Mettiamo sotto inchiesta il festival delle inchieste giornalistiche

Mettiamo sotto inchiesta il festival delle inchieste giornalistiche

Inizia domani a Riccione il Dig Awards. Quanto costa, quali sono i problemi degli archivi e i rapporti con le istituzioni pubbliche. Tra i partecipanti, un video su 67 disabili abusati. Cosa serve? Più impegno contro la mafia – “siamo un territorio ad alto tasso di illegalità”. E più soldi. Intervista a Sara Paci.

Cani da guardia con un labirinto di denti
In copertina c’è un lupo. Un ibrido, un feroce incrocio tra un uomo e una mascella con un labirinto di denti. I Wanna Be Your Watchdog. ‘Watchdog’ sta per ‘cane da guardia’. Watchdog journalism sta per giornalismo come cane da guardia della democrazia, della legalità, del libero pensiero. Immagine violenta e logo senza troppi fronzoli: è il marchio dell’ultima edizione di Dig Awards, che comincia domani, va avanti fino al 25 giugno, a Riccione (è tutto qui). Per i giornalisti il festival è una vera festa: una giuria sontuosa (il presidente è Jeremy Scahill, che ha fondato The Intercept, testata on line finanziata dal fondatore di eBay, che ha dato spazio, tra l’altro, ai documenti di Edward Snowden; tra gli italiani ci sono Pino Corrias, Corrado Formigli, di Tempo reale, Alberto Nerazzini) premia la miglior videoinchiesta, in una serie piuttosto varia di categorie, dal reportage all’investigative. Dig Awards esiste da tre edizioni, avendo ereditato – non senza tempeste – la missione del Premio ‘Ilaria Alpi’, nato nel 1994. “Ho cominciato con l’‘Ilaria Alpi’ nel 2003, prestando servizio civile a Riccione, io sono di Rimini. Il mio referente era Pasquale d’Alessio”, attacca Sara Paci, factotum di Dig. “Lì ho iniziato occupandomi degli archivi, poi delle rassegne documentarie, della progettazione europea…”. Calma. L’idea è quella di mettere sotto inchiesta la rassegne più importante d’Italia delle inchieste giornalistiche.

Cominciamo con i fatidici archivi.
“Gli archivi sono conservati alla Villa Lodi Fè, a Riccione, suddivisi in due filoni. Il primo raccoglie le opere in concorso all’‘Ilaria Alpi’, catalogate e indicizzate fino al 2012 nella Rete Bibliotecaria di Romagna e San Marino. Alcune opere sono in Vhs, altre sono state digitalizzate, alcune sono su supporti superati. Certo, bisognerebbe programmare un lavoro di ripristino importante sugli archivi…”.

Dacci qualche numero. E poi, cosa c’importa di questi materiali?
“In 20 anni di attività sono state raccolte circa 3mila opere, di grande rilievo. I materiali d’archivio sono estremamente importanti. Faccio un esempio. Mediaset non ha archivi. Spesso i giornalisti – per tutti: Toni Capuozzo – chiedono a noi i loro lavori passati di qui”.

Accennavi all’altro filone degli archivi.
“Quello che riguarda il caso giudiziario di Ilaria Alpi. Abbiamo dei materiali inediti, ad esempio il girato integrale di Miran Hrovatin in Somalia, l’operatore assassinato insieme alla giornalista del Tg3. Di Miran possediamo anche la telecamera, un regalo che è stato fatto all’Associazione Ilaria Alpi”.

L’Associazione Ilaria Alpi, però, non esiste più, da quando la madre di Ilaria, Luciana Riccardi Alpi, nel dicembre del 2014, scrive una lettera pubblica in cui chiede che il Premio venga chiuso. Insomma, di chi sono gli archivi?
“Gli archivi sono del Comune di Riccione, della Regione Emilia-Romagna e dell’Associazione Ilaria Alpi. Ma l’Associazione Dig, di fatto, nella mia figura e in quella del direttore, Matteo Scanni, continua – è segnalato anche nello statuto – l’opera iniziata dal Premio ‘Ilaria Alpi’”.

Inevitabilmente, però, una spaccatura nel Premio ‘Ilaria Alpi’ è accaduta.
“Certo. Non ci sono più Francesco Cavalli, Pasquale d’Alessio e Giovanni Tonelli”.

Insomma, le anime del Premio.
“Quando è giunta la lettera di Luciana Alpi ci siamo interrogati sulla nostra attività. All’epoca la presidente del Premio era Mariangela Gritta Grainer. Ha ritenuto che valesse la pena proseguire il percorso, pur con altre forme e modalità. Parte dei soci, che riteneva l’esperienza del Premio indissolubilmente legata alla figura di Ilaria Alpi, ha deciso di lasciare”.

Chiuso l’‘Ilaria Alpi’, a chi appartengono gli archivi delle edizioni di Dig Awards?
“Sono di proprietà diretta dell’Associazione Dig. Ma li facciamo fruire come fossero pubblici”.

Cosa è successo nel frattempo?
“Sono cambiati i rapporti amministrativi. Non c’è più una co-progettazione tra Comune di Riccione, Regione e la nuova associazione”.

Come mai?
“Diciamo che non si sono create, al momento, le condizioni politiche di una intesa reciproca. Un peccato. Il nostro desiderio, visto che di fatto assolviamo a una funzione pubblica, è quello di firmare un protocollo d’intesa tra Associazione Dig, Comune e Regione, per condividere gli archivi e i progetti”.

Veniamo ai costi, domanda sempre un po’ spinosa. Quanto costa questa edizione di Dig Awards?
“Tra i 100 e i 110mila euro. Contando che 30mila euro sono la cifra destinata ai premi, il resto – tra 70 e 80mila euro – copre i costi della manifestazione”.

