Amarcord un bando felliniano milionario

Amarcord un bando felliniano milionario

Nella Rimini di Sigismondo Pandolfo Malafesta si racconta di una gara per aggiudicarsi la realizzazione di un futuristico Museo dedicato a Fellini. Passato dall'oblio al dominio assoluto di tre luoghi simbolo della città. Si narra anche che il bando fu assegnato ad una confraternita di sigle e nomi altisonanti. Di colleghi professoroni fra i giudici e i vincitori. Di pagelle da insufficienza assegnate alla indiscussa autorità Dantesca delle scenografie felliniane. Insomma, un bel circo.

C’era una volta Federico Fellini. Bistrattato nella sua città Natale, della quale al Maestro pare fregasse davvero poco. C’erano una volta sindaci e amministratori e registoni e professoroni e Fondazioni che per saldare Fellini alla città di Rimini si agitarono un bel po’, ma con scarsi risultati duraturi.
Arrivò poi un sindaco, giovane, comunista (comunista? Sì sì comunista, dice qualche storico che per alcuni tratti somigliasse al sindaco Bianchini), spiccio, deciso, “o con me o contro di me”, ambizioso, tuttofare, profilo sempre a favore di fotografo e telecamera, generoso, verace, portato come l’eroe dei due mondi dai giornali del tempo, in particolare quello dirimpettaio al Comune. La sua vision? Due concetti due, ficcati bene in testa, ripetuti con insistenza, seguiti alla lettera in tutto, dalle fogne a Castel Sismondo: l’hardware e il software. Il sotto e il sopra. Ma si sa che i concetti semplificati si prestano a modifiche che sembrano minime ma che invece non lo sono: il sotto è nascosto il sopra no. Vedo e non vedo. Acqua sporca e acqua pulita. Trasparente e opaco. Dico e non dico. Ti mostro quello che voglio il resto lo occulto. Andate avanti voi nel giochino.

Il giovane sindaco saldò un patto coi nuovi poteri forti. Albertone dell’Infermi e il fido ChiamamiMaurizio sposarono il calcestruzzo, dicono i detrattori. Il loro successore andò a nozze coi portatori di interesse turistico: albergatori, ristoratori, locali e localini (la Tari a me? Macché, a te!), feste, festoni, dj. Si pensa che il “luna park Rimini” sia stato creato dal giovane sindaco tutto per loro, ma archeologi e pure antropologi e sociologi stanno ancora studiando il fenomeno. E allora via con la ruota panoramica (spettacolo viaggiante ma non itinerante, perché la ruota gira ma non si sposta, e allora la giustizia si fece l’idea di essere in presenza di un abuso edilizio), la politica degli specchi per alterare la prospettiva (le passerelle piccole e brutte mostrate come altissime e bellissime conquiste), il circo nella casa dei Malatesta e così via: insomma, la realtà sottosopra. Venghino signori venghino. Ma in una Rimini al palo da qualche lustro e senza botta d’orgoglio, a tutti parve di trovarsi agli albori di un nuovo Rinascimento e finalmente con un condottiero degno di tale nome: Sigismondo Pandolfo Malafesta. Il quale virò anche i monumenti in chiave turistica.

Nel luna park le attrazioni furono tante e sempre in continua evoluzione. Nella Rimini tardo-malafestiana non si giocò più all’autoscontro perché sulle strade si filava dritto ma con calma e sparirono i parcheggi: per far raggiungere il teatro nel bel centro storico addormentato nel fosco declino economico, la giunta comunale si alleò coi taxi. Continuò invece a riscuotere molto successo la casa degli orrori (in zona stazione o fra i dedali della città turistica con allestimenti ancora fermi agli anni 70) o il tagadà, che fece ballare la maggioranza pattocivica a più riprese con due o tre pistoni idraulici fuori controllo, e pure il calcinculo. Mai passato di moda.

Il sindaco si mise in testa di costruire il museo felliniano nella casa dei Malatesta. Da zero Fellini Rimini passò in pochi anni a città fellinizzata con tre luoghi dedicati al regista. Pataca! Avrebbe detto lui, se solo avesse potuto parlare. Arrivarono cariolate di milioni (si dice 12) ministeriali grazie ad un politico originario di Ferrara, e pure regionali e locali per questo genere di attrazione.
Si racconta che per scegliere il miglior concorrente in grado di regalare la più mirabolante ambientazione felliniana nel cuore di Rimini, il Comune bandì una gara. Ne è passato di tempo e non è facile ripercorrerne le vicende. Quel che le cronache riportano con certezza è che la gara bandita in aprile si chiuse a giugno e il vincitore si conobbe solo a gennaio del nuovo anno. Gli storici non attribuiscono a ciò eccessiva importanza, considerato che Rimini era nota all’epoca per realizzare le iniziative più lunghe del mondo.

Quel che le carte però documentano è che nella commissione giudicatrice di quel bando felliniano fu chiamato un professorone lagunare dotato di curriculum chilometrico e assai cinematografico. Si dice, che nelle fila dei vincitori (una confraternita di sigle e nomi quasi chilometrica come il curriculum del professorone), vi fosse un collega del professorone lagunare (qualcuno sussurrò “dello stesso Dipartimento”, le solite malelingue) e i due fossero compagni di convegni e di comitati scientifici.
Lasciò poi tutti interdetti la notizia che la confraternita che partecipò al bando schierando nientemeno che il felliniano a 18 carati, la divinità Dantesca del cinema mondiale, il principe delle scenografie felliniane, per le quali ottenne David e Nastri in quantità, ricordato dai manuali anche per il rinato cinema Fulgor (sulla cui riapertura il giovane sindaco imbastì una sceneggiata più lunga della campagna di Russia), si dovette accontentare di un misero terzo posto. Chi ebbe modo di leggere i voti assegnati dalla commissione d’esame, poi, sobbalzò sulla sedia come gli abitanti di Rimini in occasione del terremoto del 1916, che provocò pure qualche morto. Perché nelle materie in cui la divinità eccelleva, lui che scenografò ben cinque pellicole di Federico, ricevette una pagella di cui non andare fiero.

Rimini, però, col suo Museo felliniano divenne la ville lumiere italiana. La mostra milanese di Palazzo Reale fu un trionfo. Il giovane sindaco di Rimini sembrò ad un certo punto talmente di casa fra il popolo meneghino da far pensare ad una staffetta col sindaco di quella città, tale Giuseppe Sala, non certo famoso come quello romagnolo. Il Museo felliniano incassò lusinghieri successi di critica. Fino a quando non si insediò a palazzo Garampi un nuovo sindaco, che nel nome di Alberto da Giussano e al grido “prima i Malatesta”, liberò Castel Sismondo dall’invasore.

Carlo “Picasso”

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