La lunga storia (e i molti protagonisti) della rinascita del Fulgor come non vi è mai stata raccontata

La lunga storia (e i molti protagonisti) della rinascita del Fulgor come non vi è mai stata raccontata

Parla l'architetto riminese artefice del progetto, Annio Maria Matteini.

Il suo primo incarico risale al 1973 e gli viene conferito dalla Casa di Riposo Valloni, Cisgoni, Dionigi. A metà degli anni Novanta il sindaco Giuseppe Chicchi avvia il recupero del complesso, di concerto con l’Ente proprietario allora presieduto da Giordano Gentilini. Molti anni dopo, ecco la conclusione del progetto, assai più ampio e complesso della pur celeberrima sala cinematografica.

L’architetto Annio Maria Matteini è un riminese che, pur avendo trascorso la sua vita professionale a Milano, ha conservato stretti e continui rapporti con la nostra città, con la Romagna e con San Marino dove è nato il 16 gennaio 1944.
La famiglia sammarinese dei Reffi, quella della madre Luisa, è nota per la grande cava e per la lavorazione della pietra locale, ma soprattutto per la realizzazione dei più importanti edifici della Repubblica e di molti altri in Romagna e nelle Marche.
Allievo del Liceo Classico Giulio Cesare, Annio Maria Matteini in gioventù ha praticato il nuoto agonistico, ha collaborato ad attività culturali (Circolo di Archeologia, Associazione Indipendente Studentesca) ed a giornali locali, ha condiviso da laico i fermenti della sinistra democratica ed ha svolto attività politica nella Federazione Giovanile Repubblicana (di cui fu membro della Direzione Nazionale) e poi nel Partito Repubblicano Italiano (di cui fu eletto consigliere comunale a Rimini), aderendo anche al Movimento Federalista Europeo e alle battaglie radicali e antimilitariste.
Del padre Nevio, celebre scrittore e giornalista (famosi i suoi volumi sulla Rimini negli ultimi due secoli), ha curato il volume postumo Romagna, una terra. Luoghi, monumenti, personaggi, fatti e leggende (Rimini, Luisè, 1995) e le riedizioni di alcuni notissimi testi sulla prigionia del Conte di Cagliostro, sulla città di San Leo, su Masôn dla Blona, sulla storia e l’arte della Repubblica di San Marino, pubblicando nel 2014 un toccante ricordo della vita e delle opere in occasione delle celebrazioni ufficiali per il centenario della sua nascita.

Cominciamo dalla sua formazione professionale milanese ed anche dei suoi interventi locali prima di entrare nel merito del suo progetto e della ristrutturazione, ora conclusa, del Palazzo Valloni.
Devo all’architetto riminese Mario Ravegnani Morosini, già allievo di mio padre al Liceo Scientifico Alessandro Serpieri, una riconoscenza infinita per quanto mi insegnò e per quanto appresi nel suo studio “B24” di via Borgonuovo 24 a Milano con accanto il suo collega riminese Bobi Brunori e il prezioso geometra Emilio Polla ed ove a lungo ho incrociato Bruno Munari, Gillo Dorfles e Jean Tinguely.
L’architetto Ravegnani è stato per anni l’invidiatissimo progettista dei più prestigiosi alberghi di Rimini, di Riccione, di Gabicce oltre che dell’ospedale riminese e di molte inconfondibili residenze in Romagna ed il suo rigore progettuale e la sua inventiva, negli anni Sessanta, furono ineguagliate e spesso malamente plagiate.
La nostra città – succede molto spesso – lo ha però totalmente e, suppongo deliberatamente, dimenticato. Ritengo a causa sia del suo altezzoso distacco dalle problematiche politiche e sociali di Rimini (era un conservatore-liberale amabilmente critico del mio “sinistrismo mazziniano” come definiva la mia militanza), sia dei suoi facoltosissimi committenti privati che erano però notoriamente compromessi con il potere socialcomunista allora imperante nella città e tra i tecnici ed i progettisti.
Ho poi un ulteriore debito di gratitudine per il prof. arch. Vittoriano Viganò di cui per anni sono stato collaboratore alla ricerca e alla didattica del “Corso di architettura degli interni” presso la Facoltà d’Architettura del Politecnico di Milano, ove mi sono laureato nel 1969 con Franco Albini dopo avere studiato con docenti prestigiosi tra i quali Rogers, Bottoni, Gregotti, Zanuso e Portoghesi.
Grazie a Vittoriano Viganò, un grande, fantasioso e anche indisponente ideatore, ho affinato la propensione per il progetto liberato dagli orpelli e per il “brutalismo” di cui fu esponente rinomato, prima che il cosiddetto “minimalismo” divenisse l’alibi per mediocri professionisti e l’argomento delle rivistine d’arredamento fai-da-te.
Infine è stato per me fondamentale costituire nel 1971 in via Brera a Milano, proprio nel giardinetto antistante l’Accademia, con i colleghi Pier Paride Vidari, Franco Mian e Gabriele Basilico, lo “Studio d’architettura di via brera 17” di cui, negli anni successivi, divenni l’unico titolare e che ha chiuso l’attività nel dicembre 2011.
Specialmente accanto al compianto Basilico, con cui progettai alcuni dei miei primi arredamenti, affinai molto le metodologie progettuali che mi hanno in seguito caratterizzato, insieme al gusto per il colore, per le ombre, per i tagli e l’articolazione dei volumi.

