Lo “sblocca Italia” c’è, ora Gnassi deve cambiare verso sui Condhotel

Il Sindaco di Rimini, Andrea Gnassi e la deputata PD, Emma Petitti, sono stati i portabandiera dei conservatori in questa materia. Ecco perché e cosa c'è invece in ballo per il nostro turismo.

Lo “Sblocca Italia” è passato con voto di fiducia anche al Senato. Sui condhotel la partita è finalmente chiusa?
Non ancora, si tratta infatti di una previsione che va attuata attraverso norme specifiche (un DPCM che recepisca l’intesa con la Conferenza Unificata) e conosceremo perciò solo tra qualche mese l’esito del lungo braccio di ferro cui abbiamo assistito.
La previsione legislativa tutto sommato è marginale, sia rispetto allo “Sblocca Italia”, sia in relazione ai grandi problemi del rilancio del turismo italiano. Tuttavia vale la pena di rivisitare il retroterra delle polemiche che si sono aperte perché con quello purtroppo la comunità locale dovrà fare i conti ancora per parecchio tempo.

Gnassi e Petitti, i conservatori di casa nostra
I punti di attacco dei conservatori, di cui sono stati portabandiera il Sindaco di Rimini, Andrea Gnassi e la deputata PD, Emma Petitti, semplificando molto, sono stati due: il rifiuto di una norma immediatamente applicabile di carattere nazionale sulle tipologie di ricettività alberghiera e la critica alla frazionabilità degli immobili alberghieri come elemento incentivante della speculazione immobiliare. Il tutto condito dalla difesa di una antica norma nazionale (un bel paradosso di cui parlerò alla fine) come il vincolo di destinazione d’uso alberghiero degli immobili ricettivi.
La nuova norma sui condhotel punta a disciplinare una nuova tipologia di ricettività alberghiera, già largamente diffusa nei paesi che sono davanti a noi nella graduatoria delle mete del turismo internazionale. Dovrebbe costituire un richiamo per fasce di turismo medio alto, un’opportunità per piccoli investitori stranieri, una potenziale leva finanziaria per la ristrutturazione del nostro patrimonio ricettivo.
E’ obiettivamente difficile capire perché quello che funziona bene altrove dal punto di vista turistico alberghiero, in Italia dovrebbe essere solo un cavallo di troia per produrre speculazione.
Tanto più che la norma non ha un contenuto urbanistico, ma esclusivamente relativo alle attività produttive. Nella sostanza consente (comma 1) che possano essere gestiti in forma unitaria e secondo una tipologia alberghiera dei complessi turistici, composti da unità ricettive tradizionali e da unità abitative destinate comunque ad ospitare turisti. Oggi ciò è vietato perchè le tipologie ricettive definite dalle norme sono molto rigide e separano nettamente gli alberghi dalle CAV (case e appartamenti per vacanze).
Aggiunge (comma 2) che verranno indicate le modalità per la rimozione del vincolo di destinazione alberghiero nel caso porzioni di alberghi esistenti venissero trasformate in condhotel.
Le prerogative della pianificazione urbanistica non vengono affatto sottratte ai comuni, al contrario essi vengono liberati da un anacronistico vincolo di legge nazionale e potranno decidere finalmente in piena libertà la destinazione d’uso urbanistica degli immobili alberghieri.
La norma appare chiara, si basa su una gestione alberghiera unitaria ben definita che dovrebbe risultare facilmente verificabile con opportuni controlli. Non ha nulla a che vedere con la norma urbanistica che venne introdotta (poi opportunamente cancellata) alcuni anni fa a Rimini e che consentiva di trasformare una parte delle superfici degli alberghi esistenti in appartamenti residenziali.
Insomma un Comune che voglia fare rispettare la nuova norma, non dovrebbe trovare ostacoli per evitare il suo aggiramento con altre finalità e, soprattutto, quella nuova previsione restituisce al comune una libertà di pianificazione del territorio che era stata sottratta da una norma nazionale di impostazione vincolistica.
La cosa in se è perciò tutto sommato banale e non dovrebbe avere sollevato particolari polemiche, con ogni evidenza allora il punto dolente è un altro.

