».
Dove tutti costoro trovano e hanno trovato, tra se stessi e loro, un accordo infine unanime è nel far cadere ogni puntello che regge il nostro bistrattato patrimonio culturale cittadino. Si fanno una richiesta e si danno un’autorizzazione. Gli amministratori pubblici, nel loro ruolo di controllati e controllori, si muovono, insieme, fingendo l’inesistenza degli ostacoli di legge che si prodigano ad abbattere.
Gli uni, come imbarazzati, riescono quasi a rendere invisibile la dimensione storica del comparto in cui progettano, rendendo la richiesta la meno faconda possibile. Gli altri rispondono con un’autorizzazione, a mio modesto parere, viziata per eccesso di potere sotto il profilo dell’analisi storica e del difetto di istruttoria e che mi sembra formata, in virtù del difetto di motivazione, travisamento dei fatti, contraddittorietà, irrazionalità e illogicità manifesta, più sulle regole del gioco del Monopoli.
Non li sfiora minimamente il sospetto agli uni e agli altri e ancor oggi si guardano bene dal bucare il muro del silenzio sulla mancata applicazione del comma 1 dell’art. 20 del Codice dei Beni Culturali che rende gli attuali e futuri lavori, a mio avviso e per quello di tanti, abusivi.

Tutti si scandalizzano perché un vandalo sfregia un monumento con lo spray. Per me – e oso pensare anche per le persone di buon senso – chi scrive sui monumenti è come chi sfregia il ponte di Tiberio. Penso siano entrambi degli ignoranti con l’unica differenza che i secondi portano giacca, cravatta e camicia bianca, beneficiano di uno stipendio pubblico e non pagano di solito per i loro crimini.
Ma lo so bene. Questa è l’Italia mediocre, l’Italia dei poveri campioni dell’umanità e della legalità. Quella in cui è ancora glorificato ciò che diceva Giovanni Giolitti, uno statista accorto e di grande sapienza, di buon senso e insieme di forte senso dello Stato: per i cittadini le leggi si applicano, per gli amici si interpretano, per alcuni si eludono.
In questa prima parte ci siamo occupati dei Supermen della nuova cultura riminese, intendendo non gli uomini ma i personaggi, le maschere che incarnano. Sempre per restare nella sfera metaforica della cinematografia (grazie a Lazzari e Casadei estremamente non dimentichi di essere concittadini di Fellini, a dimostrazione che, cialtronescamente, la vera cultura non muore mai), nella seconda parte di questa fenomenologia ci ripromettiamo di occuparci dei Clown, di coloro che hanno diritto di esistenza grazie ai social, la retroguardia degli sfascisti del Ponte. Non è mestiere da poco.

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