Partito della città cercasi

Si è dissolto l’“effetto comunità” che era stato costruito nei decenni. Sotto il peso delle inchieste giudiziarie ma prima ancora perché gli scrigni

Si è dissolto l’“effetto comunità” che era stato costruito nei decenni. Sotto il peso delle inchieste giudiziarie ma prima ancora perché gli scrigni del “capitale sociale” hanno esaurito la loro funzione di cemento della comunità per trasformarsi in un sistema di potere pervasivo ed autoreferenziale. Col Pd indebolito da anni di governo non all’altezza dei problemi reali e da fallimenti clamorosi come quello dell’aeroporto, con la frammentazione delle liste civiche, al voto del prossimo anno a Rimini si ripeterà quel che è accaduto a Parma? C’è ancora spazio per guardare più in là.

C’era una volta la “cisuleina”.
Con una buona dose di astuzia comunicativa, per descrivere il simbolo elettorale della sinistra alle elezioni comunali di Rimini, nei due decenni precedenti agli anni ’70, nel forese, quando ancora porta a porta si insegnava come votare, gli attivisti del PCI, fac-simile alla mano, facevano la croce sopra il simbolo dell’Arengo che li rappresentava sulle schede e, alle signore più anziane, dicevano: “Tè da mèt la crosa sora la cisuleina”.
L’ambiguità del messaggio, lo insegnano i moderni strateghi della comunicazione, può allargare il bacino dei potenziali consumatori. In un altro contesto le cose infatti andavano diversamente.
Il professionista del centro storico, il professore del liceo, il commerciante, che conosceva l’immagine stilizzata dell’Arengo, sapeva che dietro quel simbolo c’era un’operazione politica, più o meno credibile, comunque non banale, che aveva l’obiettivo di presentare la classe dirigente locale della sinistra come il partito della città. E così, alle politiche, mille volte Scudo Crociato, ma alle comunali il pensierino lo facevano.
Nell’epoca della sovranità delle ideologie, il PCI sparigliava, si vestiva di pragmatismo, imbottiva le proprie liste elettorali di indipendenti e stilava programmi elettorali non ideologici, improntati principalmente al buon governo civico e alla realizzazione di opere pubbliche utili a tutti. Il sindaco Walter Ceccaroni, il primo cittadino più longevo ed amato dei decenni passati, era l’emblema di quella strategia politica.
I risultati per molti anni gli hanno dato ragione, a tutte le elezioni comunali la sinistra raggiungeva tra il 3% e il 4% in più delle percentuali conseguite alle politiche, esattamente il contrario di ciò che avviene ora. E Rimini non era certo un’eccezione balneare, a Bologna la sinistra, alle comunali, correva infatti sotto il simbolo delle Due Torri.
Partito della città, buon governo prima di tutto, amministratori competenti e rappresentativi della comunità prima che del partito, lista civica. Non sempre l’immagine corrispondeva alla realtà, tuttavia era quello che si voleva comunicare e la scelta politica che veniva reputata vincente.
Un semplice travestimento per superare l’handicap elettorale della paura del comunismo? Direi non solo, era un progetto complesso che aveva alla base l’inclusione nel blocco di governo di forze sociali, categorie economiche, matrici culturali che erano tradizionalmente lontane dagli insediamenti della sinistra, ed una fusione con essi.
Se anche all’inizio fosse stato esclusivamente un travestimento, con il tempo è divenuto il costume abituale. E’ difficile immaginare il “miracolo” emiliano romagnolo senza quella apertura di orizzonte sociale e politico, senza un approccio ai temi del governo locale di natura civica e senza la presenza di un particolare “effetto comunità” ad essi collegato.
Sappiamo come vanno le cose oggi nella mia sinistra, il cahier de doleance è molto lungo (per capirci basta guardare alla cosa più banale: la composizione delle liste elettorali è sempre più il risultato di un’estenuante ed autoreferenziale trattativa per soppesare l’equilibrio tra correnti e sotto correnti).
La sostanza è che dopo lo sgretolamento di quel mondo, la crisi degli ultimi anni, in molte realtà locali dell’Emilia Romagna, a Rimini più che altrove, ha dissolto l’“effetto comunità” che era stato costruito nei decenni, le sue idee forza, le pratiche ed i presidii che lo costituivano, il suo senso di futuro. L’enorme astensione alle recenti elezioni regionali parla precisamente di questo.
La mia convinzione è che oggi all’ordine del giorno, prima di ogni altra cosa ci sia questo smarrimento, questo interrogativo sulle ragioni e sui modi grazie ai quali una comunità sta assieme e può raggiungere comuni obiettivi di benessere.
A ben vedere i recenti successi della Lega e del M5S sono legati alla risposta che le due formazioni politiche hanno dato a questo interrogativo.
La comunità della piccola patria, chiusa ed escludente dei leghisti e la comunità del web senza controlli e senza verifiche, che recupera su un piano diverso la solitudine dell’individuo proposta dai grillini.
Risposte che accrescono il loro appeal in modo direttamente proporzionale allo sfarinarsi del senso di comunità del passato che si era identificato con il gioco democratico ed il governo delle sinistre dei decenni trascorsi.
Quelle idee di comunità condividono la capacità di cavalcare e stimolare la frammentazione, accarezzare ogni particolarismo, promuovere lo spirito NINBY (Not In My Back Yard). Una comunità di opposizione che deve necessariamente ignorare o quantomeno lasciare sullo sfondo un credibile orizzonte di governo.

