Per capire l’attuale paralisi edilizia bisogna guardare nello scrigno della rendita immobiliare

Due puntate per far luce sull'attuale scontro in atto sull'urbanistica. Perché restando in superficie non si comprende lo stallo denunciato da costru

Due puntate per far luce sull’attuale scontro in atto sull’urbanistica. Perché restando in superficie non si comprende lo stallo denunciato da costruttori e sindacati, e nemmeno si decriptano le mosse del sindaco “anti cemento”. Sergio Gambini parte dal Prg Benevolo e comincia facendo luce sul tesoro oggetto della contesa: le aree inedificate presenti nella fascia urbana ricompresa tra l’asse della statale 16 ed il mare. Ecco la prima parte.

Non so se al professor Benevolo, in queste complesse settimane di scontro sull’urbanistica riminese, abbiano fischiato le orecchie. Certamente si è trovato suo malgrado di nuovo chiamato in causa per il suo PRG di Rimini ancora miracolosamente vigente. Ci aveva lavorato con impegno e però, al termine del suo iter, era stato talmente cambiato da farlo dubitare della paternità, come ebbe a sottolineare in alcune interviste.
Tuttavia è a Leonardo Benevolo ed alla sua filosofia del PRG che venne messa in campo a Rimini, che bisogna risalire se si vuole capire un po’ di più degli eventi successivi ed anche parte delle polemiche attuali.
Rispetto ai primi anni ’90, quando venne studiato quel Piano, tutto è cambiato, certamente lo è nel campo delle attività legate all’abitare la città. Sono cambiate innanzitutto le leggi: non ci sono più ad esempio Piani Regolatori, che disciplinano una volta per tutte il territorio, ma Piani Strutturali e Piani Operativi che si intrecciano e rendono più flessibile la pianificazione.
Il cambiamento però che ha avuto maggiore impatto è stato quello che ha coinvolto l’intero settore dell’edilizia. Basti pensare al crollo dei valori immobiliari, alla permanenza di un enorme stock di case, uffici, capannoni invenduti ed inutilizzati, al drastico ridimensionamento del numero delle imprese, dei lavoratori, dei professionisti interessati al comparto.
E’ cambiata anche la consapevolezza diffusa tra i cittadini dei limiti raggiunti dall’espansione e le priorità per uno sviluppo equilibrato si sono spostate dal contenimento degli appetiti della rendita speculativa, all’imperativo attuale di evitare nuovo spreco di territorio.
Tuttavia la mia impressione è che la partita riminese si continui ad avvitare attorno ad una eredità ricca, ma scomoda, di aree inedificate che deriva ancora oggi dalle preziose tutele del PRG Campos Venuti dei primi anni ’60.
Un patrimonio che si è eroso nel tempo, ma che rimane tuttora molto consistente, frazionato in numerose proprietà, oggetto di significativi ed intuibili interessi ed attese, pur stemperate dalla crisi del mercato immobiliare, rappresenta ancora oggi il principale scrigno della rendita immobiliare della nostra città.
Per capirci, stiamo parlando di tutte le aree inedificate presenti nella fascia urbana ricompresa tra l’asse della statale 16 ed il mare, decine di appezzamenti, anche di consistenti dimensioni, in collocazioni strategiche.
Benevolo tentò, senza riuscirci, di affrontare il tema della loro destinazione. In seguito si è illusoriamente immaginato di riallocare questo “tesoro”, con il meccanismo della “perequazione urbanistica”, che sostiene il PSC adottato nel 2011.
La perequazione prevista dalla legge regionale, ormai è un’evidenza sperimentale in altri comuni, funziona poco e male e perciò i nodi del diverso valore delle aree urbane e della rendita che esse generano, tornano al pettine e costituiscono un grumo di interessi che, al di là della depressione attuale del mercato immobiliare, continuano ad alimentare importanti attese economiche e spinte politiche e che perciò occorrerebbe regolare con trasparenza.
Non è mai stato dichiarato esplicitamente, ma la sensazione è che la ricetta immaginata dalla giunta Gnassi per trattare queste aree sia quella di un semplice azzeramento delle attese. “Cemento zero”, a quanto si capisce, dovrebbe significare proprio questo.
D’altra parte alcuni atti, come il blocco di Piani Particolareggiati già in fase approvativa molto avanzata, avvenuto alcuni mesi fa, sembra rafforzare questa interpretazione. Tuttavia non sono certamente queste le previsioni del PSC adottato, che indicano invece, per queste aree, parametri generali che generano titoli edificatori da attuarsi in una fase successiva attraverso il POC.
La mia impressione è che sia in questo non detto che si è incartato tutto, portando ad un paralisi totale delle attività edilizie.
La cosa più controproducente è che altre questioni che dovrebbero acquisire centralità nella pianificazione urbanistica della città, come la qualificazione del centro storico e la ristrutturazione della zona turistica, le vere straordinarie opportunità di rigenerazione urbana che detiene Rimini, invece rischiano di finire nel dimenticatoio.
E’ giudizio diffuso che il PSC adottato su di esse sia fortemente carente e che perciò sarebbe necessario concentrare lì l’attenzione, ma la discussione e la polemica sono invece ancora monopolizzate, sotto traccia, dalla ricca ed ingombrante eredità di un PRG varato agli inizi degli anni ’60 che motiva la parte più “sensibile” delle 1800 osservazioni presentate al PSC. Una specie di sortilegio che dura da cinquant’anni.