Quanto mette il ‘pubblico’, cioè il Comune di Riccione e la Regione Emilia-Romagna?
“Il Comune finanzia con 25mila euro più il service [stabilito, nella Determinazione n. 677, in 12.139 euro ad Alterheco, ndr]. La Regione, attraverso un bando, ci dà 35mila euro”.

Il resto, chi lo mette?
“Per il resto c’è Sky, Banca Etica, l’Ordine dei Giornalisti e molte partnership di tipo diverso. E poi, c’è una questione non da poco…”.

Quale?
“A differenza dell’antico Premio ‘Ilaria Alpi’ noi svolgiamo una vera e propria attività di mediazione tra chi propone i documentari e le inchieste e chi li acquista. Nei giorni del Dig Awards avremo il direttore di Sky Atlantic e quello di Rai News che vengono a vedere se ci sono lavori interessanti per le proprie testate”.

In soldoni: con il Comune di Riccione non coprite neppure la spesa dei premi in sé…
“Una manifestazione come questa avrebbe bisogno di un budget di 300mila euro. Tentiamo di contrarre i costi. Siamo un team affiatato, di volontari appassionati, retribuiti molto poco”.

Croce e delizia di una manifestazione giornalistica a vocazione internazionale. La giuria è composta da 7 giornalisti europei e americani, i partecipanti vengono da ogni angolo del globo.
“Quest’anno siamo riusciti a invitare, con non pochi problemi per i visti, due giornalisti iracheni e un egiziano. Il giornalista egiziano è in finale con una inchiesta sulle violente domestiche in Egitto, Behind the doors of silence. I giornalisti iracheni, invece, in Project No. 1 raccontano una storia di straziante corruzione: 1700 scuole in Irak avrebbero dovuto essere ricostruite attraverso un intervento statale di 200 milioni di dollari. Di quel denaro si sono perse le tracce. I giornalisti hanno avuto il coraggio di fare una denuncia chiara, con nomi e cognomi”.

Un coraggio che spesso manca in Italia. Dal vostro osservatorio, qual è lo stato del giornalismo d’inchiesta in Italia?
“In questa edizione sono emerse alcune realtà giornalistiche che tentano di cambiare il sistema. Una è la testata on line indipendente Fanpage, che partecipa, tra l’altro, con l’inchiesta The Old Pope. Il caso Provolo”.

Una inchiesta sconvolgente, a leggere dalla didascalia, che vale la pena ri-leggere. “Nel 2009, 67 disabili denunciarono numerosi abusi sessuali subiti ai tempi in cui si trovavano all’Istituto Provolo di Verona, una struttura religiosa che accoglie bambini sordomuti di famiglie disagiate. Gli abusi, attribuiti a diversi sacerdoti, sarebbero continuati per decenni e i responsabili sarebbero stati coperti e spesso trasferiti in Sudamerica”.
Fanpage partecipa anche con una inchiesta sulla cosiddetta ‘droga di Hitler’, la metanfetamina, usata durante la Seconda guerra dai soldati nazisti e tornata di moda, drammaticamente, nell’Europa dell’Est”.

Veniamo ai punti dolenti del giornalismo italico.
“Sono quelli che si sanno: è sempre più difficile fare inchieste vere, avere il tempo di documentarsi, trovare i finanziamenti. La Rai, per dire, non fa coproduzioni, a differenza dei servizi pubblici degli altri paesi europei, e questo rende difficile al free lance proporsi degnamente in concorsi all’estero”.

Non che la Rai faccia inchieste epocali…
“Infatti. La Rai è in paralisi da tempo e anche quando trova trasmissioni apprezzabili – Politics, per esempio – cambia continuamente format subendo la tirannia dello share. Il problema è che bisogna coltivare una platea specifica, con una operazione seria di servizi giornalistici. Se Sky si sta convertendo sempre più da news ad approfondimenti, questo accade molto raramente in Mediaset”.

Tra i documentari in concorso, segnalami quello più interessante.
The Money Preacher è la storia di un predicatore televisivo norvegese, Jan Hanvold, che è anche il padrone di un impero televisivo. C’è una immagine in particolare di cinica bellezza. All’interno della sua chiesa, enorme, il predicatore dice, a un certo punto, che è arrivato il momento della donazione. I fedeli fanno la fila davanti a sei persone munite di… bancomat!”.

Insomma, al posto di prendere l’ostia si striscia la carta di credito.
“Proprio così. Quanto più diventeremo poveri e sfigati tanto più avremo bisogno di simili ciarlatani”.

Uno dei punti chiave di Dig è la denuncia continua del fenomeno mafioso sulla Riviera romagnola. Al vostro sguardo è un fenomeno in aumento?
“Non possiamo dirlo perché la mafia agisce diffusamente e silenziosamente. Possiamo dire che sono necessarie delle sentinelle in grado di denunciare le anomalie. Le Associazioni degli albergatori, ad esempio, dovrebbero aprire uno sportello per permettere ai propri associati di denunciare, anche in forma anonima, senza esporsi direttamente alle autorità”.

Perché c’è sempre questa perplessità nel denunciare?
“Perché, lo dico con tristezza, siamo in una zona che ha l’attitudine all’illegalità. Basti pensare al numero impressionante di sportelli bancari e di biglietti da 500 euro in circolazione, tra i massimi in Italia, cui fa specchio un reddito pro capite denunciato di 18mila euro. Ora, è ovvio che siamo in un territorio ad alto tasso di evasione fiscale, che tende a non dichiarare dove vengono i propri soldi. Il problema, ripeto, è culturale. Su questo lavoriamo, costantemente”.

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