Gli architetti componenti dello “Studio d’architettura di via brera 17”: da sinistra Pier Paride Vidari, Annio Maria Matteini, Franco Mian, Gabriele Basilico, nell’estate del 1971 proprio davanti all’ingresso dello studio in via Brera.

Con Gabriele girammo tutte le regioni pubblicando mensilmente nella rivista Ville-Giardini organici servizi sull’architettura rurale italiana con miei testi e sue fotografie, prima che il tema divenisse di moda ed oggetto di ampie speculazioni immobiliari.
Dei miei interventi locali mi piace ricordare una villa, con il corpo prospiciente la strada sorretto da lievi pilastri circolari che delineano un insolito porticato, articolata intorno ad un patio, a Morciano di Romagna che, fotografata da Basilico, mi consentì – giovane neolaureato – di interessare Bruno Zevi il quale la pubblicò sulla sua prestigiosa rivista internazionale L’Architettura – Cronache e Storia. In seguito Zevi (con il quale intrecciai un fitto scambio epistolare durato 25 anni fino alla sua scomparsa e di cui sono sempre stato molto orgoglioso) pubblicò svariate mie realizzazioni nel milanese, specialmente di grandi complessi residenziali di edilizia sovvenzionata e di edifici per uffici.
Non ritenne, purtroppo, di pubblicare la documentazione della mia ristrutturazione del Palazzo Comunale di Monte Colombo pur lodandola in una lunga lettera in cui però mi sottolineava: “…Lei sa quale stima nutra per Lei. L’ho dimostrato nel passato, lo dimostrerò nel futuro. La ragione non sta nella valutazione dell’opera e del Suo lavoro, ma nel genere. La rivista non pubblica interni e neppure esterni. Non pubblica ristrutturazioni perché è difficilissimo illustrarne (quando c’è) il significato. Il Palazzo di Monte Colombo è piccante, complesso nelle sue varie parti stilisticamente remote tra loro. I Suoi inserti e le Sue ricuciture moderne sono ottime, ma nelle foto restano capitoli staccati. Non c’è niente da fare: con le (maledette) ristrutturazioni è sempre così…”.
Nella progettazione dei quattro piani recuperati cercai, tramite una sintesi meditata, di superare la stucchevole diatriba tra conservazione e trasformazione delle preesistenze, realizzando un grande complesso articolato con spazi a disposizione dei cittadini, ricolmo di soluzioni e di materiali inusuali in grado di esaltare nella comunità l’orgoglio dell’appartenenza. Fu per me inoltre doveroso, trattando la fastosa facciata littoria dal cui balconcino centrale Benito Mussolini aveva ineluttabilmente parlato ai cittadini, precluderne simbolicamente e per sempre l’accesso mediante uno sfondato a tutta altezza cui si affacciano i vari piani (fulcro dell’ingresso al complesso e con pannellature in vetrocemento e putrelle metalliche): una scelta d’architettura, ma soprattutto un deliberato orientamento ideologico dell’architettura stessa che allora stupì e poi coinvolse i cittadini.
La direzione dei lavori di queste e di altre realizzazioni furono comunque la gradita opportunità di proseguire il rapporto con gli antichi amici e con la politica attiva riminese, oltre che con mia madre Luisa Reffi e mio padre, specialmente dopo la drammatica morte di mio fratello Ennio, diciannovenne studente d’architettura della medesima facoltà milanese. Con Ennio avevo tanto fantasticato un comune futuro professionale ed invece ne progettai, con enorme smarrimento, la cripta nel Cimitero di Rimini.
Proprio nel medesimo Cimitero urbano (mio padre scrisse negli anni Settanta, con fotografie di Davide Minghini, proprio l’unica guida storico-artistica ancora in attesa di un adeguato aggiornamento, come Rimini da tempo meriterebbe) realizzai poi altre cripte (ampiamente pubblicate e premiate in un concorso nazionale sulla nuova iconografia cimiteriale) sempre incentrate sul tema del luogo in cui entrare per raccogliersi in antitesi al monumento formalistico e magniloquente e scelsi di utilizzare per le case dei morti i materiali dei nostri edifici e del nostro tempo, senza riprodurre però, mediante riduzione di scala, le case dei vivi.

