“Per uscire dalla crisi del commercio al dettaglio serve una risposta di sistema”

“Per uscire dalla crisi del commercio al dettaglio serve una risposta di sistema”

Che si fa davanti all'ennesimo grido d'allarme lanciato sul problema, da ultimo per bocca di Giammaria Zanzini (in 3 anni abbiamo perso a Rimini 2.600 occupati del commercio con 600 chiusure di attività)? Non è assurdo che questo settore economico, decisivo anche per la vivibilità del centro storico, abbia fino ad oggi ricevuto meno attenzione delle rotatorie? Riproponiamo le utili provocazioni del prof. Gardini e, per la prima volta, la relazione del presidente del Campus di Rimini, prof. Sergio Brasini, all'incontro pubblico organizzato da Zeinta di Borg il 3 ottobre scorso.

I numeri e le considerazioni diffusi da Giammaria Zanzini, presidente di Federmoda Rimini, sono allarmanti: “Secondo le statistiche per ogni nuovo assunto in un iper si perdono 4/5 posti di lavoro nei piccoli negozi di vicinato. In Italia negli ultimi 5 anni hanno chiuso il 15% dei negozi dei centri storici e ce ne sono la bellezza di 647 mila sfitti, le famose saracinesche abbassate. A Rimini nel commercio al dettaglio abbiamo perso in 3 anni 2.600 occupati del commercio con 600 chiusure di attività”.

Arrivano a poca distanza dalla iniziativa di Zeinta di Borg, che il 3 ottobre scorso ha messo a confronto il prof. Attilio Gardini e il prof. Sergio Brasini, coordinatore del Campus di Rimini, sul tema del commercio, della agonia del centro storico, con qualche affondo più generale anche sul turismo.
In quella occasione il prof. Brasini ha tenuto una relazione, che è il testo che pubblichiamo di seguito (frutto di una nostra trascrizione non rivista dall’autore): fornisce un quadro conoscitivo della questione e si conclude con una sorta di appello: “l’evoluzione della grande distribuzione organizzata, la crisi economica e l’affermarsi sempre di più dell’e-commerce, costituiscono una sfida così importante rispetto alla quale è evidente che non serve tanto una risposta difensiva da parte di ogni singolo e piccolo imprenditore commerciale o artigiano, serve una risposta di sistema, di comunità. Dal mio punto di vista questa risposta deve coinvolgere il mondo delle imprese, le loro associazioni di rappresentanza, i sindacati dei lavoratori, il mondo della politica e delle istituzioni, e questa risposta non potrà che partire da un riconoscimento importante, collettivo, del valore che ha il ruolo sociale e aggregante delle attività commerciali, artigianali, sul nostro territorio; nessun negozio virtuale e nessuna rapidità di consegna potranno mai sostituire questo ruolo sociale, di aggregazione e mantenimento del tessuto sociale che i punti vendita del commercio tradizionale, soprattutto i piccoli punti di vendita, ci hanno assicurato fino ad oggi”.

E’ un argomento centrale, anche perché, come ha fatto notare in quella occasione pubblica il prof. Gardini, “Rimini sta investendo molto nel recupero del patrimonio storico, ma un centro storico morto non valorizzerà questi investimenti”. Se questo è il quadro, c’è da chiedersi: chi, fra gli attori sulla scena pubblica locale, ha messo in agenda questo gigantesco problema? Ad oggi, pare, nessuno. Non è assurdo che la principale causa di impoverimento del centro storico, oltre che di un intero settore economico, continui ad essere trattata come meno importante delle rotatorie?

Giammaria Zanzini è stato chiaro: “Il fatto importante è che tutto ciò avviene nel disinteresse generale dell’opinione pubblica e di troppe amministrazioni locali o di consiglieri e giunte distratte o del tutto assenti su questi temi. Infatti, gli iper aprono o si allargano senza un confronto con le associazioni o gli enti categoria, senza un progetto organico e condiviso che riguardi crescita e sviluppo anche del commercio al dettaglio del territorio. Chiaro che il libero mercato è la base della nostra vita sociale e economica. Un valore fondante da tutelare e potenziare. Altra cosa è però un liberi tutti dove solo chi ha grandi dimensioni e capitali, o corre al ribasso aprendo sale slot, improbabili minimarket, sale massaggi o rivendite di chincaglieria, può sopravvivere. Non possono essere le due uniche alternative di fronte al futuro dei nostri negozianti e commercianti. Governare in modo diverso la situazione, difendere il ruolo dei negozi di vicinato e attività commerciali di qualità sono gli impegni che Federmoda e Confcommercio porteranno avanti non solo a Rimini ma in tutta la riviera”.
Ma ora chi raccoglie e rilancia e, soprattutto, concretizza una risposta adeguata?

