L’anniversario della morte di Margherita Zoebeli e la ferita dell’occupazione dell’area archeologica

L’anniversario della morte di Margherita Zoebeli e la ferita dell’occupazione dell’area archeologica

La biblioteca Gambalunga e l'amministrazione comunale ricordano che domani si festeggia la fondatrice del Ceis aprendo gli archivi che contengono importanti documenti. L'evento stride però con il privilegio di cui questa esperienza, seppure indiscutibilmente importante per la storia della città, continua a godere. A discapito di un bene culturale che deve essere restituito a tutti.

La Gambalunga rende omaggio a Margherita Zoebeli (Zurigo, 7 giugno 1912 – Rimini, 25 febbraio 1996) nel giorno dell’anniversario della morte della fondatrice del Ceis che cade domani. E lo fa aprendo la valigia dei documenti conservati nella biblioteca: «46 buste archivistiche, carte di lavoro, agende, lettere, appunti, opuscoli, ritagli di stampa, fotografie, onorificenze, medaglie», fa sapere l’amministrazione comunale. Attraverso la Gambalunga è il Comune di Rimini che incensa Margherita Zoebeli e la sua creatura.
«L’iniziativa di Margherita, ispirata da metodi educativi innovati, fece sì che Rimini diventasse nel corso degli anni un luogo di incontro e di ricerca della migliore cultura pedagogica internazionale. Nel 1963 il Comune di Rimini le attribuiva la cittadinanza onoraria per l’importante opera educativa svolta a favore della città. Molte le imprese documentate di Margherita, dall’aiuto rivolto a cento bambini in pericolo durante la guerra civile di Spagna del 1936, al soccorso prestato nel 1944 ai partigiani della Val d’Ossola attraversando più volte la frontiera in condizioni disperate per trasportare viveri e medicinali. Quando nel 1945 Margherita, incaricata dal Soccorso Operaio Svizzero, giunge a Rimini la città e la sua popolazione sono ridotte in uno stato compassionevole», così recita il comunicato di palazzo Garampi. «In un rapporto inviato a Zurigo, Margherita riferisce che la maggior parte della popolazione viveva negli scantinati, in primitivi rifugi tra le macerie o ammassata nei pochi edifici risparmiati dalla guerra. In pochi mesi nasce l’Asilo italo-svizzero. L’iniziativa di Margherita fa sì che negli anni il Centro educativo italo svizzero diventi un luogo di incontro e di ricerca della migliore cultura pedagogica internazionale, di medici, psicologi e pedagogisti provenienti da tutto il mondo, come Codignola, Borghi, Visalberghi, De Bartolomeis, Forel, Freinet. Nel 1976, in seguito al drammatico terremoto che sconvolge il Friuli, il Soccorso Operaio Svizzero incarica nuovamente Margherita di organizzare in quella regione la costruzione di una scuola materna e l’aggiornamento degli insegnanti. Nel 1982-83, già settantenne, decide di partire per il Nicaragua per un progetto di aggiornamento professionale per gli insegnanti delle scuole speciali».
La città è grata a Margherita Zoebeli per l’esperienza che avviò nel lontano 1946 a Rimini e che è proseguita negli anni con un luogo educativo apprezzato che ha sviluppato un aiuto concreto e qualitativamente apprezzabile a servizio dell’educazione e del sostegno a migliaia di bambini e alle loro famiglie. Su questo la coscienza comune è concorde.
Ma occorre essere altrettanto chiari e diretti anche sull’altra faccia della medaglia. Chi governa la città continua a sacrificare al Ceis un’area archeologica di primaria grandezza della Rimini romana, e questa scelta dell’amministrazione comunale e di chi guida l’asilo Italo-Svizzero è sempre meno accettabile e comprensibile. Anzi, appare sempre di più come un atto di forza che violenta la storia di Rimini e appare come ingiustificabile e gratuito, addirittura fastidioso perchè col passare degli anni assume i contorni del vestito del privilegio ritagliato su misura a beneficio di alcuni e non della città intera, che vorrebbe riappropriarsi dell’anfiteatro romano.
Che questa non sia invece l’intenzione del Comune di Rimini è ormai anche troppo chiaro. L’occasione dei fondi del Pnrr, che dovrebbero essere impiegati per progetti di eccezionale importanza e non per quelli di ordinaria amministrazione, sarebbe stata unica, e forse irripetibile, per pensare al trasferimento del Ceis in un luogo più idoneo e per riportare alla luce l’anfiteatro, come chiedono orami da decenni studiosi, archeologici, soprintendenti, intellettuali e comuni cittadini. Invece l’opportunità non viene colta, a quanto si conosce ad oggi, nemmeno stavolta. Ciò è profondamente sbagliato, ingiusto e privo di lungimiranza. Dal punto di vista del Ceis, insistere ancora nel voler mantenere la propria sede in via Vezia, suona anche come contraddittorio rispetto al ruolo pedagogico che si picca di personificare.
Lo ha scritto il prof. Giovanni Rimondini su Rimini 2.0: «Nel dopoguerra si accamparono nel giardino pineta degli anni ’30 le baracche di legno dell’Asilo Svizzero, benemerita istituzione educativa, ma senza il senso della storia e dell’archeologia, e anche della stabilità e del rispetto della legge. Perché tutti i bambini che hanno vissuto in un luogo dove non potevano stare per le leggi nazionali che proteggono le aree archeologiche e per rinnovati decreti di sfratto non rispettati avranno capito che da noi di fatto la cultura non è garantita dalle leggi che formalmente la proteggono».
Questa è la realtà, che opportunamente vogliamo ricordare nel giorno in cui si fa memoria di Margherita Zoebeli e del Ceis. Insieme ad una notizia di cronaca.
Nel 2015 a Volterra sono venute casualmente alla luce le tracce di un edificio di spettacolo. Non si è perso tempo. La Fondazione della Cassa di Risparmio del luogo attraverso il meccanismo dell’art bonus ha subito messo a disposizione 250mila euro per un primo saggio di accertamento. Si è proseguito nel 2016 e via via che gli scavi avanzavano, emergeva con sempre maggiore chiarezza la struttura di un anfiteatro a tre ordini di gradinate, risalente al I secolo d.C. probabilmente in epoca augustea, fino a quel momento del tutto assente dai “radar” dei beni culturali: «Stranamente nessuna fonte, antica o moderne, ricordava l’esistenza di questo imponente monumento», ha spiegato la Soprintendenza. E’ ormai stata identificata anche la dimensione presunta: circa 82 per 64 metri.
Naturalmente l’entusiasmo per questo rinvenimento è altissimo e pienamente fondato. Un imprenditore che gestisce un resort a Volterra ha donato 500mila euro per finanziare uno studio di fattibilità che dovrà definire la progettazione degli accessi a quest’area, destinata a diventare strategica anche per le attività turistiche, compresi i parcheggi. E il ragionamento non fa una piega: in Italia fra i primi tre luoghi più visitati (dati ministero beni culturali 2019, pre-pandemia) figurano il Pantheon (oltre 9 milioni di visitatori), il circuito archeologico “Colosseo” (circa 7 milioni e mezzo di visitatori) e l’area Archeologica di Pompei (circa 4 milioni).
A Volterra si è sviluppata una comunità di interessi intorno alla scoperta che viene amplificata anche da una pagina Facebook che informa sugli sviluppi e che in breve tempo è stata seguita da 18mila persone (si chiama “l’Anfiteatro che non c’era”).
Il ministro Dario Franceschini è stato da subito coinvolto. Si è recato sul cantiere, ha capito le potenzialità, è stato costantemente aggiornato sui lavori, ma soprattutto ha trovato un solido raggruppamento di enti che ha spinto il progetto con convinzione: dalla Soprintendenza di Pisa e Livorno alla direttrice scientifica dello scavo, dalla Regione Toscana al Comune e alla Fondazione, dall’Università al Cnr, compresi un po’ tutti gli attori del territorio. «Siamo di fronte ad una scoperta straordinaria ed incredibile per cui lavorano insieme Soprintendenza, Università e Cnr. Un esperimento di ricerca unica con uno scavo archeologico di questo genere, in cui vengono utilizzati tutti i nuovi strumenti all’avanguardia messi a disposizione dalla tecnologia», ha dichiarato il ministro. Ma non si è limitato a dichiarare perché ha sposato il recupero stanziando prima 4 milioni e mezzo di euro e poi altri 3 che rientrano nel piano strategico “grandi progetti beni culturali”. Questo succede a Volterra. Se c’è la volontà si lavora in questo modo. Applausi.

