L’Anfiteatro? Facciamone un antro per i poeti. Nel nome di Derek Walcott

L’Anfiteatro? Facciamone un antro per i poeti. Nel nome di Derek Walcott

Ieri è morto il titanico poeta caraibico e Nobel per la letteratura. Che nel 2003 venne a Rimini come protagonista del Festival del Mondo Antico. Più ‘romano’ dei riminesi, stava comodo nell’Anfiteatro. Ed è lui a suggerirci la soluzione per quel sito a lungo bistrattato: un luogo dove si fagocita e si facilita la poesia. Perché solo i poeti sanno dare vita ai morti, alle pietre avariate dal tempo.

Cronaca di una giornata qualunque. A las cinco de la tarde mi telefona Luigi Mascheroni, il duca della redazione milanese de il Giornale, il giornalista più cinico e dandy che conosca, un amico, insomma. “Tutto bene? Sai, è morto Derek Walcott”. Capisco. Non mi telefona certo per ragionare sui legami tra il poeta caraibico e Dante. Rispondo con allegria. “Tu sei l’unico poeta che conosca che si rallegra per la morte di un poeta…”, fa lui. Certo, dico io, uno in meno nella corsa verso l’eternità lirica. In realtà, sono un po’ il Caronte dei poeti. Quando c’è da scrivere il ‘coccodrillo’ di uno di loro, mi chiamano. Avrò messo fiocchi verbali sulla tomba di non so quanti poeti. Comunque. In una manciata di ore espleto il compito. Poi accendo la tivù. Chissà cosa dice Mamma Rai di Derek Walcott, il più grande poeta in lingua inglese del millennio, autore di un testo pazzesco e muscolare come Omeros (ottomila versi suddivisi in abbacinanti terzine dantesche), pubblicato in lungo e in largo dall’editore più figo d’Italia, Adelphi, per altro Premio Nobel per la letteratura nel 1992. Niente. Non dice niente. Discettano di voucher aboliti (pensate solo ai soldi e allo stomaco, gente, così non date problemi a chi vi governa con il frustino…), dell’incontro rugginoso tra Donald Trump e Angela Merkel, della Juventus che ai quarti ha incocciato il Barcellona. Insomma, quisquiglie. Detto senza nobiltà, cazzate. Continuiamo a occuparci del particolare senza fare i conti con gli assoluti, mi dico, pensando all’Italia, un tempo – nel mondo dei sogni – terra di navigatori, avventurieri e poeti, oggi landa di corrotti, di pre-pensionati nell’anima, di minchioni che leggono – se va bene – la rosea Gazzetta. Per altro – alzando il tiro del ragionamento – penso che se non hai letto Omeros o – meglio ancora: è più breve e più bello – Prima luce, che sono le opere somme di Walcott, come puoi governare un Paese? Come puoi possedere l’energia, lo sguardo, la violenza per incidere nella Storia e non restare una nota a margine negli annali parlamentari? Tra l’altro, credetemi, meglio Walcott di Calvino o Pasolini, è più utile alla crescita dei nostri figli, è una perpetua ispirazione alla vita e alla follia. Ma figuriamoci, gli insegnanti di inglese, oggi, sanno a mala pena chi sono Thomas S. Eliot e Ezra Pound, si fermano sulla banchisa dell’ovvio, poveri liceali.
Va bene, direte voi, con le palle ruggenti, ma che c’entra Walcott con Rimini? Tutto. Walcott, in effetti, ci spiattella la soluzione riguardo a un interrogativo lampante: che ce ne facciamo dell’Anfiteatro romano? Seguitemi. Era il 4 luglio del 2003. Derek Walcott atterrava a Rimini, come protagonista del Festival del Mondo Antico che allora si chiamava “Antico/Presente”. Insieme a lui, un parterre di lusso. Il superprof Luigi Sampietro, contornato da uno stuolo di poeti, Valentino Zeichen, Paola Malavasi, Patrizia Valduga. A giostrare gli ospiti, Ennio Cavalli. L’evento accadde, appunto, all’Anfiteatro romano. Luogo nel quale il caraibico Walcott, coltissimo, stava a suo agio, meglio di tanti riminesi. Perché? Beh, perché i poeti sanno dare i nomi alle pietre mute, sanno battezzare di volti i secoli e rinnovare le memorie defunte. Fu un evento capitale, in un momento centrale della presenza ‘italiana’ di Walcott: proprio quell’anno, infatti, Adelphi aveva pubblicato Omeros, l’opera-mondo con cui il poeta rinverdiva le spoglie del mito in salsa contemporanea, pubblicato nel mondo civilizzato (Usa) nel 1990, la chiave che disserrò il voto dei pallidi, impalpabili accademici svedesi consentendo a Derek il Nobel. I legami tra Walcott e l’Italia sono molteplici: non si limitano a Dante – che gli ha slacciato il verso – e a Tiepolo – il pretesto per il suo poema più raffinato ed ermetico, Il levriero di Tiepolo. Uno dei testi più scintillanti di Walcott s’intitola Egloghe italiane ed è dedicato all’amico Josif Brodskij, poeta russo in esilio da Madama Urss – lo processarono per ‘parassitismo sociale’ – negli Usa dal 1972, morto nel 1996 e sepolto a Venezia, verso cui aveva un amore ossessivo. Brodskij e Walcott, ironia del destino, si erano conosciuti su una tomba. Quella del poeta Robert Lowell. Questa volta, nella poesia, è lui, il poeta dei Caraibi, a far tappa sulla tomba di Brodskij. “Ho vagato per i libri-cimitero fino all’Atlantico, le cui sponde/ inaridiscono, sono un’aquila che ti riconduce verso la Russia,/ stringo negli artigli la ghianda del tuo cuore”. Walcott, nella poesia, descrive le sue peregrinazioni tra Mantova e Roma (“Anche se il paesaggio lenisce/ l’esilio che hai condiviso con Ovidio, la poesia resta tradimento/ perché è verità”) fino all’Adriatico (“il mare/ fa frusciare le pagine del suo messale, ogni tronco una lettera/ ornata di frutti e viticci come un breviario”), fino a Venezia. Per questo Walcott, di impeccabile eleganza, più ‘romano’ dei riminesi, stava comodo nell’Anfiteatro, in quel micidiale 2003: nei suoi occhi si radunava la storia di Roma e di Atene, la quadreria cinquecentesca, lo schiavismo caribe, la ferocia dei re e dei governi che vincono, spappolano e passano – e la poesia resta, cosa suddivisa tra i pochi e tra i pari, briciola di luce per i rari, a declamare l’uomo a decantarne il destino. Proprio lui, Derek Walcott, nato a St. Lucia, la sua Itaca, nel 1930, e morto – ma mai morto – a 87 anni, ha la soluzione per l’Anfiteatro. Non fatene un museo ‘a cielo aperto’, per carità, ci basta la noia basita della Domus del Chirurgo. Bisogna farne un antro per i poeti. Un luogo dove si fagocita e si facilita la poesia. Perché solo i poeti sanno dare vita ai morti, alle pietre avariate dal tempo.
Ma ora, mi domando, morto Bonnefoy – un fan del Trecento riminese, per altro – morto Seamus Heaney – un allievo, lo diceva lui, del Pascoli – morti i titani della poesia occidentale, chi riuscirà, con la leggera eleganza di un airone, a portare il cuore di Walcott nei regni al di là di questo?

Davide Brullo

© Anfiteatro romano, fotografia di Gianluca Moretti

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