Negli ultimi mesi abbiamo assistito a crisi che hanno investito alcuni snodi decisivi del sistema Rimini. Su di esse si è già detto molto.
Vale la pena però di guardare più in là. Più in là delle conseguenze evidenti e ravvicinate sulla economia della nostra comunità. Le crisi si sono sommate infatti all’andamento generale dell’economia nazionale e hanno fatto del sistema Rimini una delle realtà più penalizzate e fragili della nostra regione a conclusione (si spera!) di questo lungo periodo di recessione.
Il caso del Fellini è senza dubbio quello avvertito in modo più immediato da una larga fascia degli operatori economici che, a diverso titolo, si sono rapportati a quella infrastruttura e dai lavoratori in essa occupati.
Tuttavia il rosario degli ultimi mesi è ancora più doloroso.
L’inchiesta giudiziaria sulla Cassa di Risparmio ha riportato sotto i riflettori il pesante ridimensionamento del principale istituto di credito della città, avvenuto negli ultimi anni. La più forte Cassa di Risparmio della Romagna che aveva le carte in regola per guidare processi di aggregazione virtuosi, ha deciso invece di ballare da sola e di giocare con il paradiso fiscale della porta accanto.
Dopo anni di gestione deficitaria si ritrova più piccola e debole, con un ruolo sempre più marginale che la costringerà, con ogni probabilità, ad inserirsi nei complessi processi di aggregazione in atto nel mondo bancario italiano, in chiave decisamente ancillare.
Il più importante centro di servizi alla piccola impresa del nostro territorio, CNA servizi, esce a pezzi da anni di gestione onnivora ed al di sopra delle proprie possibilità.
Il Palacongressi, che ha comportato ingentissimi investimenti pubblici e che ha pesantemente indebitato l’intero sistema delle finanze pubbliche, stenta a decollare. Ha pagato gravemente previsioni decisamente sovrastimate e l’anno di ritardo nella sua apertura dovuto al noto “incidente” dei pilastri.
Ha dovuto subire una radicale riorganizzazione della governance, ma i suoi conti economici rimangono una bomba ad orologeria innescata che potrebbe travolgere le finanze pubbliche. Di certo c’è la constatazione che il miracolo immaginato sul versante della moltiplicazione delle presenze turistiche non si è realizzato e quella che sembrava una grande opportunità per tutto il sistema è diventato un grande problema da risolvere.
Storie diverse, destini diversi, almeno dal punto di vista economico.
In un mercato che funziona i meccanismi della “distruzione creatrice” possono sopperire al ridimensionamento di attività imprenditoriali, anche di quelle più strategiche. Lo spazio lasciato nella gestione dei servizi alle imprese o in quello del credito, dovrebbe essere occupato da aziende più efficienti ed innovative e il sistema Rimini potrebbe alla lunga addirittura trarne benefici.
Un discorso diverso riguarda invece le infrastrutture per le quali non basta certamente la mano invisibile del mercato. Per esse il ruolo delle scelte del pubblico rimane decisivo, particolarmente se si tratta di avviare solidi processi di privatizzazione come sarebbe stato necessario in passato per l’aeroporto e come lo sarebbe oggi per il polo fieristico congressuale.

