I familiari nel manifesto funebre hanno scritto che custodiranno in eterno la “benedizione del suo grande amore”. Una vita che ha lasciato il segno, fino all'ultimo giorno, quella di Laura. Nella chiesa di San Giuseppe al Porto don Eugenio Nembrini ha celebrato le esequie insieme a diversi sacerdoti.
Non è per me un pezzo facile da scrivere. Ma non solo perché si tratta di Laura, una carissima nipote e perché se n’è andata troppo presto all’età di 39 anni, lasciando due figlioletti, Matilde e Caio, di 6 e 4 anni e il marito Conor, ma perché è impossibile scrivere di questa morte, come si dice normalmente, prematura senza scoprire che davvero non si tratta di una caduta nell’abisso del nulla ma del compimento della vita nel disegno di Colui che l’ha voluta. Invece si tratta del raggiungimento dell’obiettivo di una vita, di una vera rinascita e dell’inizio di quel miracolo che congiunti e amici hanno cominciato a chiedere nelle preghiere quando sei anni fa i dottori le diagnosticarono il raro e aggressivo sarcoma che ha segnato via via il suo corpo ma che ha lasciato intatto il suo bellissimo volto. Il miracolo così come abbiamo immaginato tutti forse non s’è avverato ma sono sicuro che invece sia già in atto in qualche modo a noi ancora misterioso e non del tutto compreso.
Laura Lucchi aveva viaggiato tanto. Al quarto anno delle superiori era andata in Irlanda a studiare. È tornata in Italia per la maturità e poi è tornata di nuovo in Irlanda per laurearsi in lingue a Dublino. Parlava correntemente quattro lingue (oltre all’italiano, inglese, francese e spagnolo). In Irlanda ha cominciato il suo lavoro e, dopo il matrimonio con il suo amato Conor, è partita per l’Australia. Insieme hanno generato due figli meravigliosi. Quante volte mi ha raccontato che a quel tempo seguiva dalla spiaggia con apprensione il marito che surfava spinto dalle maestose onde dell’oceano australiano. Nel 2016 arriva per lei la brutta notizia della malattia che inizia a curare in Australia, lontano dai genitori che allora vivevano a Bologna. Dopo due anni viene a Rimini per continuare a curarsi in Italia. In un primo momento sono con lei i genitori poi la raggiungono anche il marito, che non disdegna il mare Adriatico per la sua passione del surf e i figlioletti che iniziano a frequentare la scuola materna qua a Rimini. Da allora il suo viaggio prosegue con la malattia che man mano esige sempre più, fisicamente e moralmente: assistenza continua e anche forza e fede, a lei e parimenti e forse di più anche a chi le sta vicino, parenti e tanti amici. Qui è cominciato (meglio dire è continuato) il miracolo di cui ho parlato sopra.
Laura è morta mercoledì 23 novembre poco prima dell’imbrunire, con il volto disteso e un’espressione di pace che ha sorpreso anche l’amica dottoressa che al mattino l’aveva visitata, notando che anche la ruga frontale, dovuta alla smorfia di dolore, era sparita. Dottoressa, che ha detto: “Non ho mai trovato tanta serenità in circostanze del genere”. E il viso di Laura era bellissimo e sereno. Sembrava dormisse. Pure consapevole della strada sul crinale dell’eternità che stava percorrendo, qualche tempo fa aveva fatto piangere sua madre dicendole: “Mamma, io sono pronta!”. E non era certo una figlia arrendevole e inconsapevole di quanto le stava accadendo. Con il suo carattere dolcissimo e mite, in questi ultimi anni non ha risparmiato scene di aperta protesta e contestazione nei confronti non solo dei genitori ma anche di Dio stesso, per dovere affrontare la fatica del suo calvario. Del resto chi potrebbe umanamente non considerare un’ingiustizia la sua condizione di salute e financo la sua morte che l’ha strappata così giovane a due piccole creature, al marito e agli amici? Aveva però accolto con semplicità e docilità il dono delle reliquie che alcuni amici gli avevano dato: un lembo di stoffa di un paramento sacro indossato da san Giovanni Paolo II, una parte della fodera del cuscino sul quale aveva dormito madre Teresa e, al momento del trapasso, indossava la camicia appartenuta ad Enzo Piccinini, il chirurgo di Comunione e liberazione morto nel maggio 1999 in un incidente stradale per il quale è in corso la causa di beatificazione. Un gruppo di amici coi quali si collegava quotidianamente per assistere alla messa, nell’ultimo suo compleanno le ha regalato una fantastica coperta che riproduceva le loro facce, rifacendosi all’immagine dei “quadratini” dei collegati che compare nel video dei pc negli incontri attraverso zoom.
Ma meglio di quanto non sappia dire io, il suo cambiamento è stato spiegato bene nella messa funebre che s’è svolta nella chiesa di San Giuseppe al Porto a cui hanno partecipato oltre un migliaio di persone disposte sopra e nella cripta sottostante. L’ha celebrata don Eugenio Nembrini, un prete di Bergamo, che dopo diversi anni di lavoro in Siberia è tornato in Italia prima a fare il rettore delle scuole del Sacro Cuore a Milano poi a guidare la comunità di Comunione e liberazione a Roma. Con lui sull’altare a concelebrare altri otto preti, tra cui i parroci don Mario Vannini, don Giorgio Pesaresi, don Claudio Parma, don Cristian Squadrani, don Roberto Battaglia; c’erano anche don Ambrogio Pisoni da Milano, don Carlo Grillini da Bologna ed infine don Emmanuele Silanos, attuale rettore della Fraternità sacerdotale missionaria San Carlo Borromeo.
