La statua di Cesare vittima di un “talebanismo” antistorico

La statua di Cesare vittima di un “talebanismo” antistorico

«Il fascismo va combattuto nelle idee e nei modus operandi, non avversando le opere nate in quel periodo storico». Non tutti i partigiani la pensano come l'Anpi di Rimini. Anche perché in alcuni casi hanno le loro sedi in palazzi nati sotto il regime. E il sindaco di Bologna, dove il nome di Mussolini è legato a ben più di una statua (gode della cittadinanza onoraria), di recente ha parlato di “scelte che appartengono alla storia..."

All’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) di Rimini la lega proprio non va giù. Non mi riferisco a quella capeggiata da Matteo Salvini, ma a quella composta da rame e stagno che origina il bronzo. O meglio, “un” bronzo. Quello che rappresenta Giulio Cesare, tuttora presso la caserma dell’Esercito Italiano in via Flaminia. Nella città che ha subìto tra i più massicci bombardamenti della seconda Guerra Mondiale, che si è meritata la medaglia d’oro al valor civile con la motivazione «Fedele alle sue più nobili tradizioni, subiva stoicamente le distruzioni più gravi della guerra per la liberazione, attestando, con il sacrificio eroico di numerosi suoi figli, la sua purissima fede in un’Italia migliore, libera e democratica», si ha paura di una statua. Si teme che la fusione bronzea donata da Benito Mussolini alla città di Rimini nel 1933 possa offuscare e offendere la memoria dei tre giovani giustiziati nella piazza, a loro in seguito intitolata. La stessa piazza che un tempo fu dedicata a Giulio Cesare, il generale che diverse manciate di secoli prima calpestò il selciato del foro riminese che da quel preciso istante è entrato e sarà ricordato in tutti i testi di storia. Perché mai si dovrebbero voltare le spalle alla Storia? Non si capisce il motivo per cui una statua, memoria di un evento epocale per la città, dovrebbe ledere il ricordo del sacrificio dei tre giovani partigiani.
La travagliata vicenda del tormentato condottiero romano sembra non avere mai fine. Del resto, tutto pare dipendere dall’autolesionismo da “distruzione e smantellamento” che ormai in forma cronica, affligge Rimini da tempo immemorabile. Ne spiego il motivo.
Causa un fastidioso senso di nausea, non cito nemmeno i recenti interventi patiti dalla Rimini malatestiana, ma vorrei subito ricordare il Kursaal, per esempio, distrutto per volontà della giunta capeggiata dal sindaco Cesare Bianchini, del quale si ricorda ancora la scellerata frase con la quale descrive l’opera datata 1873 dell ‘ingegner Gaetano Urbani: «una bruttura che è d’uopo eliminare». L’ispirato sindaco non interviene neppure quando gli operai prendono a picconare l’edificio perché bisognosi di occupazione, pur mancando ancora l’autorizzazione ufficiale all’abbattimento, la qual cosa equivarrebbe a spararsi nelle mutande per far lavorare un povero chirurgo urologo, disoccupato. Ma, come da molti sostenuto, per scelta ideologica (tanto per cambiare) urgeva eliminare il pregevole simbolo balneare dell’aristocrazia e dell’alta borghesia per dar luogo come in effetti avverrà, nel volgere di pochi decenni, al turismo di massa. Circa sei anni dopo è il turno della fontana dei quattro cavalli, opera di Filogenio Fabbri, inaugurata nel ’28. Smembrata e abbandonata a sé stessa, il recupero e la ricollocazione avvenuta nel 1983 si deve solo alla volontà della figlia e all’indomabile spirito del valoroso Umberto Bartolani. Successivamente, nel 1963 viene fatto fuori anche lo sferisterio, e nello stesso periodo la bella villa Sartoni parco compreso. Poi si fa tabula rasa della fornace Fabbri, importante testimonianza di archeologia industriale, mentre va rimarcato il mancato recupero (in perpetuum) dell’anfiteatro romano ostaggio di un centro educativo (il CEIS) così come due bronzi ottenuti dai calchi di statue romane donate, non dal capo del fascismo, ma dall’imprenditore mecenate Valducci, che stanno a marcire in un deposito comunale insieme con quelle degli scultori (contemporanei) Viani e Vangi cui fa compagnia una testa vandalizzata del collega Castagna. Infine, ricordo il tentato cesaricidio “nostrano” del dopoguerra con la nota vicenda del sotterramento, ritrovamento, “asilo” in caserma ed ora paventato “esilio” nel lapidario. Di autolesionismi da elencare ce ne sono molti altri. Mi fermo qui per non annoiare ulteriormente i lettori.
Per fortuna, il mondo non è popolato solo da chi ama martoriarsi le parti a cui ho accennato in precedenza. La Fontana dei Cavalli Marini all’interno dei giardini di Villa Borghese, voluta dal munifico mecenate romano Marcantonio IV Borghese, viene realizzata nel 1791 dallo scultore Vincenzo Pacetti su progetto di Cristoforo Unterperger, apprezzato pittore tirolese e autore delle decorazioni dei più prestigiosi palazzi della Roma settecentesca. Ebbene, in Libia esiste una fontana gemella a quella della Capitale. Si trova a Tripoli in piazza Dei Martiri, già piazza Italia durante il periodo coloniale italiano. La scultura è un dono di Mussolini che risale al 1926. Credete che quella fontana sia ancora al proprio posto nella piazza? Certo, è tuttora là che zampilla. È evidente