Ricordate la splendida storia di Tino Antoniacci e la vecchia locomotiva “FS 740 Ansaldo Breda” con vagone rosso al traino che dagli anni 90 si trova in un luogo parecchio insolito per un treno, cioè nella tenuta agricola Marcosanti? Non poteva esserci contesto migliore per presentare il libro di Gianvincenzo Cantàfora dedicato al treno della speranza, gli internati militari italiani tornano a casa.
Alcuni mesi fa, grazie all’amico Alfredo Monterumisi, incontro Luigi Antoniacci. Dalla chiacchierata con il titolare della Tenuta Case Marcosanti che mi racconta un capitolo importante della vita del padre Tino, scaturisce un articolo sull’uomo che si è inventato “una stazione in giardino”, all’interno della tenuta agricola di cui è proprietario, lontano dalla ferrovia e da una realtà oggi impensabile, ma a quel tempo esistita e vissuta con dolore. Tino Antoniacci non si accontenta, come tanti, di portare a casa la gavetta che attraverso i graffiti diventa “parlante” grazie a una sorta di tatuaggi permanenti. Operati con la punta di un chiodo sulla “pelle” inerte dell’alluminio, essi rappresentano la storia di un uomo in prigionìa, i pensieri, i desideri e le angosce, le speranze con le date e i luoghi, appuntati sulla pagina color argento di un tormentato diario tridimensionale. No, non gli basta. Negli anni ’90 Tino acquista una vecchia locomotiva “FS 740 Ansaldo Breda”. E sistema in giardino quelle 66 tonnellate di ferro, quasi fosse un’opera dell’artista concettuale Marcel Duchamp (1887–1968), la coprotagonista di parte della propria vita, il modello di motrice normalmente usata quarant’anni prima per traghettare i soldati rastrellati dopo l’8 settembre verso l’inferno dei campi di prigionìa nazisti. Per diverso tempo, l’oggetto diventa una sorta di muta testimone della vicenda bellica che Tino racconta alle scolaresche in qualità di ex Internato Militare Italiano.
Dopo qualche tempo dalla pubblicazione dell’articolo ricevo una telefonata da Milano. L’ingegner Gianvincenzo Cantàfora lo ha letto e dato che ha appena terminato di scrivere un romanzo che vede protagonisti alcuni IMI (Internati Militari Italiani), trova che per la presentazione del proprio libro la “740” di Luigi (il padre Tino è mancato alcuni anni fa) non potrebbe che essere lo sfondo migliore. In realtà c’è un filo rosso che congiunge Tino Antoniacci e Gianvincenzo Cantàfora: la seconda guerra mondiale vissuta dai padri e la locomotiva modello “FS 740” che ha lentamente divorato chilometri di rotaie per condurre migliaia di ex militari stipati dentro i carri-bestiame verso i loro destini. Tutto questo è accaduto sia nella cruda realtà che in quella non meno realisticamente descritta nell’opera libraria. Gianvincenzo Cantàfora nasce a Milano. Dopo aver conseguito la laurea in Ingegneria presso il Politecnico, consegue anche quella in Scienza della Comunicazione a Urbino. Per lungo tempo è consulente nel settore Aeronautico e della Difesa. Su questi temi scrive sulle più importanti riviste di settore. Ma è anche appassionato di viaggi e di motori e per questo mette a disposizione dell’autorevole rivista specializzata «Slowdrive Magazine» esperienze, articoli tecnici e resoconti di viaggio. Oltre alla condivisione della stessa disciplina professionale, dal padre Duilio eredita i ricordi e la narrazione dell’evento bellico più devastante del ‘900, vissuto in prima persona come Tenente di Artiglieria. Dai racconti paterni e dal personale approfondimento dei fatti di guerra dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43, nasce “Il treno della speranza (gli Internati Militari Italiani tornano a casa)”. Il romanzo è preceduto da un sintetico, ma autorevole saggio storico curato da Luana Collacchioni dell’università di Firenze. La ricercatrice definisce l’opera di Cantàfora «una sorta di romanzo storico sostenuto da testimonianze dirette narrate dell’autore che pone questa scrittura sul confine tra romanzo e testimonianza».
Dal saggio cito questo periodo perché sintetizza in maniera eccellente con poche, ma decisive parole, il lavoro di Cantàfora. Egli è il braccio armato (di penna) delle memorie del padre, il foglio indelebile su cui imprimere i propri racconti, in seguito riportati dal figlio con scrittura essenziale, efficace e senza fronzoli, in missione verso un obiettivo preciso, un “target”, come direbbero gli anglo-americani, perché come sostenuto da Luana Collacchioni «il racconto storico di Cantàfora si configura come uno strumento di conoscenza importante ed efficace perché in modo avvincente e appassionante riporta fedelmente un momento storico che deve essere conosciuto e indagato e che invece è rimasto taciuto troppo a lungo». I capitoli sono scorrevoli, ma solidi come i mezzi militari che l’autore descrive con dovizia di particolari nei numerosi e circostanziati richiami a piè pagina. Da questo si intuisce studio, preparazione e particolare conoscenza della materia. Non è un caso che egli sia stato per lungo tempo un consulente nel settore Aeronautico e della Difesa per il nostro Paese. Il bersaglio lo raggiunge, al pari dei protagonisti delle vicende sì romanzate, ma fedelmente attinte dalla realtà, vissute dagli IMI di cui narra le tribolazioni prima e il tentativo di riscatto e di ritorno a una normalità “condizionata”, poi.
Il libro lascia nel lettore un inevitabile senso di angoscia che tuttavia si stempera nella speranza della rinascita. La redenzione della Storia dopo la disfatta della distruzione morale e civile che un conflitto mondiale inesorabilmente trascina con sé. Queste considerazioni sono volutamente brevi e succinte per lasciare al lettore il piacere di scoprire di pagina in pagina l’evolversi delle vicende belliche, ma soprattutto quelle del dopoguerra. Nel pomeriggio di martedì, ospiti di Luigi Antoniacci e dell’azienda vinicola di famiglia “Case Marcosanti” è avvenuta la presentazione del libro di Gianvincenzo Cantàfora. Accompagnato dalla moglie Mary Jo e affiancato dalla sorella Maria Cristina, redattrice editoriale, l’autore ha illustrato la propria opera letteraria davanti a una quarantina di persone molto coinvolte e interessate all’argomento che a tratti ha commosso la platea, ma prima di tutti l’oratore stesso. Dopo brevi, ma invariabilmente toccanti interventi di alcuni dei partecipanti alla presentazione, Cantàfora ha concluso con queste significative parole: «Ricordare sempre per non dimenticare mai. Un’esortazione che si attaglia perfettamente alle tragiche vicende degli IMI e che col passare del tempo rischiano di affievolirsi nel ricordo comune e condiviso. Con il mio libro ho cercato di porvi rimedio, ma sono certo che bisogna fare molto di più. E per questo voglio lanciare una proposta: che in ogni città, in ogni paese della nostra Patria, tutte le amministrazioni si facciano carico di dedicare un giardino o una porzione di parchi esistenti, alla memoria degli IMI e alla loro tenace resistenza, spesso sconosciuta o dimenticata».
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