Il fenomeno delle “scarpe volanti” è arrivato a Rimini

Il fenomeno delle “scarpe volanti” è arrivato a Rimini

Il lancio di scarpe annodate tra loro su fili elettrici piuttosto che su cavi telefonici, pali della luce, rami di alberi, nasce in America. Chi sentiva la necessità di importarlo anche a Rimini? E, soprattutto, cosa comunica? Quali messaggi lancia?

Avete mai visto grappoli di scarpe penzolare da cavi tesi, da lampioni o peggio ancora da rami di alberi? Noi sì. Dopo una breve indagine, ecco cosa abbiamo scoperto.
Perfino tra gli umani c’è chi sente il bisogno di “marcare il territorio” per accertarsi della propria esistenza sociale, per affermare se stesso, ma soprattutto per segnalare agli altri: “ragazzi, ci sono anch’io, guardatemi, esisto”.
I sistemi per raggiungere lo scopo sono più di uno. L’efficacia del proponimento può poi dipendere dalla modalità di esecuzione e dalla fantasia dell’allestimento “scenico” posto in essere. Senza scomodare il parere di luminari della comunicazione, cercheremo parimenti di raccattare un minimo di spiegazione sul fenomeno delle “scarpe volanti” o “Shoefiti”, se preferite l’idioma del paese di origine ossia l’americano.

Il neologismo lo stampa un blogger di Minneapolis, Ed Kohler; nel 2005 opera la crasi tra l’anglosassone Shoe (scarpa) e graffiti. Tramite web, il blogger diffonde a livello mondiale l’usanza “yankee” del lancio di scarpe annodate tra loro su fili elettrici piuttosto che su cavi telefonici, pali della luce, rami di alberi; in quest’ultima branca, la cerebrale disciplina è denominata “shoe-tree” (albero delle scarpe). Nulla a che spartire, purtroppo, con la magistrale opera di Ermanno Olmi (1931-2018) “L’albero degli zoccoli” del 1978, palma d’oro a Cannes. Alberi e calzature, infatti, sono l’unico trait d’union. A proposito di cinema, le “scarpe volanti” compaiono persino in alcuni film come “Sesso & Potere” (Barry Levinson, 1997), “Big Fish” (Tim Burton, 2003), “Stanno Tutti Bene” (Giuseppe Tornatore, 1990). La cultura, ove possibile, va diffusa e condivisa (sic!).

Il lancio delle calzature è citato in una pubblicazione in lingua originale che traduciamo con: “Curiosità del Minnesota: bizzarrie, stranezze lungo la strada e altre cose insolite” a cura di Denise Remick e Russ Ringsak del 2014. Gli eventuali appassionati del mondo americano lo trovano qui in versione e-book.
Qualcuno sa spiegare perché e come sia nato lo Shoefiti? Pur solcando a lungo l’oceano telematico, una risposta decisa e definitiva non l’abbiamo trovata. Vi proponiamo tuttavia una breve selezione di accettabili teorie che abbiamo scovato e che raccontano la moda delle “scarpe volanti”.
Alcuni giovani lanciano le scarpe a cavallo dei cavi per annunciare ai loro coetanei la prima esperienza sessuale, l’imminenza del matrimonio oppure per festeggiare la fine del servizio militare; altri ancora pare utilizzino la singolare pratica balistica per non meglio precisati messaggi in codice tra bande giovanili. C’è poi chi motiva l’usanza come segnalazione di una zona deputata allo spaccio di droghe. A ben guardare, in effetti qui a Rimini gli insulsi pendagli si trovano appena dietro la torre della Telecom, nel parco Bondi e, guarda caso, da qualche tempo gli spacciatori africani (in questo sì, regolari) che operavano davanti all’arco d’Augusto, si sono magicamente traslati sulle panchine a lato del recinto dedicato a chi pratica lo skateboard o il calcetto. E’ superfluo dire che ci piacerebbe molto che sparissero sia le scarpe ciondolanti che gli spacciatori.

Scarpe penzolanti al parco Bondi a Rimini

Si ha notizia che a Catania, un gruppo di studenti spagnoli dell’Erasmus, al termine del corso ha appeso le scarpe ai cavi esterni della palazzina in cui sono vissuti durante il loro soggiorno. Una forma di ringraziamento, hanno spiegato gli universitari iberici, verso la città che li ha ospitati.
Gli ispanici effluvi, combinati con i sulfurei vapori etnei, avranno trovato il consenso olfattivo della “stordita” (immaginiamo) popolazione catanese?
Scherzi a parte, di ipotesi ce ne sono molte e tutte paiono credibili, ma il sospetto che si aggiungano anche facili “leggende metropolitane take-away” non è affatto peregrino. Va anche rilevato che c’è stato il tentativo di conferire al fenomeno “shoefiti” un’immeritata aura pseudo culturale. Potremmo anche condividere tale visione del fenomeno se, ad esempio, sapessimo che è stato concepito per effettuare una sorta di monitoraggio sociologico, quindi usato a mo’ di lente per osservare come reagisce “l’insetto-uomo” nella condivisione di taluni meccanismi comportamentali. Ma dubitiamo si tratti di questo. Nel caso in specie, non si avverte la dirompente forza provocatoria di certi artisti contemporanei, per non parlare della poderosa onda d’urto prodotta da pittori e scultori del passato, quando andare contro corrente poteva anche essere poco salutare.