È toccato al travolgente don Eugenio Nembrini fare l’omelia spiegando il motivo della sua “contentezza e gratitudine” per essere lì davanti al marito, ai due figlioli, ai genitori e a tantissimi amici, vicino alla bara di Laura. Era stata proprio lei a chiedere che fosse lui a celebrare il funerale. “Come posso non essere contento e grato – ha detto Nembrini – se questa amica ha compiuto il suo destino; la ragione per cui è nata, per cui ha amato un uomo e s’è sposata, per cui ha fatto dei figli. Il dna di Laura come quello di ciascuno di noi è quello di cercare Dio. Cercare il senso della propria vita. Tutto quanto si fa in vita, azioni buone o cattive, è perché siamo figli suoi. Voi mi direte: “E chi non crede in Dio?”. Ma dov’è il problema: ogni nostra azione, anche di coloro che sono inconsapevoli e vivono alla giornata, è attesa domanda del Mistero. Attesa di un significato, di un senso. E fin dall’inizio di ogni avventura umana sulla terra, si rida o si pianga, si faccia bene o male: tutto chiede e grida questo senso. E sto parlando anche della malattia, del dolore, della stessa morte. Ho conosciuto Laura solo in questo ultimo periodo ed ho potuto incontrarla di persona solo una volta, ma la vedevo e la sentivo nella messa quotidiana che celebro, via zoom, per le persone ammalate. E pensate che di questo gruppo di persone già settantadue sono morte. Ma è proprio questo gruppo che mi fa vedere e testimonia che la vita, breve o lunga che sia, è attesa di un compimento. Questo è il gran regalo che ho ricevuto da Laura e da tutto questo gruppo: tutta la vita è una ricerca di Chi te l’ha donata all’inizio e di Chi continua a donartela ogni giorno e di Chi la compirà. C’è un secondo regalo che Laura mi ha fatto, che ha sofferto tanto e certi momenti non ce la faceva più. La sua vita era tosta, tosta ancor di più per chi gli stava vicino. Ho visto in lei e negli altri un cambiamento, un abbandono consapevole al suo Signore; l’abbandono della recriminazione e il sopraggiungere di una pace che non è possibile che venga solo dal nostro impegno”. In verità nel nostro gruppo, ha detto senza mezzi termini don Nembrini, “ci si prepara a morire. Scusate non sto contando “mattate”, ma tutti, prima o poi, ci troveremo di fronte alla soglia della morte. E noi vogliamo andare in Paradiso, come ha detto Laura qualche giorno fa a suo padre. Però permettete ancora una cosa: il Paradiso è il nostro destino ma un destino che cominciamo a vivere e vedere qui e ora; a gustarlo nelle cose di tutti i giorni”.
Ma è stato al termine della celebrazione che tutti ci si è commossi nell’intervento di Giampaolo Lucchi il babbo di Laura, che ha detto di aver condiviso con Cristina sua moglie, la riflessione che ha letto e che è stata tradotta simultaneamente in inglese per i tanti amici arrivati dall’Irlanda. Solo pochi giorni fa Laura gli ha detto: “Babbo sto morendo e ho paura! Quando verrà il Signore io mi affido”. E Giampaolo: “Questo tu hai fatto. Ti sei affidata. Ti ho sentita cantare l’altro giorno con la tua bella voce la canzone “Tu hai preferito me”, ho pianto e ho detto al Signore: “E’ pronta. Signore vieni a prenderla!”. E l’altra sera, nella preparazione per la notte ci hai detto: “Vi do una notizia importante: voglio andare in Paradiso!”. Anche se in precedenza non eri così ma sei stata proprio arrabbiata che il male terribile che ti avrebbe portato alla morte avesse colpito così ingiustamente. L’altro giorno alla fine del collegamento e dopo una chiacchierata con don Eugenio mi hai detto: “Oggi don Eugenio mi ha aiutato molto dicendoci che dobbiamo affidarci al Signore, io ancora non ci riesco ma vorrei che fosse ogni giorno più vero anche per me. Io ti ho risposto che basta chiederlo. Laura, senza la compagnia di tantissimi amici, senza la compagnia dei sacerdoti che ti hanno incontrata e accompagnata e che ti hanno portato ogni giorno la comunione, non ce l’avresti fatta. Tu da subito sapevi quale sarebbe stato l’esito finale della malattia, senza infingimenti né sconti. Hai combattuto per vivere ogni momento che ti è stato dato, dicendo: “Quando la morte arriverà mi deve trovare viva! Così è stato, per grazia di Dio”. Poi rivolgendosi anzitutto al genero (che ha definito un “grande uomo”) e a tutti coloro che hanno seguito e accompagnato Laura nella tappa finale della sua vita ha ringraziato tutti: tanti medici, operatori e assistenti sanitari a domicilio, sacerdoti. Concludendo: “Laura, arrivederci in Paradiso!”
Come si può vedere, il miracolo tanto atteso e pregato, per Laura, per i suoi familiari e amici è davvero già incominciato ad accadere: in questo volto sereno e pronto all’incontro finale e compiuto di questo passaggio dalla terra al cielo. Di lei i suoi cari nel manifesto funebre hanno scritto che custodiranno in eterno la “benedizione del suo grande amore”.
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