I retroscena inediti sul titolo del film e le denunce successive all'uscita al cinema, ne parliamo con Federico Benzi (figlio di Luigi, il mitico Titta del film) e Agim Sulaj (pittore albanese che dalle opere di Fellini ha creato a sua volta altre opere eccezionali)
Agli Academy Awards del 1975, nella categoria Miglior Film Straniero, “Amarcord” vale l’Oscar a Fellini.
Va ricordato che il film ha visto il regista coautore della sceneggiatura con un insuperabile amico romagnolo, vale a dire Tonino Guerra (1920 – 2012). Ciak! E il connubio ha propiziato una nascita felice.
Le voci narranti di questa breve rappresentazione, che vuole celebrarne il successo avvenuto mezzo secolo fa, ma rimasto inossidabile e perpetuato nel tempo, sono due. La prima è quella di Federico Benzi, che ha avuto il privilegio di vivere anche in presa diretta, per usare un temine cinematrografico, parte della vita e le opere artistiche del grande regista riminese Federico Fellini (1920 – 1993), amico fraterno del padre Luigi (1920 – 2014), Titta per gli amici e per il vasto pubblico che ne conobbe le gesta giovanili attraverso il film. La seconda è quella di Agim Sulaj, pittore di origine albanese, residente a Rimini e oggi cittadino italiano. Sprigionando la propria sensibilità dai pennelli alle tele, Agim ha cristallizzato e reso pertanto indelebili alcuni frammenti di quella pellicola dai contenuti universali, ma fortemente screziati di felliniana surrealtà.
Il pittore vide Amarcord quando ancora era a Tirana. Ora che vive nella città e tra le persone che hanno ispirato il regista, egli ha voluto rendere onore a Fellini attraverso l’arguto frasario pittorico che gli è proprio. Diverse pareti del Borgo San Giuliano ospitano infatti opere dell’artista albanese/italiano (Shqiptar).
Ci sarebbe un ultimo elemento, come terza voce, non propriamente un umano, ma una sorta di entità invisibile, che vaga in modo persistente sulle prime due, mentre ascolto i racconti dei miei ospiti.
Penso che chi lo abbia visto, ricordando il film, nel proprio intimo non possa che avvertire il lieve aleggiare la splendida colonna sonora di Nino Rota (1911 – 1979), mai fuori sincrono con le vicende narrate, a volte struggente, anche per i cuori più tenaci. Vero è che parlando di Fellini, può capitare che si inneschino curiosi esoterismi, perfino melodici, grazie alle note attitudini al mistero di quel rimpianto genio della regìa.
Al lettore: per praticità di spazio e lettura, a volte chiamerò Federico Benzi (FB) mentre Fellini sarà (FF).
Quando gli telefono per dirgli che vorrei scambiare quattro chiacchiere sul cinquantenario dell’Oscar ricevuto nel ’75 da Fellini, Federico Benzi smorza il mio entusiasmo con una giusta considerazione:
«Ti incontro volentieri, ma credo di averti già raccontato tutto in occasione del precedente articolo su Fellas». Fellas è un altro dei nomignoli con cui il padre Luigi chiamava Fellini. Prendiamo comunque accordi e pochi giorni dopo, dati i presupposti, con animo non troppo ottimista, salgo i gradini della bella residenza (e B&B) “Sotto al fico”, dimora assai ben intonata con il benevolo verde del colle di Covignano. Di novità, almeno per me, invece ne ho sentite e se anche qualche lettore ne fosse stato finora all’oscuro, può leggerle di seguito.
Dopo i saluti e qualche aneddoto sul rapporto tra il “grosso” (Fellini chiamava così Titta a causa della mole, mentre l’altro lo aveva ribattezzato “Gandhi” per la ragione opposta), FB tiene a ricordare come la loro sia stata una bella amicizia mai tramontata, tanto che nella casa ai Parioli il regista aveva riservato una stanza sulla cui porta aveva scritto con il gesso “Camera del Grosso”, mentre quando passava per Rimini, lo studio Benzi era sempre a disposizione dell’amico “romano”.
