Elogio dell’anarchico Nicolini. Il “picconatore” dei santarcangiolesi

Elogio dell’anarchico Nicolini. Il “picconatore” dei santarcangiolesi

“Benedetto” da Michelangelo Antonioni, grande sceneggiatore per la Rai – indimenticabili i suoi film di fantascienza – Flavio, l’inventore del Festival di Santarcangelo, bastonava Tonino Guerra e Raffaello Baldini. Secondo lui, sognatori convertiti, per convenienza, in piccolo borghesi. Dagli archivi privati sbucano un centinaio di corrosive poesie.

Bello, anarchico, feroce. Flavio Nicolini, volto intenso, da divo in esilio, se ne è andato nell’ottobre del 2015, aveva 91 anni. Di quelli di “E’ circal de’ giudéizi”, che han fatto di Santarcangelo una specie di Parigi di provincia, luogo d’avanguardia e di gioia, tra Tonino Guerra, Raffaello Baldini, Nino Pedretti, Gianni Fucci, lui era il più intelligente e il più bastardo. “Forse, si è sentito un po’ escluso…”. Forse è lui, Nicolini, ad aver voluto l’esclusiva del genio. “La sua vena polemica era inesauribile, pensava che la contraddizione e la scontrosità fossero il sale di un sano confronto intellettuale. Non regalava nulla a nessuno”. Tiziana Mattioli, speleologa di archivi sommersi, che già ha disseppellito inediti di Nino Pedretti e di Raffaello Baldini, per l’editore riminese Raffaelli ha appena pubblicato 77 illuminazioni poetiche di Flavio Nicolini (pp.120, euro 18,00). Ha fatto bene, la studiosa, docente all’Università di Urbino, a parlare di illuminazioni e non di poesie. Nicolini era uso “scrivere di getto e poi autografare le poesie, senza pentimenti, quasi corrispondessero al flusso dei suoi pensieri”. La poesia, insomma, appunto, come intuizione istantanea, come flash, come colata di ghiaccio su un concetto. Nei testi recuperati dall’oblio resiste la potenza polemica di Nicolini: “Non amo il mio paese/ se qualcuno me lo porgesse/ a un tratto dipinto di turchese/ vedrei – con occhio offeso –/ ch’è merda sotto sotto”. Questo è uno scritto del 1977, che s’installa in quell’altro, del 1982, dove Nicolini desidera “essere mandibole di lucertola” – immagine di cruenta bellezza – e conclude, “dovrei fuggire non solo per smania, ma/ anche per non avere (poi) una/ lapide troppo liscia o incisa/ di cruda pusillanimità”. Come si sa, l’attività intellettuale di Nicolini, che parte maestro elementare “proponendo una scuola d’avanguardia basata sulla libera utilizzazione del disegno e della pittura”, è polimorfica. Scrittore (comincia nel 1986 con l’irto La Regina di Polonia), disegnatore di pregio, giornalista, critico, poeta, Nicolini ha forgiato il nostro immaginario televisivo attraverso una importante carriera da sceneggiatore per la Rai. La pratica la fa nel 1962, coadiuvando Elio Petri alla regia de I giorni contati – film scritto, tra l’altro, da Tonino Guerra – poi comincia l’esperienza romana. Nicolini firma alcune fiction di fantascienza di grande successo come Gamma, La traccia verde, Esp, film storici come Cromwell, ritratto di un dittatore (con Eros Pagni), Il giovane Freud (con il riminese Paolo Graziosi), Paolo e Francesca (con Isabella Goldmann), ma pure pellicole impegnate come Diventerò padre, con Gianni Morandi. Amico storico di Monica Vitti – che conosce tramite Antonioni – scontroso, spesso enigmatico, ora emerge un brandello di Nicolini dalle centinaia di taccuini che affollano la sua casa, “e non mi sono ancora avventurata nel garage, dove è composto il materiale sul cinema italiano”.

