Pace in Europa: ne parla il “firmatario” della guerra alla Serbia

Pace in Europa: ne parla il “firmatario” della guerra alla Serbia

Dialogo, accoglienza e ramoscelli d’ulivo sono i temi che la Diocesi affida alla conferenza elettorale di Romano Prodi. Quello stesso che nel ’97, quand’era a capo del governo italiano, fece il blocco navale per fermare gli albanesi, e nel ’98 impegnò l’Italia alle operazioni belliche.

«Dialogo, inclusione, solidarietà, sviluppo e salvaguardia della pace»: queste le parole d’ordine della Diocesi di Rimini (che anche sul proprio sito parla dell’incontro col professore come una delle “principali iniziative pastorali di rilievo diocesano”) «perché si realizzi la coscienza dell’Europa come comunità». Se ne parlerà questa sera nel corso di una conferenza che avrà come relatore unico Romano Prodi, l’ex presidente della Commissione europea, nonché fondatore dell’Ulivo e “costituente” del Pd, che da varie settimane sta conducendo un vero e proprio tour elettorale di schieramento.
Esempi recentissimi:
a Bologna il 6 aprile («Eleggere chi vuole l’Europa unita», sintetizza Repubblica (fonte);
a Roma il 9 aprile («Gli obiettivi che i sovranisti si pongono si possono raggiungere solo se si è filoeuropei, questo è l’assurdo» (fonte);
a Piangipane il 3 maggio («Alle prossime elezioni il vero nemico sarà l’assenteismo. I sovranisti cresceranno ma non prevarranno» (fonte);
a Matera il 7 maggio (Prodi auspica dopo il voto «l’alleanza fra popolari e socialisti con l’apertura a liberali o verdi»; «la standing ovation – dice il Manifesto – è la dimostrazione della nostalgia per i tempi dell’Ulivo e dell’Unione» (fonte).

La Diocesi di Rimini è sicura che Prodi sia uomo del ramoscello della pace e del dialogo con tutti?
Per farsi un’idea del pacifismo del politico bolognese bisogna ritornare con la memoria al periodo fra l’autunno 1998 e la primavera 1999.
Da presidente del Consiglio in carica, il 7 ottobre ’98 Prodi fu sconfitto sul voto di fiducia in Parlamento. La crisi portò, come è noto, al governo D’Alema, sotto il quale, il 24 marzo 1999, le forze della NATO iniziarono a bombardare: primi obiettivi, Pristina, Pogdorica e la periferia di Belgrado. Per capirci, 500 chilometri in linea d’aria dal centro del continente, Vienna.

D’Alema, poi, ebbe a pentirsi delle bombe sganciate e chiamò a risponderne il suo predecessore a palazzo Chigi: «Fu un errore bombardare Belgrado», dichiarò dieci anni dopo quei fatti, «ma l’Act order, il meccanismo previsto dalla Nato con il quale le forze armate dei singoli paesi vengono messe in allarme e a disposizione del comando generale, era stato già deliberato dal governo Prodi», «vorrei che nelle ricostruzioni di quel periodo se ne tenesse conto».

Del resto lo stesso Prodi si intestò la firma dell’Act order, in una lettera del 2001 al Corriere della Sera nella quale polemizzava garbatamente, e con un certo orgoglio, con l’ex ministro della Difesa Carlo Scognamiglio sui dettagli di quei giorni di preparativi bellici: «ancorché dimissionario – rimarcava Prodi nella lettera – fu il mio governo ad assumersi la responsabilità di decidere a favore dell’Activation Order. E fui io stesso, come Presidente del Consiglio, a firmare il relativo provvedimento».

Scognamiglio ammise cavallerescamente la circostanza: «va dato atto al governo dimissionario di avere superato non poche difficoltà e resistenze istituzionali per non bloccare la decisione della Nato». In altre parole Prodi non solo “firmò” per l’Italia l’entrata in guerra convintamente, ma facendo anche lo sforzo politico di «superare difficoltà e resistenze istituzionali» interne.

