L’Estate dei divertimentificatori: Tondelli, Rimini e quel 5 luglio di 30 anni fa al Grand Hotel

L’Estate dei divertimentificatori: Tondelli, Rimini e quel 5 luglio di 30 anni fa al Grand Hotel

Una stupenda fotografia della Rimini di Pier Vittorio Tondelli e dei suoi protagonisti. Nell'anno degli anniversari: 60 dalla nascita e 30 dall'uscita dal romanzo. Presentato al Grand Hotel. Un ricordo che poteva uscire solo dalla penna di uno dei principali protagonisti di quell'evento (e di molti altri) e che aiuta a leggere la Rimini degli anni 80 ma anche molto del presente.

Non mi è mai piaciuto apparire. È probabile che abbia sempre pensato che siamo ombre e che ciò chiamiamo realtà sia soltanto un’illusione. Quindi perché tornare al passato che, ancor meno dell’istante che fugge senza poterlo assaporare, non esiste più? Forse perché là sono le nostre radici, il nostro esordio.

La locandina pubblicitaria di “Rimini”

La locandina pubblicitaria di “Rimini”

Se mi provo a mettere in scala di graduatoria la schiera lunga dei miei ricordi della carriera di organizzatore del loisir, il primo posto tocca a quella sera di venerdì 5 luglio 1985, alla presentazione di Rimini di Pier Vittorio Tondelli. Penso a quella scintilla scoccata a tavolino, tra telefonate e lettere battute con una Olivetti Praxis (quando il PC era di là da venire) e all’esito folgorante di quella serata all’insegna di eccessi, divertimento e trasgressioni, che poi per molti anni, attraverso l’O.N.U. One Nation Underground, avremmo in qualche modo replicato, nei nostri week-end postmoderni, di cui penosamente restano alcune pallide quanto artificiose e pompate repliche ed imitazioni. Nel suo piccolo, la serata fu davvero “un’agente di storia” locale e, per un altro verso, il traliccio su cui assestammo e costruimmo le nostre iniziative successive, come lo “Slego”, la “Casbah caffèteatro”, il “Rockhudson’s”, “Castelsismondo Cinema”, l’“Io”, “Gradisca”, le nostre rassegne teatrali, cinematografiche e musicali, i nostri concerti, un’esplosione creativa che ha lasciato più di un segno nell’immaginario cittadino e nazionale.
Da poco più di un anno ero Presidente dell’Arci e, in quello stesso periodo, ero stato uno dei più stretti collaboratori di “Immagini” di Mario Guaraldi (divenuto in quel lasso di tempo “editore di eventi”) e di Marco Arpesella, reduci da quella grande quanto sfortunata operazione di ricucitura tra Fellini e Rimini nata nel 1983.
Daniele Brolli, a cui allora ero molto legato, mi aveva informato che Tondelli stava lavorando alla stesura definitiva di un romanzo intitolato “Rimini” (Ecco, Daniele, un altro artista ingenerosamente dimenticato dalla sua città: come già con Fellini i rapporti di Rimini con i suoi Maestri sono pessimi, ma, si sa, i riminesi nel loro complesso sono un po’ “grezzi”).

