Seconda puntata dell’inchiesta di Riminiduepuntozero sui centri politici decisionali della multiutility miliardaria. Il caso di Imola: nel 2017 i “dem” fiutano la sconfitta e blindano il consorzio Con.Ami alla maggioranza dei comuni “rossi”. Manuela Sangiorgi, ex sindaco: «Ero commissariata, loro potevano tutto».
Tirava una brutta aria per il Partito Democratico due anni fa, nellʼautunno 2017. Una settimana dopo lʼaltra, si susseguivano sondaggi unanimi – pur con qualche variante – nel disegnare un fosco panorama: le elezioni della primavera 2018 erano destinate a riservare una sconfitta storica per bandiere rosse e affini.
Lo scenario nazionale negativo si riproduceva tale e quale anche nei territori, come quello emiliano e romagnolo, ritenuti sicuri per il Pd fino a pochi giorni prima. Gli esiti delle interviste telefoniche, pubblicati nei talk-show televisivi e sui giornali, davano il partito allora guidato da Matteo Renzi attorno al 20%, e già questo faceva tintinnare campanelli dʼallarme. Ma circolavano anche altri dati, i cosiddetti sondaggi veri, quelli tenuti segreti.
Tanto per dirne una, un bel giorno nellʼimolese saltò fuori la notizia che lʼex Pci-Pds-Ds si sarebbe dovuto accontentare di un magrissimo 18% [fonte, che riprendeva una notizia di Affaritaliani.it] perciò nel partitone si cominciava a sudare freddo. Guarda caso, quel sondaggio di quattro mesi prima era talmente vero che ci prese in pieno: alla Camera il risultato del Pd del 4 marzo fu del 18,7%.
Perché parliamo di Imola? Perché la cittadina romagnola avrebbe avuto anche le elezioni comunali e lʼonda favorevole al M5S e alla Lega avrebbe potuto travolgere le amministrazioni rosse. Il sindaco piddino Daniele Manca sarebbe andato al Parlamento in un seggio sicuro, ma ciò necessitava che lui si dimettesse dalla carica chiudendo anticipatamente la legislatura amministrativa.
In quel novembre 2017 i “dem” imolesi ostentavano sicurezza, almeno allʼesterno: commissionarono una rilevazione sulle intenzioni di voto per le comunali 2018 e la presentarono alla stampa locale accreditandosi una percentuale del 46,3% [vedi]. Non era realistico: sei mesi dopo, infatti, la lista Pd prese solo il 34% al primo turno per poi perdere al ballottaggio, quando si affermò la candidata del M5S Manuela Sangiorgi.
Arriviamo così al nostro argomento, e cioè il tentativo, finora riuscito, del partito di blindarsi dentro un bunker. Abbiamo visto, in un precedente articolo, la struttura simile a un soviet che le amministrazioni comunali rosse socie di Hera hanno dato al loro Patto di Sindacato. Ma come si perpetua questo sistema di potere? Semplice, cambiando le regole a seconda della convenienza di partito.
È successo così, ad esempio, proprio a Imola: alla fine del 2017 comincia a profilarsi la batosta elettorale della primavera successiva, e allora si corre ai ripari per evitare che una nuova maggioranza politica, di segno diverso, possa cambiare le cose in concreto. Il consorzio Con.Ami, il soggetto socio di Hera in cui Imola con il 65% delle quote è alla testa di un gruppo di 23 amministrazioni comunali, viene improvvisamente modificato nello statuto. Per prendere le decisioni importanti non basta più la maggioranza delle quote del 65% ed “almeno un quarto degli enti consorziati” (cioè almeno sei comuni), ma occorre anche il consenso di “almeno la metà degli enti consorziati” (il doppio, almeno dodici).
In pratica, da allora in avanti lʼamministrazione comunale imolese avrebbe dovuto dipendere, nelle proprie decisioni strategiche, dalla omogeneità politica di una dozzina di altri comuni.
Nota bene, il nuovo statuto fu approvato il 19 dicembre 2017, cioè dieci giorni feriali prima che Daniele Manca rassegnasse ufficialmente le dimissioni da sindaco (4 gennaio 2018).
Chiarito questo particolare, si capisce perché Manuela Sangiorgi, eletta sindaco di Imola nel giugno 2018 da una maggioranza alternativa a quella “rossa”, abbia sempre faticato sette camicie per governare, subendo il continuo ostruzionismo da parte degli altri comuni del Con.Ami amministrati dalla sinistra. Fino al punto di doversi dimettere.
Sentita da Riminiduepuntozero, la Sangiorgi oggi dichiara: «Se tornassi indietro, quella modifica di statuto del Con.Ami la impugnerei al TAR». Il Comune continuava a detenere, sì, il 65% delle quote, ma non poteva più comandare nemmeno in casa propria. Era praticamente impossibile eleggere un consiglio dʼamministrazione omogeneo alla nuova maggioranza, come invece si era fatto fino ad allora (Imola indicava il presidente più altri due componenti del Cda, cioè tre su cinque).
«Io ero “commissariata” dal Pd», spiega ancora la Sangiorgi, «loro potevano tutto». Il potere reale che il Pd imolese ancora oggi tiene in pugno nonostante la sconfitta elettorale del 2018, si capisce anche da un altro dato: nel Cda di Hera il territorio continua ad essere rappresentato da Stefano Manara, entrato nella stanza dei bottoni nell’agosto 2013, per alcuni anni cumulando la carica con quella di presidente Con.Ami, presidenza dalla quale si è dimesso nellʼagosto 2018. Rievoca la Sangiorgi: «Ho chiesto a più riprese che il consigliere dʼamministrazione fosse sostituito, lʼho chiesto al Pd e al presidente di Hera Tomasi di Vignano, ma mi è stato rifiutato».
Sono poltrone che contano, quelle del Cda di Hera, e inoltre costano non poco a chi paga le bollette di acqua e rifiuti: un consigliere come Manara, infatti, si porta a casa 60mila euro annui, di cui 40mila per partecipare a dieci sedute allʼanno del Cda, ciascuna della durata media di 160 minuti. Vale a dire un compenso di 25 euro al minuto [dati tratti dal sito ufficiale di Hera]
Ora è proprio il rinnovo del consiglio dʼamministrazione di Hera, atteso nella primavera 2020, a suscitare gli appetiti politici. Lʼaccordo fra i principali soci pubblici prevede che il nuovo presidente debba essere indicato concordemente da Ravenna e dal Con.Ami.
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