L’Anfiteatro di Rimini (117,7 per 88 metri) c’era e c’è. Figura anche nelle mappe della Rimini romana ma quando i visitatori si recano sul posto devono purtroppo constatare lo stato in cui versa la parte emersa e accontentarsi di quella. «Costituisce con l’Arco di Augusto e il Ponte sulla Marecchia il terzo fra i grandi monumenti romani di cui Rimini può a giusto titolo menare vanto”. Ne era ben consapevole Salvatore Aurigemma, che così si esprimeva nel lontano 1934. E’ l’unico anfiteatro in ambito regionale. «Sono così convinto che nel sottosuolo vi siano tuttora significativi resti di quelle fondazioni murarie, che quindi, una volta riportate in luce, permetterebbero di restituire la pianta completa dell’intero complesso. In tal modo se ne riconoscerebbe meglio la grande forma ellittica, caratteristica degli anfiteatri, e non quella dimezzata, semicircolare, che può indurre a confonderlo con un teatro. Inoltre, utilizzando in alcuni settori le più moderne tecniche di allestimento (ad esempio leggerissime strutture di metallo) sarebbe possibile richiamare visivamente anche l’alzato degli antichi muri». Lo spiegò il prof. Jacopo Ortalli nella intervista che concesse a Rimini 2.0.
Dopo che la stessa amministrazione comunale aveva rilevato abusi edilizi, era l’estate del 2018, tutto sembra essersi fermato. Sono piovute interrogazioni in Comune, in Regione e in parlamento, ma niente. Nel 2017 l’allora sottosegretario ai beni culturali di un governo di centro sinistra (Gentiloni), Ilaria Borletti Buitoni, rispondendo alla interrogazione del senatore Palmizio, disse che «le strutture del Ceis impediscono la piena fruizione di un monumento tanto significativo per la storia non soltanto riminese, nonché l’accesso da parte della cittadinanza ai valori storico-artistici di cui tali resti sono testimonianza». I tempi sono più che maturi per porre fine alla occupazione dell’anfiteatro romano. Ricordiamocelo oggi, domani, dopodomani e ogni giorno a venire, fino a quando non si riuscirà finalmente a voltare pagina.

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