A partire dalla vicenda che l'ha coinvolto nello scorso mese di marzo, legata alla inchiesta con al centro Infrastrutture Lombarde, l'avvocato riminese Sergio de Sio in questo lungo intervento, che si apre con la notizia di "aver reso alla Magistratura ogni ampio chiarimento a me possibile", svolge una approfondita riflessione sul ruolo del magistrato e sulla giustizia giusta, fino ad auspicare "una riforma che consenta anche la carcerazione, ma subito dopo un interrogatorio anziché prima di aver ascoltato l’interessato". Temi che, seppure non in forma così sistematica, de Sio ha sollevato anche in tempi lontani, ad esempio sulle pagine della stampa locale. De Sio annuncia anche l'avvio di un suo nuovo personale fronte di impegno: "Intendo allora da oggi pormi al servizio di chiunque (colleghi, cittadini e quant’altri) voglia collaborare per una maggiore verità del nostro lavoro e del nostro compito professionale ed esistenziale non volendo considerare casuale che sui frontespizi dei nostri Tribunali appaia scritto “Palazzo di Giustizia” e non appena “Palazzo di Giurisdizione”.
Restituito alla mia piena libertà esistenziale ed operativa (invero già a partire dai primissimi di luglio), dopo aver reso alla Magistratura ogni ampio chiarimento a me possibile e dopo una inevitabile pausa di riflessione, desidero ringraziare per le innumerevoli attestazioni di stima, di affetto e di preghiera ricevute, tanto sentite da rendere (quasi!) “auspicabile” e in qualche modo “compensata” l’esperienza che ho dovuto affrontare.
Approfitto della cortesia del giornale che mi ospita e che ringrazio per reiterare un (ri)sentimento ed aggiungere un proposito. Con la misura e la prudenza espositive impostemi dalla situazione.
Un noto teologo contemporaneo ha avuto modo di affermare che “Dio sa contare solo fino a uno”.
Con tale espressione non voleva certamente dubitare delle capacità aritmetiche di nostro Signore, ma voleva piuttosto sottolineare il fatto che la singola persona, la sua infanzia, il calore delle prime carezze e il bruciore delle prime competizioni, lo spazio angusto e grande del primo cortile e le successive disappartenenze, le inquietudini speranzose dell’adolescenza, le tensioni ideali della giovinezza alla ricerca di un significato appagante, le sconfitte e le riconquiste nell’impegno adulto, i dubbi appassionati o cinici, la parte più interna della solitudine di esistere mai dòma nella ricerca di un lieto fine, l’incertezza del passo di chi torna, l’accenno inevitabile a voltarsi indietro, la reiterata ripresa del cammino dentro lo spazio breve di una scarna attesa, la persona insomma col suo irriducibile “io”, con il suo (e solo suo) “vissuto”… troverà vera e piena “compre – hensione” solo nel giudizio del Padre, che solo sa (appunto) cogliere intera la “unicità” irripetibile della parabola esistenziale di “quella” singola persona.
Ebbene non si può certamente gravare di un tale onere la capacità di giudizio degli uomini, ancorché Magistrati; eppure ho sempre ritenuto che l’alta funzione del giudicare debba aspirare, almeno tendenzialmente, a tale pienezza di intenti e che in tale compito “giudicante” (cioè nell’opera di inquadramento in una fattispecie astratta di un concreto comportamento umano voluto e perseguito nei suoi eventi) risieda, con buona pace di facili schematismi ed automatismi applicativi della norma, il ruolo vero e più alto del “Magis-tratus”, doverosamente ma anche appassionatamente attento a cogliere e a perquisire il c.d. “elemento soggettivo” nel presunto colpevole: tanto più quando i comportamenti oggettivi contestati non siano attribuibili direttamente all’indagato, ma a suoi asseriti “concorrenti” (nel caso di specie, peraltro, pressoché sconosciuti).
Verosimilmente è stata proprio quella mia convinzione a spingermi, giovane laureando, a scegliere come tesi di laurea (premiata, solo per la passione forse, col 110 e lode) lo studio su “La motivazione della sentenza penale”, affascinato e intimorito, come ero e sono, dal sottotitolo: “il drammatico iter formativo del convincimento del Giudice”.
Ho sempre pensato che l’obbligo per il Magistrato di dovere “motivare”, prima di tutto a se stesso, la condanna (o anche solo l’accusa) di un altro uomo costituisca un dramma nel dramma del processo, superabile ultimamente solo con la statura valutativa e con la sensibilità applicativa della norma propria del Magistrato.