Quando pongo la prima domanda a FB, la sua risposta mi spiazza, mi trova impreparato:
FF ti ha mai spiegato il motivo per cui ha intitolato il film “Amarcord”?
«Tanto per cominciare, il titolo non doveva affatto essere Amarcord».
Non mi dire. Spara .
«Forse non tutti lo sanno, ma FF aveva in mente un titolo ben diverso. Il motivo è presto detto. Suo nonno usava un’imprecazione molto frequente, dalle nostre parti, che si sente tuttora spesso. Il titolo che Federico avrebbe voluto era “Osciadlamadona!”. Non glielo hanno permesso. Ovvio. Il secondo, poi tagliato da FF stesso, fu “’Nteblig!”, interiezione dal non meglio definito significato che suo nonno adoperava nelle più disparate situazioni. Lo chiamavano “’Nteblig!” perfino gli amici. Stranezze di Romagna. Dopo altre idee scartate, tipo “Viva l’Italia” o “Il borgo”, a Fellini l’ispirazione giusta arriva al ristorante mentre sta disegnando su un tovagliolo: e fu Amarcord. Ma c’è dell’altro. Nel cast, FF avrebbe voluto due riminesi».
Mi pare di avere letto qualcosa, ma riguardava il solo ruolo di Aurelio, padre di Titta…
«Ricordi “quasi” bene. Fellas aveva proposto una parte a mio babbo, ma anche a me. A rigor di logica, lui avrebbe dovuto interpretare il ruolo di suo padre mentre io, all’epoca 15enne, avevo l’età giusta per Titta. Dovetti rinunciare. Mamma Gabriella fu irremovibile. A causa delle lungaggini registiche che sapeva essere prerogative di FF, avrei perso un anno di scuola. A distanza di tempo, riconosco che aveva ragione lei. Tuttavia, mi è stato concesso molte volte di assistere alle riprese dei suoi capolavori cinematografici».
Un peccato però, perdere un’occasione del genere. Anche perché, pur non avendolo mai conosciuto di persona, da come lo ricordo sulle cronache dei giornali, tuo padre sarebbe stato veramente adatto al ruolo e tu pure. A quella età, ti saresti sicuramente divertito.
FB – «È vero. E se fosse andata diversamente, chissà… avrei poi fatto l’avvocato? Mio padre, come attore “in prestito” sarebbe stato adatto perché quella degli avvocati penalisti di allora era una professione che si può definire attoriale: arringhe che duravano ore e colpi di teatro preparati ad arte. Erano già dei veri attori. A proposito di tribunali, avvocati e cause, sai che dopo Amarcord, Fellini fu denunciato?».
Da chi, e perché mai?
«La tabaccaia riminese, riconosciutasi ed evidentemente all’epoca già celebre tra gli abitanti della zona per un paio di “particolari inconfondibili”, non digerì la scena “hard” con Titta. Chiese quindi un risarcimento milionario che allora era in lire. Come si dice, non ci fu partita. Difeso dal “Grosso”, “Gandhi” vinse la causa».
L’incontro con Federico Benzi si chiude con una risata. Esco, accompagnato da un paio di libri del babbo, regalatimi dal padrone di casa: “E poi” (2004)“ e “Patachédi” (1995), entrambi – Guaraldi editore -.
Grazie, Federico.
Vado a trovare Agim Sulaj nel suo studio in via Mangano. L’artista, per una sorta di chiusura del cerchio pittorico iniziato anni prima, rende onore ai 50 anni dall’Oscar assegnato ad Amarcord mettendo in mano all’ineffabile nonno di Titta, la mitica statuetta dorata. Come da copione, il quadro è bello, scherzoso e incisivo quanto lo era il nonno smanaccione nel film. Dopo il buon caffè di rito, tanto per non perdere le sane abitudini, cominciamo a parlare della passione che incornicia da sempre la sua vita, ovvero disegnare e dipingere. Oltre ai poderosi quadri storici, la “specialità della casa” sono le scene satiriche.