La dedica di Tondelli a Moreno Neri

La dedica di Tondelli a Moreno Neri

La famosa presentazione del libro di Tondelli è stata in qualche modo documentata e ricordata, specialmente in occasione del ventennale e anche di recente, ma in modi che ho trovato imbarazzanti. Si è fatto affidamento a memorie frammentarie e molto selettive, in cui il ricordo dell’evento serviva più a una personale autocelebrazione di sedicente organizzatore, oppure le analisi o giudizi di intellettuali e funzionari politici locali, intonati a una certa sprezzatura e presa di distanza dal libro e dall’evento in sé, sono apparsi schiacciati, senza dirlo – e ciò è ancora più grave –, dalle scelte “religiose” finali di Tondelli. In questi ricordi (questo vale anche per un libercolo di fresca stampa sullo Slego), per quanto mi consta e conosco per esserne stato protagonista niente e più nessuno è nel posto dove dovrebbe normalmente essere, chi non c’era c’è, chi c’era non c’è, la comparsa diventa protagonista, l’imprecisione anticipa la realtà, l’errore si trasforma in verità. Se fossi solo e non ci fosse e fosse stata mia moglie, Adele Corazza con cui ricordo in unione e convibro, dubiterei di aver spiccato assegni per gli anticipi dei concerti, di aver raccolto con lei gli incassi dello Slego (di cui ero titolare), di aver bevuto una birra al suo bancone con Gregory Corso e Osvaldo “Saponetta”. Per fortuna so chi sono io e cosa ho fatto e alla cancellazione del mio ego, che fa parte del mio processo autorealizzativo, basto a me stesso e non occorre che me lo cancellino altri ego affetti da elefantiasi narcisistica. Non mi è mai interessata l’autoaffermazione, non ho mai avuto un io avido e acquisitivo e anche mia moglie in questo mi è sempre stata l’esatto complemento. Understatement è la cifra che ancora mi si attribuisce quando si recensiscono i miei libri (le mie opere di adesso), e con questo, penso, si vuole qualificare la mia innata e naturale tendenza a celare in modo sobrio e discreto quelle che sono reputate mie qualità. Anche Pier, persona dolcissima, timida e riservata ma anche di grandissima disponibilità, prima sulla sua omosessualità poi sulla malattia che lo minò, tenne sempre un profilo basso, anche se tra chi lo conosceva nessuna delle due fu mai un mistero. E sulla prima delle due non occorre essere dei gran raffinati critici letterari per vedere quanto fosse esposta in evidenza nella sua opera. Anche io ero e sono poco propenso alla visibilità e per questo essere schivo e più espormi nelle mie produzioni, Pier mi definiva un’eminenza grigia. Forse è anche per questa prossimità che mi è sempre apparsa comprensibile, e dal suo punto di vista, molto “testoriano”, condivisibile anche se distante dalle mie attitudini e inclinazioni, l’ultima scelta di Pier di riavvicinamento al cattolicesimo, perché, nella ricerca della spiritualità, c’è sempre il modo di ascendere intelligentemente e sinteticamente al di sopra delle divisioni di Chiese e chiesuole, quando ci si accosta alla morte, al sacro e all’Assoluto.

Fabio Bruschi, Moreno Neri, Adele Corazza. In primo piano Enrico Gnassi alla affollata presentazione di "Rimini"

Fabio Bruschi, Moreno Neri, Adele Corazza. In primo piano Enrico Gnassi alla affollata presentazione di “Rimini”