Si pensi alla volontà, tesa a dissacrare, del pennello di Caravaggio (1571-1610). Quando il pittore lombardo adopera il corpo di una prostituta annegata nel Tevere per impersonare la Madonna nel dipinto “Morte della Vergine” (immagine a sinistra), i Carmelitani Scalzi della Chiesa di Santa Maria della Scala a Roma, si ritengono proditoriamente insultati e rifiutano con sdegno l’opera. Lo stesso avviene per la “Madonna dei Pellegrini” (impersonata da Maddalena Antognetti, nota meretrice, conosciuta come Lena) ritratta sull’uscio di casa insieme con con i due viandanti inginocchiati. I pellegrini rivelano umanissimi piedi gonfi e sporchi: ritrarre le estremità nel loro crudo realismo è motivo di enorme scandalo. Lena, la prostituta-modella, la si ritrova ancora nel dipinto “Madonna dei Palafrenieri”. In entrambi i casi, come detto, le opere vengono seccamente rifiutate dalla committenza, non solo per “l’affaire prostitute”, ma perché non ritenute in linea con l’ortodossia iconografica in materia religiosa. Di sovente, l’arte si sublima attraverso la profanazione delle convenzioni, usualmente cullate dalle accoglienti braccia del potere costituito. Caravaggio ne è stato eccelso e sventurato interprete.
Tornando a periodi a noi più prossimi, nominiamo un solo, immenso, provocante dissacratore seriale, Marcel Duchamp (1887-1968). Il francese, attraversa, infilzandoli come se brandeggiasse la spada “a striscia” con cui Caravaggio uccise Ranuccio Tomassoni, tutti i movimenti più importanti del ‘900: dal fauvismo fino ad arrivare all’arte concettuale e al personalissimo “ready made” (l’astrazione di un oggetto d’uso quotidiano, fabbricato industrialmente, elevato a opera d’arte), passando per futurismo, dadaismo, cubismo e surrealismo. Artista-filosofo, si potrebbe affermare che Duchamp denuda l’arte, la stravolge, ne mette in discussione l’intero universo, scardina e rivoluziona il linguaggio stesso della rappresentazione artistica.

Fontana, ovvero l’orinatoio capovolto di Marcel Duchamp

Si potrebbe quasi azzardare un parallelismo estemporaneo tra l’artista francese e il teatro espresso da Carmelo Bene (1937-2002), dadaista postmoderno, quasi venerato dai francesi, meno considerato in patria.
Di Duchamp, André Breton (1896-1966), il padre del surrealismo, pensava che fosse “l’uomo più intelligente del secolo”. Personaggio da qualcuno giudicato “genio di rara perfidia, alieno ai sentimenti e non immune da sadismo” e il cui pensiero viene definito dai critici “nichilismo estetico”, Duchamp arriva ad affermare che “l’arte è un mezzo per autointossicarsi al pari dell’oppio”. Dati i presupposti, si può facilmente intuire il vespaio di polemiche e di critiche che si scatenano in seguito a provocatorie installazioni “ready made” come “Ruota di Bicicletta” (1913), “Fontana” (l’orinatoio capovolto del 1917), “L.H.O.O.Q.” (riproduzione fotografica della Gioconda con baffi e pizzetto del 1919). Per l’interpretazione dell’acronimo vi rimandiamo a questo sito.
Il controverso e poliedrico artista transalpino firma una serie di opere che passeranno alla storia, a cominciare da “Nudo che scende le scale” (1912) il dipinto cubo-futuristico che lo rende famoso nel mondo. Duchamp abbandona però molto presto la pittura per dedicarsi non solo agli “oggetti già costruiti”, ma soprattutto al gioco degli scacchi (è uno dei componenti della Nazionale francese), passione condivisa con l’amico musicista “Zen” John Cage (1912-1992), altro genio del ‘900 che Marcel frequenta. Nella sua cerchia di amicizie trovano posto anche i dadaisti Man Ray (1890-1976) e Picabia (1879-1953). A conclusione di questo breve e incompleto inciso su Duchamp, segnaliamo cosa fece scrivere, in morte di se stesso, sulla lapide di marmo nel cimitero di Rouen, in pieno stile duchampiano: “D’altronde, sono sempre gli altri che muoiono”.

Per una carrellata molto sintetica ma efficace delle opere del geniale francese, ci permettiamo di suggerire questo brevissimo filmato su YouTube.
Ci scusiamo per la digressione dal tema iniziale, ma veniva utile per tentare un improbabile confronto tra i veri ribelli innovatori, artefici di nuove espressioni e distruttori di convenzioni come furono Caravaggio e Duchamp (ma ce ne sarebbero ancora molti, meritevoli di citazione) e minuscole prove di trasgressione “vorrei ma non posso” da relegare tra le manifestazioni modaiole di infimo lignaggio, qual è, a nostro parere, lo “shoefiti”.
La seriale ripetizione di un gesto (nella fattispecie, assai stupidotto) non gli conferisce maggiore dignità, ma lo relega, moltiplicato, nell’alveo della propria intrinseca pochezza.
A voler connotare a tutti i costi in ambito artistico (ma lo sforzo è notevole) l’importazione del ciabattante fenomeno panamericano, l’unica cosa che ci viene in mente è un monumento: quello dedicato alla puzza di piedi.

L’arte, questo prolungamento della foresta delle vostre vene, che si effonde, fuori dal corpo, nell’infinito dello spazio e del tempo.
(Filippo Tommaso Marinetti)

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