Spero non ti appaia riduttivo, ma ti assimilerei a un puparo siciliano. Questi, in modo differente dal tuo, pratica comunque e diffonde arte. Anziché muovere i fili delle marionette, tu brandeggi pennelli e colori, che complici della tela, inscenano la recita. Trovo che le tue opere, in primis quelle storiche di Albania, siano decisamente teatrali. Le rappresentazioni dei pupari, ancorché ispirarsi a tradizioni cavalleresche, fondamentalmente hanno forti componenti di satira sociale. Il manovratore può dire le peggiori cose per voce delle marionette, così come succede per il pittore attraverso le immagini.
A sua volta, a 19 anni Fellini ha iniziato a farlo come vignettista dalle pagine del Marc’Aurelio, celebre giornale satirico romano, così come fece da regista, anche in Amarcord, con le carrellate sul fascismo o dirigendo un “occhio di bue” sul microcosmo del “Borgo” per risaltare alcune italiche debolezze. E tu, in Albania hai combattuto il regime comunista con vignette assai intense. Una per tutte, quella della mano dietro la rete metallica, còlta mentre disegna orme in “grafitica” evasione.
«La vignetta che hai ricordato, se fossi stato in un paeso libero come il vostro, non sarebbe esistita. Dove puoi scrivere e disegnare ciò che vuoi, quella mano non avrei avuto ragione di farla perché sarebbe mancata l’ispirazione della rivolta. Se sei colpito, in un modo o in un altro, reagisci. Urlando contro il dittatore non sarebbe stato possibile. Sarei finito dritto in galera. Intendo dire che per assurdo è grazie alle restrizioni d’ogni tipo che io sono diventato un vignettista satirico.». (Un ottimo e quotato vignettista satirico; ndr).
L’incisiva carica rivoltosa della tue opere, ora dov’è finita?
«Nella realtà italiana, senza il tipo di arte che ho sempre praticato non avrei potuto vivere. Pian piano, ho trovato il senso della critica. Ho mirato altrove, verso la protezione della natura e dell’ambiente, verso la sofferenza umana, i soprusi, l’emigrazione. Infatti sono molto conosciuto per le mie valigie da migrante. 
Oggi, ma con la stessa carica emotiva di un tempo, gli obiettivi sono diventati questi».
E la grande passione per Fellini come è nata?
«Considerato che nel 2023 ci sarebbe stata la celebrazione dei cinquant’anni di Amarcord, nel 2020 l’Associazione “La Società Dè Borg” mi propone due muri da dipingere nel famoso Borgo San Giuliano. So che è un luogo pittoresco e pieno di tradizioni e storie bizzarre dei suoi abitanti. Mentre disegnavo i volti dei personaggi di Amarcord, stavo cominciando a considerare che tutta la fantasia felliniana raccolta in quel film fosse da dipingere. Nella mente mi frullava qualcosa, che tuttavia non aveva ancora preso una forma ben definita. Non sapevo dove fare un’eventuale esposizione, come organizzarla e inoltre mi chiedevo che fine avrebbe fatto, in seguito, il mio lavoro. Il museo Fellini era ancora in gestazione. Purtroppo, nel 2021 la pandemia dovuta al Covid ha risolto parte dei miei dubbi».
Suppongo che avrai trascorso il tempo del confinamento dipingendo, in totale quiete e solitudine.
«Sì, la concentrazione c’era. Ho pensato di realizzare una serie di 62 quadretti, ognuno dei quali tratto da un fotogramma della pellicola (cosa fino a quel momento mai fatta da nessuno). Dalla ritmica, una sorta di “amarcord” dipinto sulla tela della mia mente, sapevo già quali scene scegliere. Immaginavo che la ricchezza interiore espressa da Felllini fosse meritevole di essere riproposta in maniera potente, in un linguaggio diverso, su tele di piccolo formato, ma rigorosamente dipinte a olio. Dato che mi stavo oramai dedicando solo ai quadri del film, man mano che ne finivo uno, lo appendevo alla parete, a quella più lunga dello studio. La solitudine, in quei giorni lunghi, ma proficui per la pittura, talvolta mi portava a pensare ad alta voce. Tanto non avrebbe sentito nessuno, mentre replicavo ai personaggi di Amarcord, che nel mio fantasticare mi dicevano cose del tipo: “Dipingi anche me, ci sono anch’io!”». E un altro: “Ti prego, non mi lasciare indietro!”.