La relazione del prof. Brasini.

Il commercio è uno dei più importanti agenti che servono a modellare la struttura e il paesaggio dei centri urbani, svolge un ruolo complesso, duplice: è un agente sia attivo che reattivo. La vitalità e l’entità delle città sono strettamente legate proprio ai caratteri del tessuto commerciale e quest’ultimo, a sua volta, riflette inevitabilmente i processi di trasformazione socio-economica che mettono in tensione i contesti locali.
In Italia il legame tra commercio e centri urbani è stato per molto tempo trascurato ed è diventato oggetto di una crescente attenzione solo a partire dagli anni 90 del secolo scorso, e questo è avvenuto in concomitanza con una trasformazione molto intensa della rete distributiva che è stata resa possibile prima di tutto dall’allentamento dei vincoli di legge che risalivano al 1971 (legge 426, quella che in qualche modo frenava la diffusione delle grandi strutture di vendita). Poi successivamente questi vincoli si sono completamente rilasciati per effetto del cosiddetto decreto Bersani che ha liberalizzato le strutture commerciali favorendo quindi una maggiore concorrenza tra la piccola e la grande distribuzione.

Allo stesso modo di quanto è avvenuto in molti altri paesi ad economia avanzata, abbiamo assistito anche in Italia ad una spinta molto forte verso la periferizzazione del commercio, il che vuol dire moltiplicare molte e grandi strutture di vendita che ambivano ad assumere un ruolo di nuova centralità all’interno delle città.
Gli assetti distributivi che erano consolidati fino a quell’epoca, fortemente incardinati sui centri storici, sono stati molto spesso sconvolti da questi aspetti di novità; esposta alla concorrenza dei grandi contenitori, localizzati spesso ai margini delle città, la rete commerciale ha subito un processo di trasformazione di triplice manifestazione che ne ha modificato in profondità i caratteri.

Prima di tutto si è verificato uno snellimento del tessuto commerciale, come conseguenza diretta della chiusura di molti punti vendita che hanno visto pian piano erodere i propri spazi di mercato.
Secondo aspetto: una selezione merceologica, soprattutto per una ricerca di nicchie di specializzazione che potessero mettere maggiormente al riparo della concorrenza data dalle nuove polarità del commercio organizzato, questo è il secondo evidente processo che ha in qualche modo ridisegnato il sistema distributivo dentro ai centri urbani. Di fatto gli ambiti centrali delle città si sono sempre più specializzati nell’offerta di beni che hanno un alto contenuto simbolico perché l’agglomerazione di punti di vendita in spazi urbani ristretti costituisce comunque un vantaggio che consente ai consumatori il confronto fra proposte alternative di scelta prima di individuare quella che è l’opzione migliore.
Da ultimo, terzo aspetto, nei centri urbani si è attuato anche un forte processo di selezione degli operatori. Sono progressivamente aumentate le dimensioni medie dei punti di vendita, sia in termini di aziende che di superfici, e soprattutto è cresciuto il peso dei negozi cosiddetti monomarca, cioè quelli che appartengono a reti dirette (catene) o indirette (nella forma del franchising), il piccolo commercio indipendente ha subito via via un processo di ridimensionamento.

Poi è arrivata la crisi economica, dalla quale non siamo ancora completamente fuori, possiamo farla datare comunque come punto d’inizio al 2008, e questa crisi ha spinto fuori dal mercato soprattutto i punti di vendita autonomi; viceversa, quelli che erano inseriti in reti, grazie alla loro capacità di realizzare delle economie di scala attraverso la centralizzazione e la condivisione di funzioni strategiche, soprattutto quelle legate a logistica e a marketing, hanno mostrato una maggiore capacità di resistenza. In ogni caso la combinazione tra selezione merceologica da un lato e selezione delle imprese della distribuzione dall’altra, ha avuto effetti molto importanti sullo stesso paesaggio dei centri urbani: quella che era una forte varietà della offerta commerciale, un forte radicamento locale delle imprese, in alcuni casi ha cominciato a lasciare il passo ad una omogeneizzazione di fatto che è legata molto spesso anche alla presenza degli stessi distributori che ripropongono comunque in tutti i luoghi e in tutte le città gli stessi allestimenti, gli stessi format.

