Quant’è difficile disciplinare la piadina romagnola Igp

Quant’è difficile disciplinare la piadina romagnola Igp

Questo articolo di Paolo Massobrio è stato pubblicato in "storie di gusto" (col titolo "Il pasticciaccio della piadina") sul magazine di Expo Milano

Questo articolo di Paolo Massobrio è stato pubblicato in “storie di gusto” (col titolo “Il pasticciaccio della piadina”) sul magazine di Expo Milano 2015 “Padiglione Italia”.

Se non una vacanza intera, almeno un week end può capitare di farlo sulla Riviera Romagnola, fra Riccione e Cervia, Rimini e Milano Marittima. E in tutti i casi è impossibile non imbattersi nella piadina, vero cibo street food della Romagna.
La pasta della piadina, notoriamente, viene tirata a mano dalle azdore che poi la cuociono su una piastra e la farciscono con lo squacquerone e la rucola, ma anche con le verdure grigliate o i salumi.

Un must, che affonda le sue radici nella notte dei tempi. O meglio dall’ambiente mediterraneo dove già secoli prima di Cristo era consuetudine consumare dischi di pasta cotti sul testo o sotto la cenere, al termine della cottura nei forni. Era un cibo povero, spesso impastato utilizzando i residui di altre lavorazioni. Tra le ipotesi suggestive sulla sua nascita va citata quella del Pascoli che la faceva discendere direttamente dalla mensa dell’Eneide: quest’ultima era un disco di pane usato come piatto dai patrizi romani che al termine dei banchetti lo donavano ai clientes. Per trovare la prima citazione del termine “piada” bisogna però attendere il XIV secolo quando un documento la cita come tributo da versare alla camera Apostolica. Anche in questo caso non si può pensare a una piada come la intendiamo oggi. Del resto il termine piada, come sostiene lo storico riminese Piero Meldini, per secoli ha indicato una serie di preparazioni differenti: “schiacciate e focacce di cereali: lievitate o azzime, condite o scondite, cotte nel forno, in padella, sul testo, sulla graticola o sotto la cenere, di grano o di qualsiasi altra cosa: cereali inferiori, tritello, castagne, ceci, fave, fagioli, cicerchie, veccie e in caso di estrema necessità, ghiande, crusca e perfino segatura”. Si faceva in Romagna, certo, ma anche in qualsiasi altra parte d’Europa.

Per molto tempo, almeno fino a metà Ottocento, la piada è stata il cibo delle classi popolari, da consumare quando il pane scarseggiava. A dimostrarlo la scarsità di testimonianze scritte su questo cibo, tenuto quasi nascosto in casa e rilanciato solo dalla diffusione del formentone (ovvero il mais). Ai romagnoli, poi, la polenta non è mai piaciuta: ecco allora la necessità di inventare una sorta di tortillas, la piada. Lo conferma l’Inchiesta Jacini prima, seguita dalle indagini successive: l’alimentazione dei contadini romagnoli, in particolare del riminese, era costituita per lo più da “polenta sotto forma di piadina”. Accanto a queste piade, esistevano quelle di farina di frumento, impastate anche con zucchero e uova: sono quelle consumate dal Pascoli, che diventeranno modello per la Piadina, quella che nel secondo Dopoguerra si espanderà a macchia d’olio in tutta la Riviera.

Nel 1959 nasce vicino a Forlì “la piadina romagnola di Loriana” la prima impresa dedicata alla piadina. Da quel momento in tutta la Romagna sarà un fiorire di chioschi e imprese dedicate a questo alimento di acqua, farina, strutto e sale che vanta un giro d’affari di 130 milioni di euro ed è in continua ascesa.

Ora, il 22 maggio scorso la domanda per la registrazione come Igp (indicazione geografica protetta) della piadina romagnola è stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea. Oggetto della tutela sarebbero la Piadina romagnola (più piccola e più spessa, meno di 15 centimetri di diametro e dai 3 agli 8 millimetri di spessore), di solito prodotta artigianalmente dai chioschi e poi la Piadina di Rimini più larga e sottile, con un diametro che può variare tra i 22 e i 35 centimetri e uno spessore massimo di 3 millimetri. Potrà essere inserita la dicitura “lavorazione manuale tradizionale” nel caso di un processo produttivo che comprenda la realizzazione manuale di almeno tre fasi e in assenza di confezionamento chiuso.

Non tutti però, anche in Italia e in terra emiliano-romagnola, hanno accolto favorevolmente la notizia. Secondo i piccoli produttori, infatti, il disciplinare elaborato dal Ministero insieme al Consorzio per la piadina Igp avrebbe privilegiato le lavorazioni industriali. E in questo s’è inserita una sentenza del Tar del Lazio che a fine maggio bloccava il disciplinare. Paradossalmente, però, il ricorso presentato al Tar era di una grossa azienda, leader del mercato della piadina nella grande distribuzione, che ha sede a Modena e proprio per questo sarebbe rimasta fuori dalla zona di produzione dell’Igp. In questo “pasticciaccio brutto” della piada i piccoli chioschi della riviera contrari al disciplinare hanno così trovato un insperato alleato in un’azienda per di più fuori zona. Ora, mentre il Consorzio per l’Igp ha proposto ricorso al Consiglio di Stato, il riconoscimento resta sospeso e se non sarà concluso entro tre mesi (ora già ridotti a due) bisognerà ricominciare daccapo e chiunque (anche all’estero) potrà appropriarsi del nome (e della nomea) di questo prodotto.

Che dire ? Siamo il paese che vanta il maggior numero di prodotti tutelati coi marchi Dop e Igp, ma il mugugno regna sovrano: un disciplinare tutela un prodotto dal pericolo dell’italian sounding, ma dall’altro impoverisce le pratiche tradizionali, che non sempre si trovano nella sintesi di una Igp. Delle due l’una dice il legislatore. Ma se invece ci fosse una terza via, che di fatto corrisponde al realismo di un’Italia che ha una straordinaria ricchezza di espressioni produttive, molto spesso legate ai Comuni?

Si faccia l’Igp, che ci tutela all’estero e dai continui assalti degli imitatori, ma si apra anche il quaderno delle denominazioni comunali, affinché ogni Comune depositi il proprio timbro.

Un esempio ? La Piadina tipica del Comune di Pinco Pallo si rifà al disciplinare Igp, ma la specifica di Pinco Pallo richiede queste varianti, in deroga o in aggiunta… Sarebbe una ricchezza, anziché una mortificazione delle pratiche locali, come ad esempio è accaduto con il ciauscolo, nelle vicine Marche. Insomma, fateci amare questi marchi europei, togliendoci il solito dubbio che siano creati solo per agevolare l’industria. Si può fare?

Paolo Massobrio

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