“Stupid War”
Non preoccuparti, non è grave. Capita a chi possiede un’alata fantasia. Si tratta della cosiddetta “sindrome da onirismo Felliniano”. Tu, cosa rispondevi alle “voci”?
«State calmi, ragazzi. Un po’ alla volta mi occuperò di tutti. Tanto, di tempo ne abbiamo. Scherzi a parte, il periodo è stato davvero duro, ma almeno ho prodotto tutte le opere che mi ero ripromesso di eseguire ed ero pronto per la prima mostra. Ora avevo la necessità di esporre i lavori e vedere le reazioni del pubblico».
Quando è stata tenuta la “prima”, ma soprattutto, dove?
«Il “vernissage” è avvenuto il 14 maggio 2021 nel mio atelier, praticamente nella nursery dove sono nate le opere. Il morale era quello che si può immaginare, ma i quadri sono stati apprezzati e abbiamo brindato ugualmente. Approfitto per ringraziare, una volta ancora Annamaria Bernucci, storica dell’arte e il fotografo Piero Delucca entrambi dell’Assessorato alla cultura del Comune di Rimini, Marco Leonetti, responsabile della Cineteca di Rimini e del Fellini Museum e non ultima, Francesca Fabbri Fellini, nipote di Federico. Nello stesso mese, ma un anno dopo e non certo per tentare di vendere singolarmente le opere, ma per rendere omaggio al grande regista, ho portato tutte le tele a Parigi, all’Atelier du Tayrac. Lo conoscevo di fama. Nel giorno dell’inaugurazione, per creare una perfetta atmosfera, il bravo gallerista francese ha fatto mettere in sottofondo la colonna sonora di Nino Rota. È stato emozionante. La piccola galleria d’arte è vicino al parco di Belleville e Ménilmontant, uno dei quartieri parigini d’elezione per gli artisti, un luogo colto, colorato e multietnico, dove tra l’altro impera la Street Art».
Street art, nuove mode e tendenze. Londra, Parigi e NY sono da sempre tra le prime al mondo.

“Europe”
«Hai ragione. E Parigi mi stimolava, ma sognavo di essere invitato ad esporre al museo Fellini, inaugurato nove mesi prima. Ho preso le tele e sono tornato in Italia. Speranza esaudita. L’esposizione nel museo è iniziata il 20 gennaio. Prorogata fino al 19 marzo, a luglio ha traslocato nella sala dedicata al grande Tonino Guerra (1920-2012) presso il Grand Hotel di Rimini. Ma anche lì, terminato l’evento, nonostante il successo avuto anche in precedenza, le tele sono puntualmente tornate a casa… come di consueto».
Il dialogo con Agoim Sulaj finisce qui, con un sottile, ma persistente senso di fastidiosa delusione, nel sapere che in una composizione così armoniosa, solo alcune note finali piuttosto stonate, rovinino l’intero fraseggio. Sarò troppo romantico, ma ero convinto che quel significativo fiume di immagini su Amarcord sarebbe finito nel mare deputato a riceverle. Intendo il museo Fellini, in prima battuta, ma potrei dire anche il Grand Hotel, seconda casa del regista, dove è stato ripetuto il pregevole evento. Credo che il mio pensiero l’abbia avuto, salvo inopinata distrazione, la totalità di coloro che hanno visitato la mostra, in entrambi i luoghi. Dunque, i 62 deliziosi quadri rimarranno perennemente appesi alla parete dello studio del pittore?
Una volta tanto, essere smentiti sarebbe un vero piacere e comunicarlo, un privilegio.


COMMENTI