Per molti osservatori quindi si è assistito parallelamente anche a una progressiva erosione di quella che è l’anima dei luoghi storici, un fenomeno che ha toccato per prime le città globali, le grandi capitali, ma che poi si è esteso anche nei centri urbani di media e piccola dimensione.
Questo significa che la simbiosi tra il commercio e i luoghi tende in qualche misura a spezzarsi e poi a rimodellarsi, e l’omogeneizzazione dei paesaggi commerciali si collega a sua volta a due possibili determinanti: da un lato riflette quello che è un crescente potere dei marchi, dei brand, al consumo temporaneo, dall’altro dipende anche dal rapporto che si va ridefinendo sempre di più tra industria e distribuzione, nel senso che l’industria cerca sempre di più di controllare in modo stretto la funzione distributiva in modo da assicurarsi un vantaggio competitivo in un mercato che è diventato globale.

Con riferimento al periodo che va dal 2007 al 2016 (dato del centro studi di Confesercenti su elaborazioni di dati Istat) ha visto in Italia per quanto riguarda il commercio al dettaglio chiudere un negozio ogni 10. Sono circa 90 mila le imprese che hanno cessato o cambiato il perimetro della propria attività in questo periodo. Siamo passati da 962 mila punti vendita che erano operativi all’inizio del 2007 agli attuali 871 mila. Evidenze opposte riguardano alberghi, bar e ristoranti: più in generale le attività che sono connesse al turismo nello stesso periodo di tempo hanno fatto segnare una variazione positiva di più di 50 mila esercizi con un incremento di circa il 15% nello stesso periodo.

Tra le categorie del commercio al dettaglio che sono state più colpite dalla crisi ci sono i negozi del comparto tessile e dell’abbigliamento, in questo caso il numero si è ridotto di un quinto, è sceso fino alla cifra attuale di circa 127 mila punti vendita. In parallelo nello stesso comparto c’è stata una contrazione delle vendite di un ordine molto ingente, stimato tra il 40 e il 50%, soprattutto in conseguenza delle mutate priorità dei consumatori, da un lato, e dall’affermarsi di catene di tipo low price, e del cosiddetto fast fashion, che hanno comunque consentito ai consumatori di comprare capi di abbigliamento moderni, dall’immagine accattivante, che consentono anche una elevata rotazione del proprio guardaroba a costi non troppo impegnativi.

Entrando più nello specifico, per quello che riguarda gli ultimi cinque anni, dal 2011 al 2016, il commercio al dettaglio ha registrato una riduzione del proprio giro d’affari di circa 7,7 miliardi di euro, il che vuol dire che c’è stata una contrazione di circa 300 euro di spesa a famiglia.
Per quello che riguarda i formati della distribuzione al dettaglio il crollo è stato più sensibile nei negozi della distribuzione tradizionale, di vicinato, con una diminuzione di 6,9 miliardi negli ultimi cinque anni.
Abbiamo avuto una riduzione di circa 10 punti percentuali nel valore delle vendite in questi 5 anni con dati decisamente peggiori per quanto riguarda il comparto degli alimentari (-11%), e un pochino meglio sul comparto del non food (-9,3%). Meglio la situazione nella grande distribuzione organizzata, nello stesso periodo, che subisce comunque un piccolo calo, anch’essa non è immune dalla crisi: c’è stata una contrazione complessiva nello stesso periodo del 9,2%, la contrazione è più rilevante anche nella grande distribuzione organizzata per le vendite dei prodotti non alimentari.

Se guardiamo ad una ricerca che è stata svolta di recente dall’ufficio studi di Confcommercio (Demografia d’impresa nei centri storici italiani) si scopre che in tema di commercio nei centri cittadini, nel periodo tra 2008 e 2016 il numero di negozi in sede fissa è diminuito del 13,2%, con una riduzione molto più sensibile nei centri storici (-14,9%) rispetto alle periferie (-12,4%).
La contrazione è stata forte soprattutto per librerie, negozi di giocattoli e abbigliamento, principalmente per la forte erosione legata a nuovi player, cioè la grande distribuzione organizzata da un lato e internet dall’altro.
Lo studio segnala come di fronte a questi fenomeni di contrazione si riscontra invece negli stessi anni una crescita elevata per ambulanti, alberghi, bar e ristoranti. I primi crescono dell’11,3%, e addirittura del 36% nei centri storici; alberghi, bar e ristoranti crescono del 10%.