L’architetto Matteini al tecnigrafo nello studio di via Brera, fotografato nel 1974 da Gabriele Basilico, con appeso sulla destra uno schizzo di studio della sala del Cinema Fulgor.

Nella sua carriera ha sperimentato gli aspetti più vari della progettazione e tentandone una sintesi, quali realizzazioni ritiene più opportuno evidenziare?
E’ risaputo quanto gli architetti prediligano raccontarsi e lo facciano esageratamente e, quindi, cercherò di non adeguarmi, sintetizzando una risposta.
Ho operato per amministrazioni pubbliche, per cooperative, per enti e società, nei settori della pianificazione territoriale e della progettazione architettonica ed ambientale, progettando nuovi quartieri residenziali, piani di recupero di quartieri storici e di nuclei rurali, piani urbani del traffico, autorimesse multipiano, cimiteri urbani e giardini pubblici. Inoltre mi sono occupato di arredo urbano, di spazi museali, di architettura degli interni ed ho curato studi d’impatto ambientale. Incaricato da società italiane ho altresì progettato, nel passato, complessi sportivi e ricreativi in Iraq, in Nigeria e in Arabia Saudita.
Ho poi collaborato al Master Plan della Regione Lombardia per il recupero del Sistema dei Navigli ed al piano di recupero degli insediamenti storici della Vallagarina in provincia di Trento e ai piani regolatori di Forlì, Ravenna, Monza, San Donato Milanese, Peschiera Borromeo.
Per FastWeb ho progettato a Milano il centro di controllo tuttora attivo ed ho ricevuto incarichi per svariati interventi della Metropolitana Milanese, dell’Azienda Lombarda Edilizia Residenziale, di Federchimica, della Cassa Edile, dell’Arma dei Carabinieri, della milanese Azienda Sanitaria e della Casa Circondariale di San Vittore a Milano.
Di recente, a Bruxelles, ho realizzato la grande sede di rappresentanza di Federchimica accanto al Parlamento Europeo.
Negli anni Settanta avevo coordinato l’attività redazionale della rivista Ville-Giardini ed ho collaborato, con scritti e con progetti, a svariate pubblicazioni. Per l’editore Maggioli ho redatto nel 1991 il volume Progettazioni architettoniche ed ambientali per la valutazione d’impatto sul paesaggio che illustrava molti progetti del mio studio.
E’ stato anche un grande motivo di compiacimento potere curare per anni in Lombardia l’immagine grafica del Partito Repubblicano Italiano (Spadolini mi segnalava riservatamente di non gradire che nei miei manifesti il suo nome comparisse con dimensioni identiche a quelle utilizzate per Giorgio La Malfa e mi convinsi poi che…. aveva proprio ragione) e disegnare anche per l’Associazione Mazziniana Italiana, per la Lega delle Cooperative, per l’Unione Italiana del Lavoro, per il Centro Studi Ugo La Malfa e ideare marchi, simboli grafici e campagne promozionali per enti pubblici, aziende e società.
La realizzazione del Palazzo Valloni corona dunque la conclusione della mia attività in cui mi piace sottolineare di avere sempre rifuggito dal reiterare uno stile, compiacendomi piuttosto di fare trasparire un’impronta, un metodo di generare le forme architettoniche.
Ora comunque posso rallegrarmi che i miei nipoti Lorenzo e Rebecca frequenteranno il Cinema Fulgor disegnato dal nonno, mentre mio padre, che da giovane era stato un assiduo spettatore, l’attese inutilmente per decenni. Egli sovente mi raccontava dell’amicizia antica con l’avvocato Benzi, il “Titta” intimo di Fellini, ed era compiaciuto per la lunga intervista intitolata “Fellini a casa sua” che Nuova Antologia aveva pubblicato nel 1964.
Fin da giovane – in coerenza con l’adesione mai rinnegata alle idealità sociali del Mazzinianesimo – avevo aspirato di occuparmi prevalentemente dell’edilizia pubblica e di quella residenziale con connotazioni sociali, piuttosto che di quella privatistica gestita con intenti speculativi. E’ quanto sono poi riuscito a svolgere, insieme ad ottimi collaboratori, nei decenni della mia attività. Ed anche gli studi per il recupero e per la ristrutturazione del Palazzo Valloni corrispondevano proprio alle mie aspirazioni.
Il mio primo incarico risale al 1973 e mi venne conferito dalla Casa di Riposo Valloni, Cisgoni, Dionigi, benemerito ente operante da antica data in città.
In quegli anni la nostra Rimini non si era ancora accorta dei meriti del concittadino Federico Fellini che la ricambiava, sottovalutandone l’accidia, di ben poche attenzioni.
L’obiettivo allora individuato, di concerto con l’Amministrazione Comunale, fu infatti quello di ristrutturare l’intero complesso edilizio che nel 1787 l’architetto Giuseppe Valadier aveva rinnovato dopo il terremoto e che l’architetto riminese Addo Cupi, nel 1916, aveva ristrutturato progettandone anche la pregevolissima facciata e lo scalone adiacente alla via Verdi. Era tuttavia un progetto che avrebbe snaturato le preesistenze, ampliando smisuratamente la sala cinematografica del pianterreno, sovvertendo la trama delle murature interne e delle aperture perimetrali, avvallando la richiesta di spazi flessibili per gli uffici comunali ai piani superiori.
Ripetutamente mi considerai fortunato per la sua mancata realizzazione, ma senza riuscire a perdonarmi l’errore e l’insipienza.