Vent’anni di contenzioso istituzionale nel turismo
Il turismo è un settore economico “maturo” molto particolare perchè sforna con continuità nuovi prodotti, nuove tipologie di impresa, nuove professioni, nuove modalità di commercializzazione. Insomma vive di innovazione ed avrebbe bisogno di un impianto normativo capace di inseguire quell’innovazione in modo rapido e snello.
Ho passato gli anni della mia attività parlamentare a cercare di delegificare il settore per consentire che quello che normalmente avviene in altri paesi fosse possibile anche in Italia. Governare cioè il turismo attraverso atti di rango regolamentare e non attraverso leggi, il cui iter approvativo è lungo e complesso e che finiscono per ingabbiare alla loro data di approvazione, un comparto in se molto dinamico.
L’obiettivo era quello di compiere annualmente una ricognizione dei mutamenti intervenuti nell’economia turistica e di adeguare in tempo reale le normative, restituendo alla regolamentazione quella certezza e quella flessibilità che sono richieste dagli operatori economici. Sono stati sforzi, come si vede oggi, in gran parte vani, perchè la delegificazione è stata sommersa dal contenzioso istituzionale.
Sono stato designato relatore della Legge di riforma del turismo nel lontano 1997 (la legge 135 venne poi approvata soltanto nel 2001). Già allora queste questioni erano centrali nella discussione politica e degli attori economici del settore e vennero risolte scegliendo con decisione un approccio di modernizzazione. Sono passati più di quindici anni e risentire gli stessi argomenti da frenatori, che ascoltavo allora dal centro destra o dagli esponenti più retrivi delle categorie economiche, sulla bocca di esponenti della sinistra cui appartengo, sinceramente mi fa cadere le braccia.
La Legge 135, come è noto, non ha avuto una grande fortuna, è riuscita a reggere bene il ricorso alla Corte Costituzionale da parte delle Regioni (eravamo in pieno clima federalista e la legge era considerata troppo centralista), ma venne poi rapidamente congelata ed applicata pochissimo dal governo Berlusconi che si insediò nel 2001.
Dopo un breve revival con il ritorno di Prodi a Palazzo Chigi, venne definitivamente messa a riposo dalla ministra Brambilla con l’approvazione del Codice del Turismo.
Il Codice, che era meno attento di quanto non fosse la legge 135 alle prerogative legislative in materia turistica da parte delle Regioni (la Lega che faceva parte del governo evidentemente si era distratta), invece è stato largamente cassato dalla Corte su richiesta delle stesse regioni. Tanto che ancora oggi non si sa bene quale sia il quadro normativo in vigore nel settore.
Nel frattempo il Dipartimento del Turismo, sotto la spinta federalista, ha trasmigrato diversi ministeri, è tornato in vita ed è stato nuovamente soppresso. Il Ministero del Turismo che era stato cancellato dal referendum, è rinato recentemente come voce ancillare dei Beni Culturali. Alla fine, se le riforme costituzionali di Renzi andranno in porto, la potestà legislativa delle regioni verrà finalmente compensata da una forte prerogativa nazionale.
Insomma il braccio di ferro incessante centralismo/regionalismo in materia turistica è stata una delle costanti degli ultimi vent’anni. Nessun altro comparto economico ha conosciuto un contenzioso così acceso e paralizzante, neppure quello dell’energia. Mentre il mondo del turismo a livello globale correva, il turismo italiano è stato letteralmente ingessato dalla politica e dai contrasti istituzionali. Una malattia devastante. Purtroppo le polemiche riminesi di questi giorni sono figlie dello stesso morbo.

I problemi causati da un ceto politico con pretese da “imprenditore”
La ragione di quel male temo affondi le radici nell’assurda pretesa del ceto politico, a destra come a sinistra, a Roma come a Canicattì, di farsi “imprenditore” del turismo.
Per la verità è un delirio di potenza che ha qualche buon pretesto. Il settore infatti è polverizzato e difficilmente può dotarsi dell’equivalente della direzione strategica di una grande azienda, inoltre porta a valore il territorio di insediamento delle singole imprese e quello è un bene del quale, più che legittimamente, dispongono i poteri pubblici.
In virtù di ciò, consociando i rappresentanti delle categorie economiche, alle diverse scale istituzionali, sono cresciute cabine di regia, enti e società partecipate, una babele di regole diverse per ogni campanile e politici-manager che impongono il proprio imprinting casereccio alla principale industria del paese.
La pretesa “imprenditoriale” del pubblico non si nutre di verifiche di mercato (non si rischiano soldi propri), sono invece le convenienze di consenso politico, di sistema di potere a motivare le scelte che dovrebbero essere assunte in base a dati economici. Ciascuno allora presidia gelosamente il proprio orticello e l’intermediazione politica la fa da padrona, si moltiplica e si sovrappone per ogni livello istituzionale, alimenta un contenzioso amministrativo abnorme.
Si dilapidano milioni di euro in portali internet drammaticamente inefficienti, si promuovono sui mercati internazionali prodotti turistici inesistenti come quelli a scala regionale, ciascuna regione regola a suo piacimento standard di qualità dell’offerta, delle imprese e delle professioni turistiche ed ogni sindaco di località turistica si immagina amministratore delegato della nebulosa di piccole imprese del settore, il più delle volte mettendo un comune contro l’altro.
Il vestito d’Arlecchino è diventato il nostro emblema e la nostra pessima divisa. Trasmettiamo messaggi contrastanti e confusione totale sui mercati globali della vacanza che chiedono invece identità chiare e trasparenza, sia per i consumatori che per gli investitori.
Se dalla Cina è difficile individuare l’Italia come destinazione autonoma in Europa o nel mediterraneo, figuriamoci distinguere la regolamentazione turistica dell’Emilia Romagna da quella del Veneto, eppure riusciamo a considerare fondamentale farci concorrenza fiscale tra comuni limitrofi sulla tassa di soggiorno.
Le normative europee di liberalizzazione, che dovrebbero sottoporre le attività imprenditoriali a poche regole chiare, valide in tutto il continente, per noi sono un optional. La libertà di stabilimento delle imprese e delle professioni è una parolaccia sconosciuta.
I nostri comuni sfornano piani commerciali e pretendono di stabilire dove può insediarsi un negozio in base alla sua estensione, nonostante la Corte Costituzionale ne abbia da tempo decretato l’illegittimità, mentre a Roma può esercitare la propria attività una guida turistica lituana (solo grazie alla protezione dalle norme UE), ma difficilmente una di Perugia perché ha il patentino conseguito in un’altra regione.