Ma non parliamo solo di economia, i quattro casi che ho citato per Rimini rappresentano qualcosa di più.
In un quadro competitivo nel quale i fattori di successo per le singole imprese sono sempre di più il risultato di un mix tra orizzonti di internazionalizzazione e assetto dei sistemi territoriali, per anni essi sono stati tra i presidii decisivi e strategici della coesione della nostra area sistema e dell’effetto comunità, scrigni preziosi del nostro “capitale civile”, come direbbe il professor Zamagni.
Tasselli e pilastri di un modello, nel rapporto pubblico/privato, nella relazione bipartisan dei partiti politici, nella concertazione tra amministrazione e categorie economiche.
Il “Fellini” è stato per anni un prototipo dell’inclusione delle categorie economiche, attraverso la diffusa presenza dei vertici delle associazioni nella governance e nella gestione dell’aeroporto e delle società collegate, particolarmente sul versante della larga platea degli operatori del turismo.
Il Convention Bureau ed il polo fieristico congressuale non sono stati certo da meno. L’intreccio tra l’ente pubblico e l’attività privata aveva nel meccanismo, poi naufragato, delle royalties un ulteriore ed innovativo banco di prova. La governance pletorica e ridondante del polo nel suo complesso ha consentito di soddisfare molteplici necessità per i vertici delle categorie e per quelli dei partiti e di cementare l’attitudine consociativa dell’opposizione politica.
Il segretario della CNA ha occupato per anni le poltrone di vice alla Fiera ed alla Camera di Commercio e nella stagione migliore collezionava nel suo album di dipendenti e consulenti, una folta squadra di amministratori locali in molti comuni della provincia con un effetto di diffusa rappresentazione di quegli interessi nelle istituzioni locali.
La Fondazione che la riforma invitava e concentrarsi su finalità sociali proprie, ha scelto di investire la nuova governance prevista dalla legge, che comportava un’apertura e la presenza di rappresentanti degli enti locali, nell’ostinata (e perdente) difesa dell’intreccio con la banca e del suo rilevante peso nelle pieghe dell’economia locale.
Di tutto ciò oggi restano in alcuni casi solo muri anneriti, per altri il ricordo di una passata grandezza, in ogni caso l’impossibilità di giocare quel ruolo di pilastri dell’“effetto comunità” di cui ho parlato.
Personalmente ritengo che la ragione di queste cadute intrecciate risieda nella progressiva trasformazione dei presidii comunitari in un sistema di potere votato principalmente alla riproduzione di se stesso. Gli scrigni del “capitale sociale” di Zamagni si erano da anni ormai “chiusi” ed avevano progressivamente esaurito la loro funzione di cemento della comunità per diventare in primo luogo cemento di un sistema di potere pervasivo ed autoreferenziale, incapace di suscitare quel consenso sociale che in passato consentiva di accettarne anche il lato oscuro, fatto di lottizzazione, clientelismo e comportamenti castali.
Ma adesso che quei pilastri sono crollati, che un’intera fase storica si è malamente conclusa, cosa succede?

Nei giorni passati c’è stata una dotta ed elegante polemica sulle pagine del Sole 24 Ore tra due prestigiosi professori ed editorialisti, Luca Ricolfi e Roberto D’Alimonte.
La discussione ha avuto come oggetto l’Italicum e la sua efficacia nel produrre uno stabile quadro di governo.
Ricolfi, per spiegare la complessità e la novità del quadro politico attuale, ha proposto il paradosso di Condorcet, il noto enciclopedista francese che fu uno dei primi ad applicare la matematica allo studio della società.
Il ragionamento nella sostanza è questo: in molte società europee, dopo la recessione e la crisi finanziaria degli ultimi anni, la scelta politica dell’elettorato non avviene più tra i due poli della destra e della sinistra, ma contempla un terzo interlocutore, che assume diverse vesti a seconda dei paesi, ma che si caratterizza per una comune identità antieuropea.
Il paradosso di Condorcet esaminava proprio la situazione di tre alternative invece che due (A, B e Pluto, secondo Ricolfi). A batte B, B batte Pluto e perciò tutti si attenderebbero che a maggior ragione A potesse battere Pluto, ma ciò non avviene ed è anzi Pluto a battere A. Il fenomeno è quello della circolarità delle preferenze elettorali.
Secondo Ricolfi oggi la sinistra batterebbe una destra divisa ed indebolita, soprattutto se egemonizzata dalla Lega. D’altra parte in uno scontro tra la destra e il M5S, vincerebbe la destra perché una consistente parte dall’elettorato di centro, che oggi è attratto da Renzi, rifluirebbe sulla destra piuttosto che consentire la vittoria dei grillini, ma, se il confronto fosse tra la sinistra e il M5S, sarebbe possibile una somma degli elettori di destra con quelli pentastellati, consegnando la vittoria ai seguaci di Grillo. Di qui la critica al sistema a doppio turno dell’Italicum che potrebbe consegnare la guida del paese ad una forza antieuropeista con le disastrose conseguenze che ciascuno può immaginare.
E a Rimini che cosa potrebbe succedere alle elezioni comunali della primavera 2016?
Non c’è di mezzo l’austerità degli euroburocrati, ma il disfacimento di un decennale sistema di potere questi si. E con esso lo smarrimento dell’“effetto comunità”, la disaffezione per il gioco democratico incardinato sull’asse destra/sinistra, il profondo malessere per il degrado economico e la richiesta di una alternativa di sistema.
Il precedente di Parma 2012 parla chiaro.
Una sinistra indebolita da anni di governo non all’altezza dei problemi reali, da fallimenti clamorosi come quello dell’aeroporto, dalle inchieste giudiziarie conseguenti, incapace di ricostruire gli storici pilastri del “capitale civile” entrati in crisi, riuscirebbe comunque a battere una destra divisa, senza un vero programma alternativo di governo, particolarmente se a guida leghista, come per altro è avvenuto negli anni passati, anche in momenti di ciclo elettorale basso per la sinistra a livello nazionale.
Ma se al ballottaggio dovesse vedersela con il M5S che fine farebbe la sinistra? L’elettorato liquido e la circolarità delle preferenze elettorali, finirebbero con ogni probabilità per consegnare la vittoria, anche a Rimini, ai grillini.
Per tanti elettori, con ogni probabilità, sarebbe preferibile liberarsi da un sistema di potere che non produce più alcun spirito di comunità e affidarsi all’ignoto della comunità del web, della difesa dello status quo delle corporazioni e dello spirito NINBY.
Sarebbe questa una prospettiva desiderabile?