Mi rendo conto oggi della necessità di tenere alta suddetta tensione perché sono costretto a chiedermi (esemplificativamente comparando) cosa possa esserci di drammatico nell’uomo-medico (non più “di famiglia”) che, anziché poggiare la sua diagnosi (che è un giudizio) sulla conoscenza dell’uomo-ammalato intero che ha davanti, si affidi esclusivamente alla comoda amàca del protocollo medico e/o delle analisi di laboratorio. Cosa può esserci di drammatico nell’uomo-magistrato che interroghi l’uomo-indagato con formale cortesia e rispetto, fuorvianti testimoni di una verosimile sostanziale indifferenza al contenuto e all’esito del quel “dia-logo”, forse già naufragato ancor prima di nascere nel pre-giudizio formatosi in mesi e mesi di (proceduralmente) inevitabile frequentazione delle ipotesi accusatorie? Quale tormento decisionale permane senza il necessario “supplemento d’anima”, che non si appaghi nell’estrapolare solo i comportamenti umani (peraltro non dell’indagato, ma di concorrenti semisconosciuti) senza l’ansia di collegarli ad una reale rappresentazione e volontà di perseguimento di scopi illeciti da parte dell’uomo-indagato?
Ed è sufficiente (a giustificazione umana e giuridica) acquietarsi, come a volte succede, nel rifugio dialettico di una parziale opinabilità interpretativa di certe norme o della considerazione che nella fase cautelare sia sufficiente un “fumus” di responsabilità se nel frattempo, in virtù di quel “fumo”, si priva un uomo della sua libertà, del suo patrimonio, della sua dignità umana e professionale?
Quale verità può fiorire dal terreno di un dia-logo in cui il protagonista, in adesione a qualche vecchio o nuovo gnosticismo, ritiene “che sia vero ciò che lui ritiene che sia vero di ciò che gli viene detto?” (Giussani). Un medico crea guarigione quanto più è umile nell’ascolto cogliendo tutti i fattori di ciò che il malato dice e così una “giustizia attivata seriamente e lealmente innanzi tutto rispettando quei diritti del singolo, della persona che hanno caratterizzato la storia della giurisprudenza nella civiltà” sarà più giusta quanto più “il Giudice sia umile, cosciente del suo limite”, quanto più sia mosso dall’ardente desiderio del vero fino al dettaglio diversificante, fino ad affievolire la poderosità di un fascicolo di carte davanti alla protesta della innocenza disarmata (“quid est veritas?” “vir qui adest” è metodo conoscitivo anche con le minuscole), resa inerme da lunghi mesi di indagini cui l’indagato deve reagire in poche ore senza peraltro possibilità di movimento alcuno, neppure quella di consultare liberamente le proprie carte.
Non si può e non si deve rinunciare ad una giurisdizione che non sia semplice ed appagata cortigiana della norma, ma sagace lievito della sua applicazione fino all’orlo dell’interamente vero e dell’interamente giusto, pena la realizzazione del noto broccardo “summum ius, summa iniuria”.
Occorre pregare Dio perché aiuti il Legislatore, i Magistrati e tutti gli operatori di giustizia. La realtà è troppo varia ed articolata, gli “io” troppo irriducibili a schemi pre-noti perché si possa (sia pure con accuse interinali) abdicare all’accertamento della addebitabilità comportamentale e psicovolitiva di illeciti a “quella” determinata persona!
E’ così assurdo e irragionevole pensare, ad esempio, ad una riforma che consenta anche la carcerazione, ma subito dopo un interrogatorio anziché prima di aver ascoltato l’interessato?
Sconto ora il rammarico mesto di non avere adeguatamente combattuto prima per tali problematiche (pur avendone analogamente scritto in epoca non sospetta).
Tuttavia mi viene insegnato (e tento di imparare), che le circostanze, ancorché drammatiche, sono sempre positive sollecitazioni verso il destino (e verso il Destino) e che addirittura “nulla è più amico della circostanza inevitabile perché al mille per mille indica la strada da percorrere”.
Intendo allora da oggi pormi al servizio di chiunque (colleghi, cittadini e quant’altri) voglia collaborare per una maggiore verità del nostro lavoro e del nostro compito professionale ed esistenziale non volendo considerare casuale che sui frontespizi dei nostri Tribunali appaia scritto “Palazzo di Giustizia” e non appena “Palazzo di Giurisdizione”. Naturalmente con la più ampia umiltà, gratuità e disponibilità lavorativa e con il solo intento di aggiungere una goccia al grande flusso delle già capaci arterie della soccorrevolezza umana.
E’ una sfida professionale che sento per me vetustamente fresca, mobilitante e storicamente necessaria nell’ambito di quella più ampia sfida disarmata che è il gesto di esistere. Rinunciare significherebbe perpetuare qualcosa di peggiore dell’ingiustizia stessa. L’ingiustizia senza desiderio.
Sergio de Sio
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