Intanto, partiamo da un dato di fatto. Fugati tutti i dubbi, Flavio Nicolini è stato il vero inventore del Festival di Santarcangelo, giusto?
“Giusto, proprio così. Nonostante in tanti si siano dichiarati ‘inventori’ del Festival, la paternità dell’idea è di Nicolini. Lo testimoniano le lettere al Sindaco Romeo Donati e la presenza di Piero Patino come primo direttore del Festival: il regista romano era suo amico, si frequentavano a Roma”.
Certificato questo, vien fuori, sfogliando le carte rinvenute dagli archivi privati, una figura scontrosa e ‘diversa’ dagli altri intellettuali di Santarcangelo.
“Flavio Nicolini è senza dubbio una personalità complessa e complicata. D’altronde, Nicolini ha sempre dichiarato la sua diversità dagli altri santarcangiolesi. Intanto, la sua era una diversità ‘ideologica’. Il padre era un anarchico, perseguitato dal regime fascista. Flavio ricorda sovente i volantini anarchici costruiti dal padre in casa. Poi… beh, c’è il fortissimo narcisismo di Nicolini. Flavio sapeva di essere un bell’uomo, era uno sportivo, rispetto agli altri… A ciò si associa, inevitabile e consecutiva, la difficoltà di invecchiare, la difficoltà di essere figlio e di essere padre”.
Che rapporto aveva Nicolini con i vari Guerra, Baldini, Pedretti…
“Con Pedretti era in sintonia. Con lui condivideva, ad esempio, la lettura dei Beat americani. Riteneva Pedretti più bravo come poeta in italiano che in dialetto. A quasi tutti, poi, scriveva lettere ferocissime, che spesso non spediva”.
E cosa c’è scritto in queste lettere?
“Cose che è meglio celare…”.
Addirittura. Si spieghi.
“Nicolini aveva una forte vena polemica nei confronti della poesia dialettale, santarcangiolese, intesa come ‘fenomeno’ di costume ed editoriale. A suo avviso la componente utopica dell’immediato dopoguerra, il ritorno del dialetto dopo la negazione dei dialetti operata dal Ventennio, stava scomparendo. Dagli anni Settanta, Nicolini ritiene che il dialetto romagnolo sia un escamotage per superare le secche in cui si è arenata la poesia in lingua. La poesia in dialetto, secondo lui, si è ridotta a manierismo, a puro esercizio di stile, si è imborghesita, ecco”.
Insomma, c’è stato un tradimento dei valori originari.
“Nicolini diceva che in qualche misura i suoi amici si erano ‘integrati’, si erano adattati all’ideologia piccolo borghese dominante, con un ritorno al conformismo se non al neofascismo”.
In un passaggio dell’introduzione lei scrive che “corre nella scrittura poetica di Nicolini il vento di Spoon River e il grido di Jukebox all’idrogeno”, facendo cenno a due grandissimi poeti statunitensi, Edgar Lee Masters e Allen Ginsberg. Ecco, come scriveva e cosa leggeva Nicolini?
“Le poesie che ho trovato, disseminate in quaderni, testimoniano di un’attività non occasionale, che va dal 1954 al 2006. Sono circa un centinaio di testi, che rispondono a situazioni del momento, per cui è difficile cucire una linea tematica. Nella biblioteca di Nicolini, tra i testi attraversati di certo, sottolineati, c’è tanto Giovanni Pascoli, poi Giuseppe Ungaretti e Eugenio Montale. Nel settore della narrativa sono molti i romanzi nordamericani, ma è più vasta ancora la sezione dedicata alla filosofia della psiche, Freud, Jung e oltre”.
Qual è l’incontro che ‘scatena’ l’intelletto di Nicolini?
“Senza dubbio l’esperienza come aiuto regista di Michelangelo Antonioni, in Deserto rosso. Antonioni, con la sua idea di un nuovo neorealismo, agì prepotentemente sulla scrittura di Nicolini, in modi testimoniati, tra l’altro, dal suo Diario dell’aiuto”.
Cosa resta da scoprire negli archivi privati?
“Il materiale è informe e vastissimo. Al di là delle lettere, ho scoperto un inedito sulla pittura di Alberto Sughi, una ipotesi di sceneggiato televisivo, prove narrative che ondeggiano tra il giallo e il noir, una rilettura, molto pertinente, della poesia del Pascoli. Gli appunti di Nicolini, anche in stato di embrione, sono sempre affascinanti, trasudano una forza intellettuale unica”.
Tra i molteplici aspetti intellettuali di Nicolini, però, quale primeggia?
“Sono convinta che la critica abbia il primato. La mia intenzione originaria, in effetti – che tramuterò in pubblicazione – è quella di radunare gli svariati scritti critici di Nicolini. I suoi interessi svariano dalla pedagogia, negli anni giovanili, all’epica dialettale, che lo accompagna fino agli ultimi giorni. La natura fortemente individuale, la preparazione vastissima, e anche un certo senso di superiorità, portano Nicolini, nell’ambito critico, ad intuizioni precoci, riuscite”.
Tra le illuminazioni di Nicolini, che feriscono come rasoi estratti da un passato bizantino, aureo, diverse riguardano l’atto poetico. “Occorre far piazza pulita/ delle paure per/ promettere poesia”, insegna, in versi, Nicolini, specie di esteta granatiere, “Primo: guardare in faccia/ nascita e morte/ ciò significa essere severi/ con se stessi”. Io, in tasca, mi porto la più bella definizione di poesia che abbia letto in questi anni: per Nicolini la poesia è “quella cosa azzurra/ che nessuno più vuole”. Atroce e geniale.

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