Credo che il rincorrersi di iniziative civiche cui assistiamo in queste settimane, sia un segnale potente del disagio che questo orizzonte complesso genera in molti cittadini animati da autentica passione civile.
Un potente segnale, ma purtroppo non ancora un’alternativa sufficientemente forte da scompaginare il paradosso di Condorcet.
Mi sbaglierò ma avere tre o più liste civiche è come non averne nessuna, perché proprio la loro frammentazione lascia intravedere ansie di protagonismo, desideri di primogenitura, ambizioni di carriera, disponibilità a spregiudicate operazioni politiche di soccorso ad uno dei due poli che si confrontano lungo l’antico asse destra/sinistra, insomma vecchia politica che nega lo stesso principio dello spirito civico che dovrebbe promuovere.
Ho buoni amici in Parte Civile, sono persone serie e preparate, le prime bozze del programma sono senza dubbio interessanti e non dubito che anche negli altri embrioni di liste civiche che si stanno affacciando ci siano competenze e tanta buona volontà, tuttavia la loro frammentazione la dice lunga sulla fragilità di questo progetto e la corsa a flirtare con i “comitati del no a prescindere” mette allo scoperto l’ansia di ricercare a qualsiasi costo (anche a quello di imbastardire un serio programma di governo) un minimo di zoccolo elettorale.
Eppure una ragionevole via d’uscita ai pericoli insiti nel paradosso bisognerebbe trovarla.
La volata fino alla primavera del 2016 è lunga e ci sono ancora da superare appuntamenti decisivi, coma la conclusione delle due inchieste giudiziarie sull’aeroporto e la Cassa di Risparmio e il mondo delle liste civiche potrebbe trovare un diverso approdo rispetto a quello che si intuisce attualmente.
Personalmente ho un sogno che mi piace coltivare e che vorrei condividere.
Il sogno è che il PD, come è avvenuto per la sinistra più volte nella storia della nostra comunità, sia capace di tornare a pensare a se stesso come al partito della città e possa scuotersi di dosso la filosofia elettorale, tutta riminese, del “dù vot chi vaga” (una filosofia giustificata perchè da un paio di decenni, nonostante le pesanti perdite di consensi, alla fine è comunque risultata vincente).
Il PD ha nelle sue corde costitutive nazionali la possibilità di scoprire una via per essere alternativo a se stesso e per fare i conti con l’ambizione di candidarsi quale principale fattore di accumulazione del “capitale civile” senza il quale una comunità non può stare assieme.
Ci vorrebbe un passo indietro di un’intera classe dirigente, un passo indietro trasparente e convinto per aprirsi allo spirito civico diffuso già presente e per farsi parte non esclusiva di una solida iniziativa civica, capace di produrre quella vera discontinuità con le macerie che abbiamo alle spalle di cui ha disperatamente bisogno la nostra comunità.
Una “cisuleina” 2.0, postideologica, moderna e non strumentale.
Impossibile? Vedremo, ne parlerò nel prossimo articolo.

Sergio Gambini

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