Per capirci qualcosa di più torniamo però a Leonardo Benevolo e al PRG che aveva immaginato, perché la manovra immobiliare che lo sosteneva ha sostanzialmente preservato e congelato quel “tesoro” riconsegnandolo alla pianificazione successiva.
Il professore è uno dei grandi vecchi dell’urbanistica europea, teorico e progettista, viene ancor oggi considerato, nel nostro continente, uno dei massimi storici viventi dell’architettura e dell’urbanistica, i suoi testi sono stati pubblicati in diverse lingue ed hanno contribuito alla base formativa di molti professionisti del settore.
Rimini però sappiamo com’è, non ha mai preso sul serio Fellini, che era un suo figlio, figuriamoci Benevolo e così, fin dai suoi primi esordi, il professore ha avuto difficoltà ad entrarci in sintonia.
Leonardo Benevolo è un cattolico liberale di scuola europea, con un solido orizzonte culturale tutt’altro che provinciale, convinto delle virtù del mercato, ma anche della presenza pubblica che lo regola. Considera la rendita immobiliare una palla al piede per la crescita delle città e la loro qualità urbana e avrebbe certamente preferito progettare in Olanda od in Inghilterra, dove esiste un regime dei suoli diverso e meno privatistico.
Nelle città in cui è intervenuto con progetti urbanistici ha sempre considerato il contrasto delle attese della rendita immobiliare uno degli obiettivi principali della pianificazione territoriale, per consentire che il disegno ed il vivere urbano potessero avere al centro, piuttosto che interessi speculativi, gli uomini e le donne delle città.
Quando arrivò a Rimini, nel ’92, la sua posizione culturale tra gli urbanisti italiani era diventata un po’ marginale. Si era ancora negli anni bui dell’urbanistica contrattata, che anche a Rimini aveva messo robuste radici e l’Istituto Nazionale di Urbanistica cercava una via d’uscita da quella stagione attraverso una pianificazione territoriale improntata alla “perequazione urbanistica”.
Benevolo non era certamente un sostenitore di questo nuovo approccio e la sua impostazione, che aveva ispirato invece le riforme urbanistiche del primo centro sinistra, appariva in quegli anni, anche tra i sostenitori della pianificazione pubblica, superata dagli eventi e fortemente minoritaria.
Col senno di poi, ad un bilancio spassionato della reale efficacia dei piani basati sulla perequazione urbanistica, si potrebbe dire che il professore avesse visto più lontano di molti, ma allora il suo punto di vista veniva considerato da tanti addetti ai lavori, nobile, ma tutto sommato passatista.

Benevolo a Rimini era uno dei nomi suggeriti dall’Assessore regionale Felicia Bottino, che coltivava l’intento di riscrivere la legge urbanistica regionale e pensava di avvalersi, per perseguire questo importante obiettivo, dell’apporto dei diversi urbanisti che erano impegnati nella pianificazione territoriale delle grandi città della nostra regione. Mancava tra questi l’orientamento culturale di cui Benevolo era il capofila e l’assessore regionale, in un’ottica di sano pluralismo, propose alla giunta di Rimini, appena costituita, tra altri nomi, il suo.
Di questo disegno regionale faceva parte anche l’idea che i Piani che sarebbero stati varati prima della riforma della legge regionale, avrebbero potuto usufruire di un canale “speciale” per l’approvazione che ne qualificasse il loro carattere “sperimentale”.
Uno dei problemi principali cui si trovò di fronte Benevolo fu il destino delle aree che nella precedente pianificazione territoriale erano soggette a vincolo pubblico predisposto all’esproprio, i cui titoli però, secondo molti, dovevano essere considerati ormai decaduti.
Si trattava di una grande quantità di aree, poste in posizioni strategiche, che erano destinate, nell’ottica di Campos Venuti, l’estensore del primo PRG negli anni ’60, un altro grande dell’urbanistica europea, ad interpretare la qualità urbana della nuova città impegnata ad uscire dalla cementificazione selvaggia degli anni del dopoguerra.
Le aree erano davvero molte e le previsioni erano più antiche che altrove, perché Rimini era stato uno dei primi comuni in Italia a dotarsi di un Piano Regolatore, ciò le rendeva più esposte ad un eventuale contenzioso relativo ai loro vincoli.
Purtroppo il Comune non aveva mai voluto o potuto affrontare le spese di esproprio ed attuare quelle previsioni di verde, di parcheggi, di servizi pubblici che così rimanevano ingessate in aree di grande pregio, ma di fatto prive di identità reale. Un circolo vizioso nel quale alla città mancavano le aree pubbliche, i servizi e le infrastrutture che fanno la qualità urbana e nel contempo aree inutilizzate, collocate in posizione strategica, alimentavano una grande attesa della speculazione immobiliare.