Non so cosa ne penserebbe di questo tempo Pier Vittorio Tondelli che oggi avrebbe quasi 60 anni. Ma già Rimini parlava di inganno, di falsità, di tradimento, di confusione tra le proprie fantasie e la realtà. Meglio, dunque, rileggere Rimini che i poveri materiali inquinanti che circolano oggi e la cui insostenibilità, per quanto rivestita da un autorevole coperchietto, può solo creare seri problemi di smaltimento. Certamente Rimini, dopo Altri libertini (1980) e Pao pao (1982), non è stato il suo romanzo migliore (anche se negli anni è stato rivalutato) ma ha alcune pagine sulla nostra città indimenticabili.
Rimini, immortalata da Fellini, diventava allora la protagonista nella giovane letteratura italiana. Il romanzo di Tondelli fu tra i più venduti nell’estate dell’85 e sarebbe anche dovuto diventare un film che non fu mai realizzato. Nel ’90 Tondelli avrebbe anche raccolto la sua produzione di articoli giornalistici e saggi in Un weekend postmoderno che è la cronaca vera dell’Italia di quel tempo, di mode e di musica, di tendenze letterarie e artistiche e, di nuovo, di Rimini, della nostra Rimini, di quel periodo (il Classic, il Rockhuson’s, la spiaggia, Rimini come Hollywood sul colle di Covignano…)
Quella di Tondelli è stata una visita in quel mondo prometeico e dionisiaco che faceva di Rimini un’Italia in miniatura notturna, una Fiabilandia della bugia, un iper-realtà che simulava nei suoi eccessi la realtà, tanto da scivolare nel metafisico. Era una Rimini in cui trionfava una vita tanto vulcanica quanto inautentica, una fabbrica che produceva sogni per ognuno, vendendo scappatoie che divertivano e perciò etimologicamente divergevano dalla ricerca di senso e speranza all’insensatezza dell’esistenza. Eri a Viserba, entravi allo Slego e, tra mods, skins e rockers, ti sembrava di essere nel set di Quadrophenia; eri a Gabicce, scendevi le scale dell’Aleph e ti sembrava di essere in Miriam si sveglia a mezzanotte.
Gli anni ’80 hanno avuto uno Zeitgeist molto forte, improntato all’individualismo, al declino delle mobilitazioni collettive e alla ricerca della soddisfazione personale. Attendono ancora di essere studiati, esplorati e interpretati, con narrazioni illuminanti anche per comprendere meglio il nostro presente. Furono anni in cui trionfò un modo di vivere, fabbricato, allora più che mai, da un speciale intreccio tra strutture materiali e dimensione simbolica. L’intero Occidente in quegli anni assume la natura di “società dello spettacolo”, con la musica, il cinema, la televisione che diffondono i propri codici e i propri linguaggi a tutti i livelli, dalla vita privata a quella politica. Rimini, allora, in quel contesto ci stava molto bene, come un pesce nell’acqua, ben nutrita da un suo speciale cosmopolitismo, ed era un mito italiano-popolare sotto stretta osservazione perché da qui nascevano le nuove mode e le tendenze e non era necessario importarle da fuori. Oggi Rimini non è più un topos, ma come è stato detto, e contraddetto, è solo “un puntino sull’Adriatico”, una città futile, tra una Pompei del divertimento che fu con sempre più alberghi silenti come catafalchi e la periferia padano-californiana che ogni tanto si cala qualche cialis o di peggio (fuck the crisis) e che, al massimo, può stimolare qualche libro rosa cenere. Allora nell’85 c’era la “costa est”, un luogo da Comacchio a Gabicce, oggi è tutto delocalizzato e globalizzato ed è meglio scegliere Londra o Berlino o le spiagge delle Baleari. Se è vero che Rimini è “la metafora di una società alla fine dell’Impero”, l’odierno spirito del tempo non può che essere progredito verso questa fine. Oggi c’è solo una ricerca smisurata e acefala del godimento (piacere e fama, potere e denaro) privato da ogni legame simbolico, senza legge o proibizione, che è l’essenza dell’integralismo economico, del consumo compulsivo globalizzato e conformistico.

Oggi Rimini non è più un laboratorio d’avanguardia. Come Rimini era un romanzo polifonico, la città empirica di allora era una partitura musicale di soddisfazione dei desideri, un euforico palcoscenico, dove però esisteva anche l’Altro, poi non importa che fosse il lavoro, il dovere, la religione, la morale, la famiglia… Ecco, almeno era coerente.
saluti-da-rimini-patatinaNella serie dei miei ricordi (in questo caso provvisti anche di un’abbondante documentazione) non ho assolutamente memoria de «le contraddizioni e le ipocrisie di una città che esattamente 30 anni fa contestava ferocemente Tondelli per la sua descrizione di Rimini quale Nashville o Las Vegas italiana, salvo oggi rimpiangerlo perché “allora eravamo il centro del mondo”», come è stato recentemente detto in occasione dell’iniziativa “Saluti da Rimini” realizzata da Maurizio Cattelan, operazione, detto a scanso di equivoci, che mi vede nel partito dei favorevoli (ma la ciliegina sulla torta di sabbia delle cartoline sarebbero stati i Righeira e poi, se si voleva veramente strafare, una performance di Dita von Teese in una vongola gigante piena d’acqua di mare e qualche alga – la merda no perché siamo nella Rimini che cambia). Sono tra i favorevoli senza se e senza ma: non fosse altro perché la trovo nello spirito degli anni ottanta e come diceva Frassica in Quelli della notte “perché non è bello ciò che è bello ma che bello che bello che bello!”. Non ricordo contestazioni feroci della città, né come amministrazione civica né nelle sue espressioni sociali, ricordo al contrario l’enorme ressa dei riminesi al Grand Hotel che non volevano mancare alla presentazione. Forse perché qualche settimana prima il romanzo che doveva essere presentato a Domenica in fu censurato. Allora si era più semplici: o con Pippo Baudo o con Tondelli. Più difficile stare sul trespolo con Nadia Rossi e con Cattelan, anche se le vie dell’equilibrismo italico, da non confondere con l’intelligente e coraggiosa spregiudicatezza, sono infinite. Né, dopo la semiologia e i cultural studies, cara Nadia, ci si può appellare alla distinzione tra arte e pubblicità o cultura alta e cultura bassa. Lo spot di Fellini sui rigatoni – guarda caso del 1985 – sarà pubblicità o sarà arte? Evito, inoltre, di tediarti, stai serena, sulla sartoriana sostituzione dell’homo sapiens con l’homo videns.

