Si è spento l’architetto Maurizio Piccioni, fra i fondatori dello studio Air di Rimini

Si è spento l’architetto Maurizio Piccioni, fra i fondatori dello studio Air di Rimini

Ha fatto nascere, insieme ad altri colleghi, lo studio associato Air (architettura, ingegneria e ricerca) di Rimini. E' morto all'età di 62 anni. La toccante omelia di don Carlo Rusconi in una messa affollata dai tanti che lo hanno conosciuto nella vita e nella professione e che si sono stretti attorno alla famiglia.

Mi appello alla motivazione di carattere personale e quindi chiedo scusa fin dall’inizio ai lettori se qualche canone del politicamente e professionalmente corretto salterà… A cominciare dal fatto che parlo del funerale di un coetaneo ed amico, Maurizio Piccioni, morto a 62 anni (che aveva compiuto il 2 maggio scorso) dopo una lunga e soprattutto dolorosa malattia. Lo devo a Maurizio non solo per l’amicizia ma per la testimonianza di umanità profonda e di fede che ha dato a tutti noi nella sua drammatica fase finale della vita su questa terra, dove ha lasciato la moglie Tamara Guidi, la figlia Giulia, entrambe medici e tre nipotini che vivono a Fidenza. Ho un debito inoltre nei confronti di tutti gli altri familiari e dei numerosi amici che mercoledì sono andati alla messa esequiale nella chiesa di Miramare. Con alcuni di questi, Maurizio Piccioni studiò e si laureò in architettura a Firenze. Nel 1982 aveva iniziato la sua professione fondando lo studio A.I.R (studio associato di architettura e ingegneria) insieme agli architetti Francesco Baldi, Carlo Cabassi e Luciano Paci e al fratello ingegnere Tiziano Piccioni. Tra i tanti lavori dello studio possiamo citare tanti stabilimenti balneari sia sulla costa adriatica che su quella tirrenica e anche alcune chiese: a Verucchio la nuova chiesa di Villa e a Cesenatico Santa Maria Goretti. C’era un suo amico e collega anche sull’altare che concelebrava la messa: don Marco Salvi, anche lui laureatosi a Firenze in architettura ed ora parroco a Tavernelle di Anghiari. Gli altri celebranti erano don Giuliano Renzi, don Claudio Parma e don Carlo Rusconi.
E’ la verità che Dio abbia dimostrato a Maurizio la Sua vicinanza davvero in uno strano modo, non risparmiandogli neanche un briciolo della sofferenza che la malattia gli aveva riservato. Ma a ben pensarci, come ha rilevato don Carlo Rusconi nella sua omelia, con una voce resa ancor più grave dalla commozione, questa della sofferenza è una contraddizione che vive ciascuno di noi. Siamo fatti per la vita ma ritroviamo la sofferenza e il dolore in ogni piega della nostra esistenza quotidiana. Non trovo parole migliori che quelle (per la verità ascoltate in chiesa con grande difficoltà, anche per impianti di diffusione che davvero troppo spesso mettono a dura prova la pazienza e l’udito dei presenti). Quasi ad assumere una postura che offra plasticamente la visione di una drammatica richiesta di ‘ragioni’ alla morte, don Carlo Rusconi agguanta il libro delle Sacre Scritture che è stato il cibo durante tutta la sua vita di uomo e sacerdote e quasi si aggrappa al leggio (come fa un alpinista con la roccia e com’è stato effettivamente negli anni giovanili il prete) e mentre parla senza accorgersene si allontana dal microfono così da rendere ancora più arduo ascoltare quello che dice. Questo prete non sta facendo del teatro ma commentando le letture, spiega la tentazione della ribellione, che tutti noi abbiamo di fronte all’abisso del dolore. Una tentazione che per primo ha avuto Gesù nell’orto degli ulivi poco prima di essere messo in croce. Ha detto don Carlo: “Ogni affetto e amore della nostra vita abbraccia la profezia del dolore. Una profezia inevitabile in questa nostra esistenza terrena. Gesù ha imparato ad accogliere la volontà del Padre, condividendo in tutto la nostra natura umana, fino a quel mistero che è la morte. Fino al tentativo di ribellione di Gesù nel Getsemani, dove prega che passi da lui quel calice. Poi c’è l’accettazione, l’accoglienza della volontà del Padre ma il primo moto è quello della ribellione. Perché noi siamo fatti per la vita. Ecco perché nella morte di Cristo c’è la salvezza della nostra persona. Una salvezza che deve necessariamente passare nella vittoria sulla morte. Per annientarla e vincerla deve passarci sopra, perché come dice San Paolo ai Corinzi, ‘l’ultimo nemico ad essere annientato, sarà la morte’”. Guardando dritto verso i volti che aveva di fronte, in particolare quello della moglie Tamara, che non perdeva una parola dell’omelia, don Carlo ha proseguito: “L’essere segnati dal dolore significa essere associati alla missione di Cristo per ciascuno di noi. Noi oggi siamo il corpo di Cristo e la nostra sofferenza ha sempre e comunque lo stesso significato che ha la croce di Cristo. Come dice sempre San Paolo ai Colossesi: ‘Completo nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la Chiesa’. Cioè, la nostra condivisione della sofferenza e della morte di Cristo non è una condivisione al buio (fideistica e consolatoria) ma ha un grande significato, anche se non cancella nulla delle nostre sofferenze e del nostro dolore. Sarebbe un’illusione tentare di cancellarli perché la contraddizione resta inesorabile. Per questo noi continuiamo a supplicare il Crocifisso, che dal fondo della sua solitudine ha gridato ‘Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?’. Noi sappiamo…, ha continuato il sacerdote nell’omelia con un attimo di commozione che gli ha fermato per un istante la voce in gola, noi sappiamo cosa è la paura. Quindi la nostra fede è già un’adesione alla croce è già l’accoglienza di un’ubbidienza che salva. Noi siamo su questa terrà la continuazione di Cristo nella storia ed è inevitabile che ciò che è accaduto a Lui accada di nuovo anche in noi con quel significato che è incancellabile. Credo che tutto l’abisso del mistero della morte debba essere dentro il mistero della vita e non dobbiamo sminuirlo ma accettarlo così come è stato per Gesù”.

Serafino Drudi

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