In questo quadro, che è già sufficientemente problematico, si è inserito con forza ultimamente un nuovo tema che è quello della espansione, apparentemente inarrestabile, dell’e-commerce.
La rete commerciale locale rischia di essere ulteriormente indebolita dalla tendenza sempre più diffusa della popolazione italiana a fare acquisti online anche attraverso soggetti come Amazon: il gruppo in questione ha raggiunto a livello mondiale un volume di vendite di 140 miliardi all’anno e tenderà a crescere ancora. Ci sono state recenti acquisizioni anche nell’ambito del comparto alimentare e quindi è da prevedere una ulteriore espansione, adottando politiche di prezzi fortemente ridotti.

In Italia Amazon ha tre centri di distribuzione, uno sta per essere aperto nelle vicinanze di Rieti, parliamo di investimenti molto forti anche in Italia: 800 milioni di euro investiti da Amazon dal 2010 ad oggi, occupazione di 2000 dipendenti a tempo indeterminato e circa 30 mila imprese che comunque gravitano attorno al mondo di Amazon.

Un dato interessante che è stato rilasciato da poco dall’Osservatorio del Politecnico di Milano sulla digital innovation: ha stimato che il giro d’affari in Italia dell’intero e-commerce ha superato i 23 miliardi di euro, con una crescita rispetto all’anno precedente del 16%, crescita molto forte in alcuni comparti che poi sono quelli andati in riduzione nel dettaglio tradizionale, cioè il food (aumento in un anno del 37%), l’arredamento (+27%), l’informatica e l’elettronica di consumo (+26%), l’abbigliamento (+25%).

Gi acquisti via smartphone sono aumentati significativamente nell’ultimo anno, sono cresciuti del 52% e pesano ormai per un terzo nel fatturato dell’intero e-commerce nazionale. I clienti online stimati dall’Osservatorio del Politecnico di Milano, hanno raggiunto la soglia di 20 milioni di italiani, circa 2 milioni in più rispetto ad un anno fa.

Un’altra ricerca che è stata fatta molto recentemente da una società che opera nel mondo dell’informatica e dei servizi alle imprese – Alkemy – ha cercato di determinare qual è la graduatoria delle diverse province italiane e delle città metropolitane in termini di diffusione delle transazioni online. In particolare, partendo da un campione di più di 50 mila ordini di acquisto che sono stati riscontrati nei diversi shop, piattaforme online, e nelle principali categorie merceologiche, ma senza considerare i servizi (turismo, banche, servizi assicurativi…), è stata fatta una graduatoria guardando al numero di ordini online ogni cento abitanti e la provincia di Rimini risulta piuttosto all’indietro rispetto ad altre realtà italiane nel fare acquisti in rete: occupa una posizione di retrovia, l’83esimo posto. E’ anche il valore più basso tra le realtà della Romagna perché Ravenna occupa il 61esimo posto e Cesena-Forlì il 73esimo. A Rimini il dato è di 27,4 acquisti online ogni 100 abitanti.

Sempre di più per quello che riguarda le dinamiche in atto, sarà importante cercare di assicurare un equilibrio tra varietà, velocità e flessibilità, perché le decisioni dei consumatori hanno dimostrato di essere fortemente guidate da questi criteri. Che cosa contraddistingue l’esperienza di chi acquista nei punti di vendita reali? I ricercatori di mercato che si sono occupati di questo tema hanno sottolineato che le dimensioni più importanti per chi fa acquisti nei negozi reali sono ancora adesso sia l’attrattività dell’assortimento e sia l’ambiente del punto di vendita. Subito dopo arriva il fattore umano, cioè la cortesia, la gentilezza del personale di vendita, la disponibilità di maggiori informazioni e l’esperienza sensoriale, aspetti che nessun tipo di sofisticato meccanismo di negozio virtuale potrà mai restituire. E’ evidente che una rivoluzione di questo tipo, che ho descritto molto succintamente, cioè l’evoluzione della grande distribuzione organizzata, la crisi economica e l’affermarsi sempre di più dell’e-commerce, costituiscono una sfida così importante rispetto alla quale è evidente che non serve tanto una risposta difensiva da parte di ogni singolo e piccolo imprenditore commerciale o artigiano, serve una risposta di sistema, di comunità, dal mio punto di vista questa risposta deve coinvolgere il mondo delle imprese, le loro associazioni di rappresentanza, i sindacati dei lavoratori, il mondo della politica e delle istituzioni, e questa risposta non potrà che partire da un riconoscimento importante, collettivo, del valore che ha il ruolo sociale e aggregante delle attività commerciali, artigianali, sul nostro territorio; nessun negozio virtuale e nessuna rapidità di consegna potranno mai sostituire questo ruolo sociale e di aggregazione e mantenimento del tessuto sociale che i punti vendita del commercio tradizionale, soprattutto i piccoli punti di vendita, ci hanno assicurato fino ad oggi.

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