L’anfiteatro romano aveva un sistema di smaltimento delle acque che confluivano nell’Ausa

L’anfiteatro romano aveva un sistema di smaltimento delle acque che confluivano nell’Ausa

Non solo dotato di una provvista dell'acqua nel portico esterno, ma anche di un complesso di condutture che portavano le acque piovane dai piani superiori al piano terreno, incanalandole dentro chiaviche; quella centrale permetteva di farle confluire fino al torrente «che corre a poco più che cento metri a levante dell'edificio». La storia dell'anfiteatro, spiegata nei dettagli dal soprintendente Aurigemma, si arricchisce di nuovi tasselli, che il "Rubicone" nel 1934 omise di pubblicare.

L’enorme interesse suscitato dalla pubblicazione dell’articolo del soprintendente Salvatore Aurigemma che comparve sul Rubicone del 1934, e le richieste che ci sono pervenute, finalizzate a capire se l’articolo originario uscito su Le vie d’Italia (rivista mensile del Touring Club e «organo ufficiale dell’Ente nazionale per le industrie turistiche»; notare che all’epoca il turismo era considerato “industria”, e dunque si è camminato all’indietro se è vero che oggi molti addetti ai lavori denunciano il fatto che il turismo non viene considerato, tanto più nei fatti e nelle politiche nazionali, una industria strategica) del 1933, contenesse parti di rilievo che furono omesse dal mensile riminese, ci spinge ad integrare quanto abbiamo messo online ieri su Rimini 2.0.

Il numero del periodico del Touring che ospitò l’articolo di Salvatore Aurigemma.

Il numero de Le vie d’Italia, che all’epoca dichiarava in copertina la bellezza di 185mila copie distribuite, che diffuse l’intervento di Aurigemma è quello di giugno (n. 6) 1933.
Il titolo del lungo articolo di otto pagine (che riproduciamo in fondo) era “L’Anfiteatro Romano di Rimini”, con un occhiello significativo: «Un altro monumento da redimere».
La redazione del Rubicone ripropose la gran parte del lavoro di Aurigemma, ma ne tagliò alcune di estrema importanza. La prima parte risulta integrale, ma subito dopo l’accenno agli orti e alla casa colonica, «l’ultimo avanzo o l’ultima trasformazione di un convento di monaci un tempo qui appunto costruito», proseguiva così: «A chi si fosse aggirato per quegli orti nulla indicava che essi insistevano sui ruderi di un antico edificio. Ma a chi si fosse fatto a rimirare il muro urbano dal lato esterno, e cioè dall’area oggi occupata dal piazzale dei binari della ferrovia Rimini-Mercatino Marecchia, avveniva facilmente di notare che le mura piegano in una larga curva, e che nella curva – di cui lo sviluppo si segue per 63 metri – appaiono grandi arcate ostruite, e tra arcata e arcata pilastri reggenti una semplice e severa trabeazione di ampio sviluppo. Le arcate e la trabeazione sono quelle dell’antico anfiteatro romano, e la sobrietà e l’eleganza delle linee architettoniche dicono a primo aspetto che l’edificio non disdirebbe all’età che seguì immediatamente il tramonto della Repubblica, all’età stessa, cioè, cui appartengono l’Arco di Augusto e il ponte di Tiberio».

Un altro inciso venne saltato dal testo impaginato sul Rubicone, presumibilmente per ragioni di spazio. Dopo il riferimento ai disegni di Onofrio Meluzzi, collaboratore di Luigi Tonini e di Marco Capizucchi nella direzione dei saggi condotti negli anni 1843 e 1844, compariva su Le vie d’Italia una intera pagina che è stata omessa, e che era a dir poco decisiva perché toccava fra l’altro anche il tema del trattamento delle acque dell’anfiteatro:

«Son poi da ricordare per l’anfiteatro di Rimini il sistema di provvista dell’acqua che metteva capo a quattro vaschette o fontane in terracotta nell’ambulacro o portico esterno dell’edificio, e, in modo ancora più speciale, il sistema di smaltimento delle acque, ottenuto mediante un complesso di condutture, che portando dai piani superiori dell’anfiteatro le acque di displuvio al piano terreno, le incanalava dentro chiaviche (visibili nei sottoscala delle gradinate a doppia rampa), e di lì le avviavano per mezzo di canali entro lo spessore del terzo anello ellittico, in direzione dell’arena. Una chiavica centrale (che doveva attraversare l’arena o esser costruita lungo la periferia interna dell’arena stessa) portava, come è verosimile, tutte le acque affluenti nell’anfiteatro fino al torrente Ausa che corre a poco più che cento metri a levante dell’edificio.
Ciò che colpisce a primo aspetto nell’anfiteatro di Rimini è la rifinitura dell’opera laterizia. In mattoni a faccia vista è il paramento dei pilastri delle sessanta arcate che costituiscono l’anello esterno dell’anfiteatro, e altresì il paramento di tutti gli altri muri ellittici e radiali. In cotto sono ottenute anche le basi, i fusti e i capitelli delle paraste in risalto sulla fronte delle arcate, e gli elementi della trabeazione sorretta da quelle arcate; la pasta figulina, in terra fine di un bel color giallo o rosso scuro, ha retto egregiamente a ogni ingiuria del tempo.
Ora la finitezza dell’opera laterizia appare veramente singolare; e non solo nelle parti dell’edificio destinate ad essere viste (arcate esterne, trabeazione e sovrastante paramento della facciata, corridoi, pareti delle gradinate ecc.), ma anche in ogni altro vano da cui il pubblico era escluso, come i sottoscala. Se esemplare si può chiamare una cortina laterizia, questa è appunto quella dell’anfiteatro di Rimini.
Quanto alla struttura interna dei muri, essa risulta in opera cementizia, e cioè in un conglomerato di ciottoli annegati in una calcina durissima; i mattoni fan solo da paramento; e non sono mattoni interi, ma mattoni a sagoma rozzamente triangolare ottenuti spezzando diagonalmente in quattro parti un mattone quadrato; ad ogni ottavo filo della struttura e a render questa più compatta sono posti in opera dei quadrelloni di m. 0,45 per 0,32 x 0,06 penetranti nel nucleo, al modo stesso della struttura a lorica testacea della Domus Tiberiana del Palatino. Come aspetto esteriore – ed anche forse per ciò che riguarda le vicende dell’edificio – nessun anfiteatro richiama alla mente quello di Rimini quanto l’Anfiteatro Castrense di Roma. Interamente in laterizio è costruito anche questo, e come l’anfiteatro di Rimini esso ebbe le arcate occluse, perché l’edificio venne a far parte della cinta di mura di Aureliano. Solo che, in luogo delle paraste, le arcate del portico inferiore dell’Anfiteatro Castrense hanno semicolonne in cotto, coronate da un capitello corinzio, mentre le paraste trovano impiego, per lo stesso anfiteatro, nell’ordine superiore della struttura, di cui son rimasti miserevoli avanzi, e sopra il quale non si ritiene vi fossero ulteriori piani.
A Rimini, oltreché la finezza dell’esecuzione dell’opera laterizia, colpisce nell’anfiteatro il largo impiego e la rifinitura degli elementi lapidei. La pietra d’Istria viene adoperata nei gradini della rampa d’accesso ai piani superiori, e, certo, anche in altre parti della struttura dell’anfiteatro. Di tale largo uso della pietra d’Istria non è a stupire. Dotata com’era la città di un porto fluviale che in antico era verosimilmente più attivo che oggidì, doveva affluirvi in copia il duro sasso della opposta costa istriana, sebbene, come è naturale, la costruzione in mattoni dovesse avere, per ovvie ragioni dipendenti dalla costituzione geologica della regione, tradizioni di antica data a Rimini.
Infine, in armonia con la rifinitura dell’opera laterizia e dell’opera lapidea, si è supposto dovesse essere di una certa nobiltà, nell’anfiteatro riminese, la sua decorazione interna. Poiché durante gli sterri operati negli anni 1843-1844, e specie in corrispondenza dello spazio dell’ampiezza di m. 8,40 compreso fra l’anello murario che circoscrive immediatamente l’arena quello successivo, si rinvennero frammenti di intonaco tirati a gran finitezza e di color rosso corallo: ciò che determinò nel Tonini il sospetto che gli ambulacri immettenti ai gradini della cavea più bassa fossero adorni di stucchi. Ma su ciò potranno gettar luce solo gli scavi sistematici qui non peranco iniziati».

Una delle fotografie che corredavano l’articolo, che riportava questa didascalia: “L’ingresso dell’anfiteatro a nord-est ad una delle estremità dell’asse longitudinale.

Ancora un altro passaggio omesso dal Rubicone:

«Se è incerta la data della costruzione dell’anfiteatro di Rimini, è anche incerta la data della occlusione dei suoi fornici e della inclusione dell’anfiteatro nella fortificazione cittadina. Chi attentamente osservi le vestigia dell’insigne edificio, noterà che la muratura in mattoni, che riempie i fornici, è abbastanza rifinita in taluni punti, meno accurata in altri punti, e che nella parte bassa dei fornici trovano impiego lastroni di pietra rozzamente connessi. Accanto ai pilastri occlusi (due, in tutto, e parte di un terzo, fin’oggi messi in luce) e in prosecuzione di essi, il muro urbano appare – là dove i fornici continuavano in direzione d’oriente – costruito di conci lapidei grossolanamente sovrapposti e sormontati da una muratura di mattoni. Parte delle arcate era dovuta dunque crollare, e all’atto del restauro non si pensò a ricostruirle, ma si rifece il muro, così come la fretta e i materiali che si ebbero sottomano suggerirono. Non senza grande verosimiglianza è stato affacciato il dubbio che questo crollo così completo e rovinoso sia dovuto a terremoti.
Comunque, l’occlusione dei fornici è anteriore al rifacimento totale del muro di cui si è innanzi detto, e tale occlusione si spiega sufficientemente col proposito di utilizzare l’anfiteatro per la murazione cittadina, così come si utilizzò in Roma l’anfiteatro castrense per quella parte delle mura urbane che Aureliano costruì presso l’odierna chiesa di Santa Croce in Gerusalemme.
Se anche in Rimini una tale utilizzazione sia stata determinata, come a Roma, dal pericolo imminente dei barbari, non è possibile dire, ma ci pare estremamente verosimile. L’Italia cominciò già nel secondo secolo dopo Cristo a correr nuovamente l’alea delle incursioni barbariche. Nel 169, dopo Cristo, i Quadi e i Marcomanni cinsero d’assedio Aquileia e incendiarono Opitergium; ma Aquileia resisté, e Marco Aurelio, postosi a capo dell’esercito, poté ricacciare i Germani. Ben più terribili furono nell’età di Gallieno (a. 253-268) e nell’età di Aureliano (a. 270-275 d.C.) le minacce delle tribù germaniche contro l’Italia. Durante il principato di Gallieno gli Alamanni si avanzarono sino a Ravenna e di là minacciarono la stessa Roma. Nell’età di Valeriano gli stessi Alamanni scorrazzarono tutto il paese fra le Alpi e gli Appennini, e dopo aver inflitto un gravissimo scacco ad Aureliano in vicinanza di Piacenza, corsero la via Emilia e la via Flaminia sino a Fano, dove, presso le rive del quel Metauro che era stato già fatale al fratello di Annibale, l’imperatore Aureliano li sbaragliò, per finire di sterminarli poco dopo a Pavia (a. 271 d.C.).
Il gravissimo pericolo che corse allora la stessa Roma indusse Aureliano a difendere la capitale con la cinta delle mura che furon dette aureliane. E’ ben naturale che provvedimenti del genere si adottassero anche per altre città direttamente minacciate. La tradizione conservatasi nella vita leggendaria di San Marino, attribuisce la costruzione delle mura di Rimini a Diocleziano e a Massimiano, i grandi imperatori dello scorcio del terzo secolo dopo Cristo. Questa tradizione è da accettare come assai verosimile, nel senso che il rifacimento delle mura riminesi sia opera della seconda metà del terzo secolo o del principio del quarto.
Quanto all’anfiteatro riminese, di esso si finì per perdere, nei secoli successivi, ogni ricordo. La curva che l’anfiteatro fa nella fortificazione cittadina (dove la parte visibile ha uno svolgimento minore di quello di un semicerchio) fece pensare piuttosto a un teatro che ad un anfiteatro. In un rogito del notaio Giovanni Dolzoni, del 12 settembre 1486, vien segnato tra i confini di una certa proprietà il «muro antico» (della città) che gira in cerchio e che è edificato sui fondamenti del Teatro Antico: nei quali fondamenti appaiono dei fornici che vengon detti oggi volgarmente «Le Tane». «Tane» debbono intendersi i sottoscala delle gradinate a doppia tratta dell’anfiteatro.
Di poi, negli anni 1543-1544 allorché il papa Paolo III fece rifar questo tratto del muro cittadino «caduto per il troppo peso dei bastioni» si rimisero in luce alcuni muri dell’anfiteatro dal lato di levante, e in quella occasione si recuperarono «oggetti di marmo, di cui alcuni assai belli sono conservati nel palazzo del Comune, e altri e i più sono custoditi dai privati cittadini nelle loro case; fra gli altri una bella statua di Diana, priva della testa e delle gambe».
Tre secoli passarono prima che negli anni 1843 e 1844 il Tonini, con l’assistenza dei professori Marco Capizucchi e Onofrio Meluzzi, conducesse i suoi saggi. Quei saggi «interrotti e parziali» quali consentiva la modestissima somma a disposizione (in tutto scudi 88,95) diedero per la prima volta la certezza assoluta che l’edificio fosse – contro la opinione dello stesso Tonini – un anfiteatro, e non già, come da diversi si era sostenuto, un foro, o un bagno, o una dogana, o un semplice teatro.
Nel 1926, in occasione dei lavori di una società edilizia, lo Stato iniziò, col contributo del Comune di Rimini, la prima vera campagna di scavo nell’anfiteatro riminese. Con le opere allora eseguite – per le quali fu erogata una somma di più che 21.000 lire – si esplorò la fascia esterna dell’edificio per un arco d’ellisse che ha uno sviluppo di 80 metri circa, e una profondità di circa m. 10. Si mise completamente in luce l’ingresso dell’anfiteatro all’estremità Nord-Est dell’asse longitudinale, furono interamente esplorate e rese visibili tre scalee a doppia tratta, di cui due conducevano, da un lato e dall’altro dell’entrata di Nord-Est, dal piano terra – e precisamente dall’ambulacro del portico – all’altezza del primo piano dove correva la prima praecinctio; si liberarono i sottoscala delle gradinate di cui sopra, e si scoperse una delle gradinate a tratta unica, si rese visibile tutta la fronte interna del secondo anello della struttura muraria, così da poter studiare a suo tempo le successioni e i modi dei vari rifacimenti del muro urbano.
E durante e dopo i cospicui sterri che si fecero in quella occasione (il terreno asportato superò i 2400 metri cubi) si pose mano ai restauri più indispensabili delle murature».

“La parte dell’anfiteatro di recente messa in luce, a levante di uno degli ingressi”.

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