[Il carteggio, insieme a molti altri documenti, si può leggere qui]

Fra parentesi, è interessante in questo contesto prendere atto di una rivelazione di Massimo D’Alema in un’intervista.
Domanda: «Al Consiglio europeo di Berlino, un giorno dopo i primi bombardamenti, Tony Blair le rimproverò di attardarsi ancora a parlare di soluzione diplomatica».
Risponde D’Alema: «In effetti, sembrò per un momento che si fosse aperto uno spiraglio, ma non era vero e la mia dichiarazione apparve, e lo era, troppo ottimistica. Blair replicò, ma si trattò di battute ai giornalisti. Nella riunione di quel Consiglio si parlò di tutt’altro: fu la riunione in cui si decise dell’agenda 2000 e di Prodi presidente della Commissione.» (fonte). Guerre e poltrone: quel che si dice una politica francescana, dialogante e pacifica.

E che dire a proposito di accoglienza dei migranti?
Le cronache ci danno una risposta. A proposito di blocchi dei porti «c’è il precedente del governo Prodi» – documenta Lettera43: «Era il 1997 e a guidare il Paese era il centrosinistra»; «nel marzo 1997 passò un decreto legge per regolamentare i respingimenti e poco dopo venne firmato un accordo con Tirana per contenere il traffico clandestino. L’intesa prevedeva un pattugliamento delle coste, e dava alla Marina il potere di “convincere” le imbarcazioni cariche di migranti a invertire la rotta. Insomma si trattò di un blocco navale a tutti gli effetti, anche se la Farnesina ha sempre negato questa definizione. Scriveva la Repubblica il 25 marzo di quell’anno: “Non sono più profughi, ma immigrati non in regola. E quindi vanno respinti”. Il 28 marzo 1997 la Katër i Radës, una motovedetta con 120 persone a bordo tra cui molte donne e bambini rubata a Saranda dai trafficanti, dopo aver ignorato l’ordine di invertire la rotta impartito dalla Zeffiro della Marina italiana venne speronata nel canale d’Otranto da una corvetta, la Sibilla. L’imbarcazione albanese affondò portandosi dietro 81 persone.» (fonte)

Questi i titoli di allora della stampa non certo ostile al governo dell’Ulivo: «Blocco navale per fermare gli albanesi», «ieri sera il presidente del Consiglio Romano Prodi e il premier albanese Bashkim Fino hanno trovato a Roma un accordo per un piano anti-esodo. Ufficialmente le nuove disposizioni date alla Marina parlano di “opera di convincimento”. In pratica, è un blocco navale» (fonte)

Torniamo all’oggi. Il Progetto Culturale Diocesano, cioè il gruppo che organizza la conferenza di Prodi, informa in una nota alla stampa di essersi ispirato a un discorso di papa Francesco, secondo cui l’Europa «non è una raccolta di numeri o di istituzioni, ma è fatta di persone. Purtroppo, si nota come spesso qualunque dibattito si riduca facilmente ad una discussione di cifre», ad esempio «non lavoratori, ma indicatori economici», e così via tanto che – conclude Francesco – «il concreto della persona umana è così ridotto ad un principio astratto».
Peccato che il relatore della serata elettorale abbia un concetto aritmetico dell’integrazione continentale, come ha spiegato il 6 aprile scorso: «non possiamo sopravvivere se non siamo in Europa: nel mondo ci sono 22 cinesi per ogni italiano, almeno se siamo in Europa ci saranno quattro o cinque cinesi per ogni europeo, e allora potremo in qualche modo avere una voce nel mondo, altrimenti siamo finiti» (fonte).

Renzo Mattei

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Fotografia: il relitto della Katër i Radës nel memoriale “L’Approdo. Opera all’Umanità Migrante” di Costas Varotsos; autore Berthold Werner (Wikipedia)

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