Roberto D'Agostino e Moreno Neri alla serata al Grand Hotel

Roberto D’Agostino e Moreno Neri alla serata al Grand Hotel

L’unica voce fuori dal coro che ricordo fu quella del Resto del Carlino che intitolò un suo pezzo “I Lanzichenecchi al Grand Hotel”.
Da principio l’iniziativa doveva essere semplicemente un party con la presentazione del libro. Individuammo con Pier Pierucci, allora responsabile dell’Arci Kids e della Nightclubbing Organization (un circuito di rock-club e locali di tendenza), come conduttore Roberto D’Agostino. Roberto, allora un impiegato di banca che la notte si esibiva come disc-jockey, era diventato famoso come lookologo a Quelli della notte di Arbore. Pensammo che non poteva mancare Lu Colombo con la sua canzone Rimini Ouagadougou (Rimini mi sembra l’Africa / Rimini / come Ouagadougou / forse l’Africa era un sogno l’Equatore passa di qui) che aveva trionfato al festival di Saint-Vincent ed era avviata a diventare uno dei tormentoni estivi. Lu ci chiese solo di essere ospitata al Grand Hotel con la sua inseparabile compagna Caterina Saviane, figlia di Sergio (morta lo stesso anno di Tondelli per un buco finale). Un diciannovenne Thomas Balsamini avrebbe curato il tappeto musicale della serata con l’incarico di terminarla con la musica e le canzoni indicate da Tondelli alla fine del suo romanzo. Ci sarebbero stati anche i Violet Eves con la voce di Nicoletta Magalotti, il gruppo new wave più famoso della Riviera. Buffet della serata sulla grande terrazza del Grand Hotel riservata a duecento invitati, stampa, mass-media e i giovani creativi selezionati dall’Arci. La Bompiani di Elisabetta Sgarbi, grazie anche ai buoni uffici di Alessandro Bacci, avrebbe contribuito con due milioni e mezzo di lire.

Elisabetta Sgarbi, Tondelli (di spalle), Moreno Neri e Renato Barilli

Elisabetta Sgarbi, Tondelli (di spalle), Moreno Neri e Renato Barilli

Caso volle che nello stesso giorno si sarebbe dovuta tenere a Castelsismondo l’inaugurazione della mostra “Anniottanta”, curata da Renato Barilli con Bruno Bandini, Flavio Caroli, Concetto Pozzati, Renzo Semprini, Claudio Spadoni e Giovanni Tiboni. Un po’ per le insistenze di Manuela Fabbri, che curava l’ufficio stampa e le pr della mostra e a cui mi legava la comune militanza nel Partito Radicale, un po’ perché Barilli era stato uno degli insegnanti al Dams di Tondelli, un po’ perché Massimo Conti, nostro compagno di scorribande nottambule, era allora il Sindaco di Rimini e un po’ per gli ulteriori buoni rapporti che intercorrevano con l’allora Assessore alla Cultura Ennio Grassi e con il Dirigente del Settore Cultura Piero Leoni, accettammo di ospitare alla nostra iniziativa anche gli invitati del Comune, che avrebbe economicamente partecipato con altri due milioni e mezzo di lire (per dare l’idea delle proporzioni allora il costo di un quotidiano era di seicento lire). Per un accordo tra gentiluomini il numero degli invitati del Comune non avrebbe dovuto superare i centocinquanta. Mia moglie che insieme alla mia segreteria di allora, Miriam Mignani, era addetta al controllo della lista degli invitati si trovò di fronte a situazioni surreali, con una ressa di amici e amici degli amici, sui quali i funzionari del Comune si defilarono. Alla fine credo che riuscirono ad imbucarsi più di cinquecento persone. L’unico bel ricordo che Adele serba di quella trafila di imbarazzanti situazioni è quello di un allora pressoché sconosciuto e giovane critico d’arte Vittorio Sgarbi, che lei intuì essere il fratello di Elisabetta. “Vittorio Sgarbi” esclamò e lui in contraccambio intavolò uno dei suoi ora rinomati accenni di corteggiamento da tombeur de femmes. Sgarbi sarebbe divenuto famoso qualche anno dopo come ospite al Maurizio Costanzo Show e sei anni dopo a L’Istruttoria di Maurizio Ferrara si sarebbe presso uno schiaffone dallo stesso D’Agostino a cui avrebbe risposto con una bicchierata d’acqua.