che il popolo libico ha saputo discernere un’opera d’arte da un presunto “simbolo”. Ma l’intelligenza non ha confini fisici e tantomeno politici sicché mi preme sottoporre all’attenzione del lettore un’intervista del 22 giugno scorso al sindaco di Bologna Virginio Merola (prima PCI, poi PDS, DS e ora PD), non esattamente un simpatizzante della destra più estrema, per intenderci. Come ultima domanda il giornalista del Corriere Bologna pone questa: «L’ANPI è tornata a chiedere il ritiro della cittadinanza onoraria a Mussolini. Lo farete?». Risposta: «Nel 2014 sostenni la proposta di Critelli ma il Consiglio comunale non ha proceduto con la revoca per altri motivi. Visto quello che sta succedendo nel mondo, dove si cancellano statue od opere, credo sarà molto più educativo ricordare i giorni in cui Bologna prese una scelta del genere. A Bologna abbiano via Stalingrado e viale Lenin, oggi faremmo diversamente, ma si tratta di scelte che appartengono alla storia». A Bologna, Mussolini ha avuto la cittadinanza onoraria, non una semplice statua donata dal capo del governo Mussolini, ma anche di fronte alla cittadinanza onoraria il sindaco del Pd dice in sostanza che non darà seguito alla richiesta di ANPI. Appunto. “Scelte che appartengono alla storia…”.
Nel 1933 la stragrande maggioranza degli attuali cittadini riminesi non era neppure nata e a parte questo, sono certo che essi non identifichino la statua del Cesare con Mussolini, bensì molto semplicemente con l’epica figura di un grande condottiero e con l’altrettanto gloriosa Storia, scritta con lettera maiuscola, della propria città. Per concludere, il sostegno al concetto condiviso da moltissime persone di eterogenei ceti ed estrazioni sociali, a ribadire che le colpe appartengono agli uomini e non agli oggetti, arriva dall’ANPI. Ma non quella di Rimini.
Qualche giorno fa, dopo il comunicato stampa del 12/06/2021 a cura dell’ANPI locale, ho spedito un’e–mail volutamente provocatoria al vicepresidente provinciale e presidente di una delle tante sezioni nazionali della medesima associazione, chiedendogli se non si sentisse in imbarazzo ad occupare un locale sito all’interno di un palazzo di epoca e costruzione inequivocabilmente fascista. Per sintesi, riporto solo le frasi più significative della sua risposta: «Secondo la tua logica dopo il 25 Luglio del 43 oltre che le statue del duce andavano abbattute tutte le opere pubbliche, strade, ponti, edifici ecc., realizzate durante il ventennio? L’EUR a Roma andrebbe raso al suolo? Così come lo Stadio dei Marmi adiacente allo Stadio Olimpico anch’esso edificato nel ventennio, dove in questo momento i nostri moschettieri del calcio stanno onorando i nostri colori nazionali? L’ANPI è un’associazione democratica, figlia della Resistenza e della Lotta di Liberazione, garante e sentinella del nostro sistema democratico, essa per sua natura è antifascista ritenendolo un crimine al pari del nazismo. Il talebanismo non è parte della nostra essenza, perché è un disvalore che ci accomunerebbe a modus operandi e logiche che dalle radici delle nostre origini abbiamo sempre combattuto. Il fascismo va combattuto nelle idee e nei modus operandi, non avversando opere murarie realizzate con il contributo di validi architetti che piaccia o non piaccia hanno fatto la storia dell’urbanistica italiana per un periodo del secolo scorso». Queste le parti essenziali della replica.
Le parole di buonsenso del presidente di sezione ANPI sono risolute, inequivocabili e libere da briglie archeo/ideologiche. E da queste affermazioni, logiche e ragionevoli, si deduce che la statua di Giulio Cesare vada esclusivamente considerata per quello che è: un’opera d’arte. Per concludere, e per i pochi che ancora non ne conoscessero la storia, il Giulio Cesare di bronzo è una delle diverse copie di un marmo capitolino realizzate dalla famosa fonderia napoletana Laganà. Mussolini lo regalò al liceo classico romano che porta il nome del Generale e a varie città italiane dove tuttora sono esposte, ovunque in luoghi centrali e con orgoglio, tranne che a Rimini dove a detta dell’Amministrazione, la locale Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio esige che il bronzo romano finisca internato presso il lapidario del Museo comunale (un controsenso ben definito dalla Treccani: [dal lat. lapidarius, der. di lapis -ĭdis “pietra”]), quasi a voler essere celato alla vista di cittadini e turisti. Che la decisione sia della Soprintendenza è peraltro smentita dal comunicato dell’ANPI di Rimini in cui si afferma che «[…] Per questo, bene ha fatto l’assessore alla Cultura Piscaglia e l’Amministrazione comunale a decidere di collocare la statua all’interno del Lapidario […]»). Dove sta la verità? ANPI Rimini e Palazzo Garampi farebbero bene a concordare preventivamente la versione da dare. Comunque sia, le statue realizzate dalla fonderia Laganà rappresentano Giulio Cesare, non Benito Mussolini. E i cittadini di Rimini, compresi studiosi e intellettuali di chiara e granitica fama “antifascista”, la rivogliono vedere nella piazza perché essa appartiene alla Storia della loro città non da 88, ma da 2070 anni.

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