Nella sala del Cinema Fulgor, ancora addobbata con i tendaggi, lo scenografo Dante Ferretti e l’assessore Stefano Pivato durante un sopralluogo insieme all’architetto Annio M. Matteini nell’ottobre del 2008.

Come si è giunti ad individuare gli obiettivi che hanno caratterizzato la sua ultima versione del progetto e la successiva realizzazione ora conclusa?
Fu solamente a metà degli anni Novanta che l’Amministrazione Comunale con sindaco Giuseppe Chicchi e vicesindaco Fabio Zavatta, amministratori lungimiranti, finalmente avviò una concreta iniziativa per il recupero del complesso, di concerto con l’Ente proprietario allora presieduto da Giordano Gentilini, ma – come spesso accade – si decantano i risultati senza anzitutto riconoscere i meriti di chi, con saggezza e con capacità politiche ed amministrative, ha dato l’avvio decisivo.
In quegli anni c’era ancora la Fondazione Federico Fellini e gli obiettivi contemplavano, oltre al recupero del Cinema Fulgor, anche la creazione di un’ulteriore piccola sala cinematografica (che ho collocato sulla via Verdi) e di adeguati ambienti per la Cineteca comunale, per la Facoltà di Cinematografia dell’Università di Bologna, per la medesima Fondazione, oltre ad un vasto spazio museale dedicato all’attività felliniana completato dagli ampi locali per i depositi della biblioteca e degli archivi. Fu proprio in quei tempi che individuai, insieme ai miei collaboratori, la concreta possibilità di inserire, senza sovvertimento alcuno, un nuovo piano (quello che ora è il terzo piano, ovvero il quarto livello della costruzione) in prossimità delle massicce capriate in legno della copertura.
Si trattò dell’acquisizione – mai prima contemplata – di una superficie di oltre 650 metri quadrati che ha finanziariamente ottimizzato l’investimento pubblico e di ciò mi vanto molto, nonostante venga spesso sottaciuta e da qualcuno allora addirittura osteggiata.
Tralascio poi di descrivere quanto fu complessa per l’edificio storico ubicato in zona sismica, la ricerca della collocazione ottimale per le centrali degli impianti tecnologici (progettati dagli studi Zamagna ed Orsini) e quali problematiche sia stato necessario risolvere affrontando l’aspetto strutturale risolto mediante la progettazione degli ingegneri Renato e Massimo Cicchetti cui si deve il brillante utilizzo delle fibre di carbonio che cingono le murature.
Ci vollero comunque molti anni per le svariate stesure e per il superamento delle difficoltà burocratiche per cui si adoperarono, dopo Giuseppe Chicchi, i sindaci Alberto Ravaioli e Andrea Gnassi, i presidenti Massimiliano Angelini e Giancarlo Ferri, gli assessori alla cultura Stefano Pivato, Antonella Beltrami, Massimo Pulini ed i direttori della Cineteca riminese Gianfranco Miro Gori e Marco Leonetti.
Ora, dopo gli anni trascorsi per svolgere gli scavi archeologici e realizzare l’arduo intervento costruttivo, il mio ruolo di progettista architettonico e di direttore artistico dei lavori si è concluso, com’era previsto, proprio da circa due mesi.
Rimini dunque acquisisce gli 8.000 metri cubi ed i 2.700 metri quadrati della “Casa del Cinema Federico Fellini” nel Palazzo Valloni, componente fondamentale del nuovo “Grande Museo Fellini” delineato di recente dal nostro Comune.

