Ricordo di Maurizio Balena, gran affabulatore di una Rimini d’altri tempi

Povero Maurizio, in fondo se ne è andato come gli sarebbe piaciuto, a tavola, con gli amici, raccontando una delle sue storie su Rimini. L’antiquario

Povero Maurizio, in fondo se ne è andato come gli sarebbe piaciuto, a tavola, con gli amici, raccontando una delle sue storie su Rimini.
L’antiquario prestigioso, il mercante d’arte raffinato, il maestro che aveva insegnato il mestiere a tanti, il conoscitore cui si rivolgevano i grandi esperti per avere un parere illuminante, per noi che gli siamo stati amici e che amiamo la nostra città era anche qualcosa di più, un piccolo brano della sua anima.
Apparteneva ad una generazione di riminesi che hanno avuto la fortuna di crescere in una città, prima del grande boom, nella quale ci si conosceva tutti. Erano volti noti anche fuori dal quartiere di appartenenza, visti e conosciuti sui banchi di scuola, sul corso e in piazza, a marina, al bar. Quella Rimini bisognava anche saperla raccontare e poche persone che ho conosciuto avevano la vocazione ed il talento affabulatore di Maurizio Balena.
La voglia di raccontare, di narrare, di ricordare, di fare immaginare, sostenuta da una conoscenza sfavillante dell’arte della città e della sua storia, era la sua passione, qualcosa di più, il suo stesso modo di esistere.
Maurizio non era quello che si dice un esempio di virtù, almeno secondo i canoni dei benpensanti, eppure è la persona che rimpiango di non avere fatto conoscere ai miei figli, perché con lui c’era un pezzo di vita da imparare.
Gli piaceva vivere di notte, giocare a carte, mangiare, non necessariamente bene. Gli piacevano le donne e gli amici, fumare le “zigarette” e poi gli piacevano le cose belle, tutte, perché le conosceva.
Era curioso e dava da dire. Amava le persone, i loro vizi e i loro tic. La persone “importanti”, di cui gradiva, con un vezzo narcisistico, il riconoscimento, ma di più i giocatori del Gran Bar, con le loro battute. E gli piaceva il dialetto con i suoi detti che si sono persi.
Era attaccato a Rimini come un’ostrica, il mondo più grande però non lo spaventava, ci sapeva stare.
Maurizio, quando l’ho conosciuto, ero un ragazzino, lui, sarà stato per la barba, mi sembrava già vecchio. Se ti faceva vedere un quadro o una pietra incisa che tirava fuori dal cassetto dei suoi “tesori”, gli occhi però gli diventavano quelli di un bambino ed anche i gesti.
Non sapeva rinunciare alla battuta, alla caricatura cinica, allo sfottò e gli piaceva l’invettiva, da matti.
Di politica voleva parlare per forza, anche se non ci capiva niente. Un pretesto per spararla grossa, per fare incarognire i suoi amici, per urlare più forte.
Anarchico, forse per fede giovanile, certamente per modo di vivere fino alla fine. Tra Bakunin e Proudhon, aveva scelto De Andrè.
Ce l’aveva con i comunisti, e la stragrande maggioranza dei suoi amici lo erano, perché erano bigotti, rappresentavano il potere della città e non gli piaceva come l’avevano ridotta.
Di notte il centro di Rimini, come quello di tutte le città ha più fascino. Si smorzano le luci ed i rumori più fastidiosi, lo sguardo può cogliere aspetti che normalmente sfuggono e le parole si sentono meglio. Ho considerato un vero privilegio accompagnarlo, assieme ad altri amici, nei giri notturni, inseguendo il fregio di un palazzo, l’ultima bruttura costruita, l’immagine di un edificio scomparso, il racconto di chi stava lì.
Si ripeteva? Si, si ripeteva, però mi sono stancato poche volte di ascoltarlo.
L’immagine del martello che ha demolito la statua di San Gaudenzo (ancora in piedi dopo la guerra) di fronte al vescovado che si affacciava su Piazza Ferrari, per me era diventato ormai il fotogramma di un film di Eisenstein, usurato, ma sempre stupefacente, il luogo di un racconto che ricordi anche se non lo hai mai visto davvero.
Nell’ennesima iperbole contro il cattivo gusto, oltre che con i comunisti ce l’aveva con i geometri che, secondo lui, avevano presieduto alla ricostruzione della città dopo i bombardamenti.
L’edificio della nuova e sgangherata Rimini che detestava di più era Palazzo Fabbri, assieme a Palazzo Peliccioni ed alla Chiesa dei Paolotti. Per quello che è venuto dopo s’era ormai arreso, una contabilità troppo difficile da tenere.
Non amava Fellini, ma era per partito preso o forse un po’ per invidia. Della descrizione della volgarità e della miseria umana il grande Federico ne aveva fatto un’arte troppo grande.
Non amava raccontare dei suoi rapporti complicati con la giustizia, anche se aveva consegnato alle belle pagine di Massimo Pulini, l’episodio più intricato e complesso di quel rapporto, quando collaborò in maniera decisiva al recupero della Flagellazione di Piero della Francesca, rubata dalla Galleria Nazionale di Urbino.
Sapeva di tombe e di tombaroli, degli inestimabili tesori perduti, di quelli che potrebbero ancora essere acquisiti come beni pubblici.
Per questo cercò di convincermi a presentare un disegno di legge sugli scavi archeologici. Ne abbiamo discusso con passione. Una materia difficile, che non mi apparteneva e presidiata da tabù della sinistra difficilmente negoziabili.
L’idea di fondo era quella di sconfiggere la rapina dei reperti archeologici che avviene quotidianamente nel nostro paese attraverso gli scavi clandestini, regolarizzando campagne di scavo promosse anche da privati, vigilate dalla Soprintendenza, con reperti schedati e opzionabili dal pubblico. Un discorso ragionevole e pragmatico, troppo pragmatico per un paese come il nostro.
Quando gli dissi, dopo averci lavorato un po’ sopra, che non avevo le competenze sufficienti per fare una cosa seria, mi guardò sorridendo.
Di leggi non ci capiva e perciò forse sottovalutava la difficoltà obiettiva di imbastire una proposta con quei contenuti, ma aveva inteso che al fondo c’era un deficit di coraggio. Non me ne ha mai fatto una colpa, anche se io quel coraggio avrei dovuto averlo.

Sergio Gambini

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