Contro la museificazione del centro storico

Contro la museificazione del centro storico

Rimini non è Todi, Gubbio o Venezia. E rendere inaccessibile il cuore della città è una sciagura. Così come rifare il Galli com’era dov’era è stata una castroneria indicibile, ma soprattutto irrimediabile. Che ci restituisce un teatro da 470 posti "vedenti".

Prendiamo il caso del Galli, un “teatro all’italiana” ricostruito com’era dov’era per una spesa complessiva di 30 milioni, a fronte d’una capienza reale (dove cioè si può sentire e vedere) di 470 posti.
Quando il defunto Novelli ne contava 600, tutti fruibili.
Come è possibile?
Il fatto è che il teatro all’italiana era sì un luogo dato allo spettacolo (soprattutto lirico e musicale, tant’è che oggi molti di quei 470 posti sono inservibili per la prosa), ma soprattutto luogo di civile convivenza e reciproco intrattenimento per la nobiltà del tempo.
Mentre il popolino, che portava le sedie da casa, era confinato in platea.
I palchi invece erano di proprietà d’una aristocrazia che, tirate le tende, dentro ci faceva di tutto: gossip, gioco d’azzardo e no, sesso mercenario e no ma soprattutto picnic, col cesto delle vivande portato direttamente da casa.
Perché a quei tempi lo spettacolo cominciava alle cinque del pomeriggio e andava avanti fino a notte, con l’intermezzo d’una cena rispetto alla quale ciò che avveniva sul palco era come la televisione accesa in casa: un rumore di fondo solo interrotto dalla canora esibizione della star di turno che, se steccava, gli tiravano i pomodori.
Veri, non metaforici, fermo restando che l’ultima preoccupazione di quegli spettatori era sentire e vedere tutto.
Il che equivale a dire che chi ha voluto rifare il Galli com’era dov’era ha commesso una castroneria indicibile, ma soprattutto irrimediabile.
Come mai?
Primo per incolpevole imperizia, perché non si può affidare la ricostruzione d’un teatro d’epoca a chi non è del mestiere e poco o nulla sa, professionalmente, di storia del teatro.
Secondo, per la schizofrenia latente di cui soffre il nostro Sindaco.
Il quale da una parte promuove eventi all’insegna della modernità più sfrenata (Notti Rosa, Molo Street, Summer Pride eccetera), dall’altra, in una coazione a ripetere di tipo Freudiano, persegue il sogno d’una museificazione della città che nulla c’entra con le sue, della città, radici più profonde.
Come testimoniato dalla “modernità” di Arco e Tempio.
Non solo rifacendo il Galli com’era dov’era o rimuovendo il traffico dal ponte di Tiberio, ma rendendo inaccessibile il centro storico come se Rimini fosse Todi, Gubbio o Venezia.
Città che hanno un tessuto urbano meritevole di tutela assoluta mentre Rimini, distrutta all’80% dai bombardamenti dell’ultima guerra, proprio per questo è una delle città urbanisticamente più brutte d’Italia, conservando intatta la cifra del geometra riminese anni quaranta e cinquanta.
Per cui l’unico senso di chiusura e museificazione del centro è favorire gli Iper esterni, voluti a suo tempo da una sinistra che voleva punire un commercio al dettaglio per lei politicamente imprendibile.
E allora?
Se quotassimo il Galli in borsa?

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