Il dopo Grand Hotel alla Baia Imperiale: Manuela Fabbri, Renata Sukupova, Roberto D’Agostino, Pier Pierucci, Adele Corazza, Moreno Neri e Stefano Tonti

Il dopo Grand Hotel alla Baia Imperiale: Manuela Fabbri, Renata Sukupova, Roberto D’Agostino, Pier Pierucci, Adele Corazza, Moreno Neri e Stefano Tonti

Secondo l’articolo non firmato del Resto del Carlino (ma di mano di Silvano Cardellini che, peraltro, ventanni dopo avrebbe ricordato la serata con toni ben diversi) il Tempio di Fellini era stato profanato, non comprendendo che era la poetica su Rimini che si dilatava. Non si spiegherebbe, infatti, perché Tondelli avesse coinvolto Davide Minghini al fine di selezionare cinquanta delle sue foto per la prospettata e poi annullata presentazione a Domenica in. Si criticavano poi le pesanti e irriverenti frecciate di D’Agostino. In breve era stata una serata “cafona”. Ironia della storia o della cronaca (trentanni fa sono sul liminare dell’una o dell’altra) proprio il “Cafonal”, l’esibizionismo pacchiano che travolge tutti, che fa sì che tutti vogliano esserci, cercando di far dimenticare chi sono veramente, sarebbe divenuta anni dopo la rubrica di Dagospia più famosa.
Ci si chiedeva, infine, ieri come oggi, quanto la serata era costata al Comune. E a domanda risposi puntualmente in una mia replica, sapendo bene che mi sarei meritato una controreplica. Mi pare significativo che opponessi il fatto che quella presentazione e quel libro fossero un’iniziativa «nata spontaneamente, che sta[va] dando alla nostra città una nuova immagine, non studiata a tavolino da pubblici amministratori, non “parlata” come il dibattitto sulla promozione turistica, né, tantomeno, appaltata a pubblicitari e imprenditori privati rampanti». In ogni caso per quella modica spesa pubblica Rimini si guadagnò una copiosissima rassegna stampa di quotidiani e settimanali e rutilanti servizi della Rai, di Italia 1 e di altre “Tv libere” come venivano chiamate.

Forse, in fin dei conti, è vero, come dicevano i miei amici artisti “bolidisti” di quel tempo, che “non sapevamo dove stavamo andando ma sapevamo che ci stavamo arrivando a grande velocita”. A volte mi chiedo se quel periodo non sia stata, come la chiamava Plotino, “la grande corsa sulla via contraria”. E mi rispondo che la discesa agli inferi è necessaria. Ma che poi viene l’ora di purificare l’Eros, di togliergli i suoi aspetti “terrestri” e di riprendere il genuino amore per la propria dignitas, per la bellezza della propria anima e di darsi un preciso compito etico: costruire in sé e nella collettività, in modo che quanto è all’esterno sia in accordo con l’interno, l’Armonia, la Misura, il Bello.
Mi accorgo, avviandomi alla conclusione di questa memoria, che molte delle persone che ho nominato, non solo Pier quindi, non ci sono più. E mi viene da pensare che forse il presente declino della nostra città non si può arrestare e che è come pretendere, assurdamente, che all’autunno succeda l’estate; e ancora che siamo tutti successivi a qualcuno o a qualcosa d’eccezionale. Forse, più umilmente e con maggiore equilibrio, dovremmo ricordarci di cosa diceva Gianni Fabbri, l’indimenticato patron del Paradiso di Rimini Alta (che non c’è più, ma da cui in quegli stessi giorni di luglio Umberto Eco guardava giù verso la nostra costa dicendo: “Meglio di Los Angeles!”). Diceva Gianni in un’intervista a La Voce davanti alla crisi incipiente: “Rimini è una città che avrà un futuro se non dimentica di essere una città che si è costruita su ciò che non c’era”.

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