Dal plastico realizzato da Emilio Polla, l’atrio di ingresso alle due sale cinematografiche con la “scala Gradisca” che immette alla galleria ed i volumi aggettanti dei servizi igienici e della cabina di proiezione.

E’ stata dunque un’esperienza progettuale lunga e complessa il cui risultato tutti potranno valutare, ma quali sono gli aspetti per lei più significativi dell’intervento edilizio?
Mi astengo dalla descrizione dettagliata dell’organizzazione progettuale – pur sempre gradevole per chi ha maneggiato con attenzione e per decenni questa intricata progettazione – ma ritengo sia opportuno precisare, per un’immediata comprensione delle dinamiche, che due sono gli accessi al complesso: l’atrio a tutta altezza su corso d’Augusto che immette nelle due sale cinematografiche e nella galleria, e l’ingresso con la nuova scala e gli ascensori, posto sulla piazzetta san Martino, a servizio dei tre piani.
E’ comunque la scala monumentale su via Verdi, disegnata da Addo Cupi nel suo intervento d’inizio del Novecento, che voglio anzitutto segnalare perché è stato intento prioritario conservarla come memoria. Essa svolge solamente il ruolo di collegamento interno tra i primi due piani, integrando il sistema delle uscite d’emergenza. Presenta nuovamente i gradoni in graniglia ed il parapetto in ferro identici agli originali ed è ora inondata dalla luce naturale di un grande squarcio che ho voluto praticare nella copertura.
Sottolineo poi una vasta vetrata curva e a tutta altezza (ripresa da un analogo volume cieco sovrastante) inserita nel primo piano sul fronte di via Verdi in prossimità del corso che, coronando la sequenza delle aperture finestrate, ho ritenuto potesse connettere visivamente – esaltandolo simbolicamente – l’ambiente interno rinnovato con il corso d’Augusto da sempre il palcoscenico della nostra vita collettiva.
Ho inoltre rilevato con compiacimento quanto da settimane si sia positivamente scritto e documentato della facciata restaurata di corso d’Augusto quale metafora di una rinascita insperata.
E’ stato invero complesso il progetto d’illuminazione della facciata svolto con la milanese Hi Lite Next perché il mio intento era quello di utilizzare essenziali pennellate luminose per un fronte che nel tempo aveva subito un’immeritata penombra. Ho poi studiato a lungo con la Soprintendenza la dicitura più appropriata che non riprende affatto (alcuni l’hanno scritto!) quella originaria di cui non abbiamo trovato alcuna traccia. Piuttosto la dicitura “CINEMA FULGOR”, inserita tra le svettanti lanterne recuperate, è il risultato della mia rielaborazione (realizzata in acciaio cor-ten e retroilluminata) dei caratteri e dei corpi tratti da un noto fotogramma di Amarcord ove la scritta compare su due allineamenti sovrapposti.
Accanto agli ingressi del corso d’Augusto torneranno anche le quattro bacheche che ho disegnato per ricomporre l’immagine originaria della deliziosa facciata.
Proseguo segnalando l’importanza ed il ruolo del cavedio esistente (affiancato da un’ulteriore grande asola) prossimo al vicolo Valloni, ove si svolgono i collegamenti degli impianti tecnologici allacciati alle centrali ubicate sia nell’interrato della piazzetta san Martino sia nella copertura sovrastante.
Lo stesso ingresso sulla piazzetta, dove avevo previsto la ricezione ed il bookshop, è illuminato dal cavedio nel cui tamponamento esterno ho praticato una sequenza di feritoie quadrate a sottolinearne un ruolo e non più una cesura nell’edificio.
Infine suggerisco di prestare attenzione al disegno delle porte interne a tutta altezza rivestite dal laminato cannettato grigio con al centro una sottile asola verticale, alle ampie lastre di granito grigio ricomposto con inserti brillanti degli atrii e delle scale, all’austera essenzialità dei corpi illuminanti a disco opalino, al disegno dei pavimenti in cotto ed ai rivestimenti con fresature orizzontali dei servizi igienici. Questi – ove le dimensioni l’hanno consentito – non presentano affatto il bagno distinto e dedicato ai disabili, piuttosto ho preferito che ciascuno dei servizi fosse fruibile da tutti, dai disabili e dai supposti sani, indifferentemente.