Il circolo vizioso aveva prodotto alcuni primi pessimi effetti nella seconda metà degli anni ’80. L’amministrazione di sinistra e gli uffici comunali avevano avvallato, senza opporre la resistenza legale che in altri comuni aveva scoraggiato gli intendimenti speculativi, la tesi secondo la quale i vincoli andavano considerati decaduti e sulle aree doveva essere consentita una qualche forma di edificazione.
Il meccanismo in sé era complesso e molto “tecnico”. In breve, in quella fase gli interventi edificatori, sulla base di un precedente di giurisprudenza nazionale, avevano interessato aree esterne al vecchio “perimetro del territorio urbanizzato”, particolarmente quelle in fregio alla circonvallazione. Uscendo dal vincolo considerato decaduto avevano ottenuto un utilizzo urbanistico nella categoria produttiva, che ammetteva anche il direzionale, con quantità edificatorie che consentivano di aggirare il limite percentuale di occupazione del suolo ammesso dalla sentenza citata, in sé abbastanza basso, attraverso la realizzazione di più piani.
I titoli ad edificare si erano susseguiti ed avevano interessato, con l’avvento alla guida della città del pentapartito, anche aree molto estese e progetti molto importanti, alcuni dei quali esposti alla mostra “Terzo Millennio”, la rassegna con la quale la giunta Moretti apriva le porte ad una nuova stagione di grandi progetti immobiliari.
Nella sostanza le aree dai vincoli decaduti erano diventate il motivo di una nuova espansione della città oltre i confini del territorio tradizionalmente urbanizzato, che stravolgeva le previsioni di pianificazione territoriale vigenti ed avveniva senza alcun disegno di pianificazione sostitutivo, seguendo iniziative speculative ed episodiche che avevano come effetto immediato e più evidente quello di fare saltare l’antica previsione di Campos Venuti delle “mura verdi” della circonvallazione.
L’intervento della amministrazione di centro sinistra, succeduta nel ’92 al pentapartito, con un provvedimento tampone di allargamento del perimetro del territorio urbanizzato, aveva chiuso la stalla quando ormai però gran parte dei buoi erano usciti.

A Benevolo restava la parte più difficile, quella di sistemare i guai prodotti da quella interpretazione forzata, ma soprattutto di ridestinare le molte aree ancora vincolate interne al territorio urbanizzato, per le quali si temeva un ulteriore assalto speculativo fondato su nuovi motivi legali. Esse non potevano essere trattate semplicemente con una reiterazione dei vincoli, perché vi era la certezza che una simile manovra, alla lunga, non avrebbe retto alla legittima impugnazione presso il TAR da parte dei proprietari.
E’ qui che entra in campo la filosofia urbanistica di Leonardo Benevolo e la sua determinazione di combattere le spinte speculative della rendita immobiliare, attraverso strumenti di mercato.
La manovra consisteva di due interventi distinti.
Il primo era volto ad assegnare una modesta capacità edificatoria ai numerosi comparti derivanti dalle aree dai vincoli decaduti del precedente PRG, unitamente ad un loro assoggettamento a standard urbanistici assai maggiori di quelli previsti dalla legge regionale. Un regime di superstandard che retrocedesse, nelle attese del mercato, la convenienza ad un intervento speculativo su quelle aree.
Nello stesso tempo la manovra prevedeva l’immissione sul mercato immobiliare di una quantità sufficiente di aree pubbliche per soddisfare la domanda di residenza e di immobili ad uso produttivo richiesti dal mercato. L’immissione a prezzi assai più bassi, liberi da condizionamenti speculativi, aveva l’obiettivo di calmierare il mercato, di fornire una valida alternativa per l’industria edilizia e di spuntare le attese della rendita immobiliare sulle aree dai vincoli decaduti.
Insomma ottenere una regolazione pubblica del mercato immobiliare attraverso strumenti di mercato.
Da questo punto di vista per il professore il tema della contabilità sul dimensionamento del Piano che tanto interessa le procedure approvative dalla Regione, diveniva del tutto secondario. Il palese sovradimensionamento rispetto alle attese di crescita della popolazione nell’arco del decennio successivo, risultante dalla somma della edificazione prevista sulle aree di iniziativa pubblica e di quella dei comparti delle vecchie aree vincolate, nella sua ottica, si rivelava un falso problema, che contava di superare grazie alla “fase sperimentale” dell’iter approvativo della Regione.
Il fabbisogno reale era destinato ad essere soddisfatto infatti principalmente attraverso l’offerta di aree pubbliche, così l’intervento sui comparti derivati dagli antichi vincoli espropriativi, avrebbe avuto carattere residuale e tutto sommato marginale. In ogni caso la porzione che sarebbe stata attuata avrebbe contribuito a recuperare il deficit di servizi ed infrastrutture, sottraendola agli appetiti della rendita immobiliare.
Benevolo amava citare l’esempio di Brescia, dove una manovra simile, aveva visto, a distanza di un decennio, esaurirsi le aree di iniziativa pubblica, che si era dovuto provvedere a ricaricare, mentre quelle private erano state utilizzate per una percentuale che non raggiungeva il 30%.

Sergio Gambini

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