Poche e chiare regole, la Riviera ne guadagnerebbe più di altri
Se quindici anni fa mi sembrava una parola chiave “delegificazione” (e lo è ancora), oggi considererei ancora più importante “disintermediazione”, perché è l’intermediazione della cattiva politica che ci ha ridotto così.
Ci vorrebbero poche regole, chiare e valide per tutto il paese, perchè è evidente che un turista dovrebbe poter sapere cos’è in ogni luogo d’Italia un condhotel o un albergo a 5 stelle, senza dover diventare un esperto di diritto amministrativo comparato e un imprenditore dovrebbe sapere se può realizzare un condhotel senza passare dal progettista di riferimento del politico che detta regole ad hoc a livello locale. Alla fine sono queste buone ragioni per non scegliere l’Italia.
Nel mondo con il quale dobbiamo competere non funziona così, almeno non nei cinque paesi che ci stanno davanti nelle graduatorie mondiali e gli standard internazionali nell’attività dell’investitore turistico non comprendono il bacio della pantofola del potente del luogo.
Vorrei che fosse chiaro che noi riminesi, noi che non abbiamo una rendita di posizione turistica ineguagliabile come Roma, Venezia o Firenze, noi che viviamo necessariamente di concorrenza e competitività, noi che ci sudiamo ogni turista straniero che riusciamo a portare sulla riviera, siamo i più interessati ad avere un quadro normativo nazionale moderno, trasparente, facilmente comprensibile all’estero, privo di bizantinismi e difficili declinazioni regionali e locali. Per la nostra economia è un fattore competitivo decisivo.
Le norme frammentate, a geometria variabile, impilate nei successivi livelli istituzionali, in ogni caso da interpretare, servono solo al cattivo ceto politico e sono nemiche delle imprese e dei consumatori. Penalizzano noi più di altri.
I nostri rappresentanti a Roma, a Bologna, all’ANCI, ovunque, dovrebbero ricordarselo, sempre.

Infine vorrei fare notare un paradosso. Chi avesse la perversione intellettuale di svolgere una ricerca negli atti parlamentari riguardanti la legge 135 si accorgerebbe che la volontà di cancellare il vincolo di destinazione d’uso alberghiero degli immobili ricettivi era già presente nei lontani anni della sua discussione ed era stato pacificamente accolta nel testo approvato.
Si voleva così cancellare una norma decisamente obsoleta (le origini iniziali erano addirittura dei primi del ‘900 ed avevano l’intendimento di garantire la presenza di locande per i viaggiatori anche in luoghi privi di vocazione turistica) che limitava la potestà dei comuni nella pianificazione del territorio.
Il testo della legge 135, al comma 6 dell’articolo 11, faceva scattare, alla sua prima applicazione, l’abrogazione della precedente legge quadro del turismo del 1983 (a firma di un illustre riminese, l’on. Nicola Sanese) e con essa del vincolo di destinazione che era previsto in quelle norme all’articolo 8.
Il primo DPCM di attuazione data 13 settembre 2002, e quindi da allora, a mio avviso, ma credo di non sbagliarmi, non esiste più nessuna norma nazionale che sostenga il vincolo di destinazione alberghiera. Rimangono in vita solo leggi regionali, come in Emilia Romagna la legge Chicchi.
Sono leggi che se ne stanno appese, come caciocavalli, ad una norma nazionale che non esiste più e che soltanto la pigrizia legislativa delle diverse regioni ha mantenuto in vita.
La verità è che ciascun comune ha preferito farsi scudo di una norma nazionale non più esistente o di leggi regionali che avrebbero dovuto ragionevolmente essere abrogate, per evitare di assumersi in proprio la responsabilità di decidere il destino degli immobili a destinazione alberghiera che sarebbe opportuno dismettere.
Il coraggio della politica è stato destinato ad altro e l’ignoranza legislativa ha fatto il resto, così nessuno ha tirato per la giacchetta gli assessori regionali che si sono susseguiti per farsi restituire la potestà pianificatoria che era stata sottratta da una vecchia legge nazionale ormai decaduta.
Ha potuto più la pavidità nell’affrontare gli stakeholder del turismo che l’ambizione di governare il cambiamento. E poi se la prendono con lo “Sblocca Italia”.

Sergio Gambini

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