La dicitura “CINEMA FULGOR” è il risultato della rielaborazione, realizzata dall’arch. Matteini, dei caratteri e dei corpi tratti da un noto fotogramma di Amarcord.

Ci può descrivere anche la sala del Cinema Fulgor e degli spazi cui si accede dai tre ingressi della facciata che lei fino ad ora ha trascurato?
Non avrei certamente trascurato questa parte fondamentale dell’edificio, ma ho voluto prima evidenziare la complessità dell’intervento di ristrutturazione che avevamo progettato e che ora si è concluso con la consegna alla città (che era oramai giustamente incredula) di un edificio di quattro piani completo di ogni dotazione tecnologica, versatile nell’utilizzo, rigoroso nell’assetto distributivo degli spazi, rispettoso delle preesistenze ed equilibrato nei materiali e nei colori.
Troppo spesso, infatti, si tende ad identificare questo edifico tanto vasto e tanto importante del nostro centro storico, con la pur celeberrima sua sala cinematografica.
L’atrio di corso d’Augusto, con i tre ampi ingressi visivamente permeabili dall’esterno e che immette nelle due sale cinematografiche, è il risultato dell’ardito svuotamento di parte del volume interno. Sono sempre stato convinto che fosse opportuno compiacere le aspettative di chi sarebbe entrato, mediante un’architettura dalle dimensioni inaspettate. Ho quindi volutamente enfatizzato questo spazio fino al coinvolgimento delle feritoie storiche della facciata poste lassù in alto e prima occultate, delineando un’esplosione progettuale inaspettata per chi accede, mediante l’incastro, ad una prima quota, degli aggetti arrotondati dei servizi igienici della galleria e, al livello superiore, delle grandi pareti spigolose e incombenti della cabina di proiezione.
Questa sovrasta, delimita, quasi protegge, la rampa che conduce alla galleria e che mi è piaciuto nominare “scala Gradisca” in quanto l’esigenza sia di contenere gli svariati gradini in una superficie esigua, sia di delimitare la parete della scala a chiocciola diretta alla cabina di proiezione, ha suggerito un andamento sinuoso quasi magicamente in assonanza con l’indimenticabile seno del personaggio felliniano. Il percorso ascendente alla galleria consente, pur in una dimensione contenuta, di osservare e sperimentare lo spazio monumentale dell’atrio con la convinzione che gli elementi architettonici debbano essere preponderanti rispetto a quelli di arredo.
Nell’atrio abbiamo anche realizzato le zone della biglietteria, del bar, dei relativi servizi, dei depositi, oltre che dei servizi igienici per il pubblico che fiancheggiano l’accesso alla nuova e piccola sala cinematografica prospettante sulla via Verdi, definita nel progetto “Sala B”, ma che di certo avrà un nome appropriato.
Il suo allestimento interno l’aveva disegnato inizialmente Dante Ferretti e poi era stato richiesto un nuovo progetto al mio studio per il quale avevo ricevuto troppi apprezzamenti, tanto che verrà realizzato quanto proporrà la società vincitrice dell’appalto per la gestione.
Della sala del Cinema Fulgor va anzitutto sottolineato che il suo unico ingresso si apre proprio nell’originaria ubicazione e al di sotto dell’accesso alla galleria il cui aggetto accentua la suggestione che l’ambiente ristrutturato manifesta con l’elevata altezza dei controsoffitti e l’andamento rastremato delle pareti laterali, ora scandito dalle svettanti colonne metalliche che fiancheggiano le paraste per decenni occultate dai tendaggi.
Le colonne circolari, nelle antecedenti versioni del progetto, avevano una funzione strutturale che visivamente richiamava quelle in fusione di ghisa tipiche di tante sale pubbliche dell’inizio del Novecento. Non ho ritenuto di eliminarle neppure quando la normativa antisismica orientò gli ingegneri Cicchetti verso l’utilizzo delle fibre di carbonio, in quanto esse, articolando il ritmo delle pareti, avrebbero costituito l’elemento caratterizzante della sala cui si sarebbero agganciate le austere pannellature fonoassorbenti.
Ritengo infine che anche l’uniformità rosso-corallo del pavimento in gomma con i lievi decori antisdrucciolo della sala, contribuisca a sottolineare quanto abbia privilegiato il rigore formale alla spettacolarizzazione.

L’arch. Matteini non ha però gradito il rivestimento delle pareti dell’atrio: “Proprio non condivido la scelta dei materiali e dei colori”.

Come si è inserito l’allestimento dello scenografo Dante Ferretti nell’ambito del suo progetto?
Con Dante Ferretti, fin dal nostro primo incontro del 2006 presso il suo studio di Cinecittà, si è fondato un rapporto di franca collaborazione.
Ricordo ancora quando, sceso dall’auto che mi aveva prelevato all’aeroporto e dopo averlo salutato, nell’intento di avviare il dialogo, azzardai le notazioni che eravamo quasi coetanei e – che romagnolo io e marchigiano lui – eravamo nativi di terre proprio attigue. Ferretti, di certo consapevole di un noto adagio riminese, mi manifestò quasi le proprie scuse precisando, con gradevole ironia, che gli era impossibile essere…perfetto!
Egli mi prospettò la propria soluzione e sono stato soddisfatto che Ferretti abbia rispettato il mio progetto architettonico con l’allestimento relativo sia al rivestimento delle pareti dell’atrio (con materiali e colori che proprio non condivido), sia alle pannellature multicolori con i grandi corpi illuminanti della sala cinematografica, foderando quindi l’architettura da noi realizzata nell’intento di creare uno spazio da lui definito “romagnol-hollywoodiano”.
Ho invece gradito meno che nella fase esecutiva si siano modificate incongruamente le altezze di alcuni volumi dell’atrio già realizzati e coerenti con gli obiettivi progettuali.
Il coinvolgimento di un personaggio di fama quale lo scenografo Dante Ferretti ha comunque costituito un’indubbia promozione per il nostro intervento di ristrutturazione del Palazzo Valloni e per l’immagine felliniana di Rimini.

Quali riscontri ha avuto dai visitatori del cantiere durante la fase conclusiva dei lavori quando ancora tutto appare molto informe?
Con inevitabile disagio non ho potuto personalmente accondiscendere che a poche delle svariate richieste di visionare insieme a me il cantiere. Le notazioni calorose di amici che avevano condiviso il mio antico impegno tra i quali Giuseppe Chicchi, Alberto Ravaioli, Nando Piccari, Rosita Copioli, Paolo Zaghini, Nicola Sanese, Francesca Fabbri Fellini, Graziano Villa, Massimo Succi, Giancarlo Ramberti, mi hanno lusingato molto.
Le emozioni più grandi le ho tuttavia ricevute da Lorenzo e da Rebecca, i miei giovanissimi nipoti figli di Gaia e di Andrea Pernici, ogni volta che si sono come impossessati degli spazi dell’edificio sciorinando domande ed esprimendo bizzarre congetture sui locali e sul loro assetto distributivo.
A Lorenzo, con accanto Rebecca, nel nostro ultimo sopralluogo è caduta una moneta di un euro proprio all’interno della muratura della “scala Gradisca” e plateale è stato il suo disappunto nell’accorgersi che sarebbe stata irrecuperabile. Per me è stato invece un rito tanto inaspettato quanto gradito, perché insieme abbiamo affidato un ricordo tangibile che ci accumunerà per sempre in un punto mai più raggiungibile da alcuno e che solamente noi conosciamo.
Mi pare costituisca proprio lo splendido epilogo non soltanto di una storia iniziata da oltre quarant’anni, ma anche di un’intera vita professionale.

Fotografia d’apertura: l’architetto Annio Maria Matteini e l’ingegnere Massimo Cicchetti nell’estate del 2013 durante il restauro della facciata principale.

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