«Pescatore di uomini sotto il cielo di Riccione»

«Pescatore di uomini sotto il cielo di Riccione»

Abbiamo chiesto a Ciro Picciano, autore della splendida canzone ("Il tuo popolo") dedicata a don Giorgio Dell'Ospedale, di ricordare l'amico e il sacerdote. Ne esce un "ritratto" approfondito, sfaccettato e vero, che rende ragione del grande séguito avuto in vita, ma attestato anche in occasione dei funerali, da questo «testimone irriducibile della fede e dell’amore».

di Ciro Picciano

Dopo aver ascoltato la canzone “Il tuo popolo”, che ho scritto il giorno successivo alla scomparsa del caro don Giorgio Dell’Ospedale, Claudio Monti con grande semplicità e cordialità mi ha chiesto di scrivere per questo giornale un “ricordo” della sua persona. Volentieri lo faccio.

Per evitare l’ingorgo nella folla dei pensieri che ‘pescano’ nel passato più prossimo e in quello remoto, ho deciso di attenermi alle parole della canzone, di cui citerò frammenti, così da essere guidato in modo più essenziale e composto nel ricordo di alcuni tratti della personalità di don Giorgio, così come l’ho conosciuta.

“Portavi la campagna/ scolpita nel tuo nome…”

Il nome ‘Giorgio’ ha radici antichissime: viene dal mondo greco e si traduce letteralmente con ‘agricoltore’. Un lavoro e una figura umana a cui quel popolo riconosceva dignità e grandezza, non solo perché produceva ricchezza, ma perché in qualche modo permetteva di mantenere un rapporto privilegiato col divino grembo della Natura ed esprimeva una religiosità che non veniva invece riconosciuta ad altri mestieri, considerati meno degni per l’uomo libero.
Ma al di là del nome, in don Giorgio c’erano, ancora vibranti, i caratteri propri della cultura contadina: spontaneità e riserbo, accettazione della fatica, pazienza nell’attesa del germoglio, solidarietà umana. Egli era terra, zolla, semina, spiga, grano; don Giorgio era vivida concretezza.

Ho avuto la fortuna, ancora adolescente, di frequentare la sua casa natale, a San Savino, assieme agli amici della sua prima comunità e di godere dell’ospitalità affettuosa e discreta dei genitori: Giuseppe e …Maria! E Giuseppe, falegname! Insomma, don Giorgio era un predestinato…
Mi parve che la campagna romagnola avesse il profumo umano di quella lombarda, così caldamente descritta da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi; che vivesse ancora di quel respiro cristiano che nei secoli era venuta assimilando e che la saturava di dignità, onestà e bellezza.

Don Giorgio aveva nel suo vissuto questa tradizione, non tanto nelle sue forme esteriori, quanto nei suoi valori di realismo, di ragionevolezza, di pace conservata nella frugalità e perfino nella povertà. Spesso paragonava con questo profilo umano ciò che stava accadendo nella nostra comunità civile, con l’arrivo del benessere (da lui apprezzato) accompagnato tuttavia dalla minaccia di un individualismo edonista ed egoista, da un libertinismo reso più facile dall’infragilirsi dei rapporti nelle famiglie e tra le famiglie. E, spesso, dall’altare, ci metteva in guardia contro quelle lusinghe e i nostri cedimenti. Tuonava, come un secondo don Camillo.

“Ma una voce dentro al cuore/ ti ha voluto pescatore”

La sua vocazione, per come ci si manifestava, era la sua seconda natura. Era la sua natura umana offerta e trasfigurata dal suo amore per Cristo e per la Chiesa: quella gerarchica – che sempre ci aiutava a riconoscere e ad amare – e quella che viveva nella trama della gente, dei fedeli: il popolo di Dio. Quando arrivò a Riccione, nella seconda metà degli anni sessanta, di quell’obbedienza gerarchica fece un’esperienza assai diretta e piuttosto…spigolosa. Affiancò in veste di cappellano un grande prete di Riccione, don Alberto Torroni, parroco della chiesa Gesù Redentore (la chiesa dell’Alba). Un prete “tridentino”, vigoroso e autoritario, al cui cospetto don Giorgio, ai primi passi, anche nella figura ricordava il famoso “pulcin bagnato con le zampe nella stoppa”… E per questo soffrì in silenzio (o sottovoce) la monarchia assoluta del suo capo, obbedendo con umiltà alle funzioni assegnate; ma segretamente assimilò dal vigoroso parroco l’ingegno necessario ad ordinare nella concretezza la vita complicata di una parrocchia. Credo che ne apprezzasse anche la testimonianza e il magistero: si era negli anni delle battaglie sul divorzio e sull’aborto e don Alberto con vera “parresia” – con franchezza di parola – incrociava le ‘armi’ della fede con quelle dell’ideologia laicista incombente.

“Pescatore di uomini, come Pietro e Giovanni, sotto il cielo di Riccione”

Riccione è stata la passione di don Giorgio. Dall’attenzione ai singoli, a cui non lesinava il suo tempo negli appuntamenti personali del pomeriggio, alla frequentazione delle case per le benedizioni delle famiglie; dalla cura dei più giovani per la preparazione ai sacramenti, alle costanti visite ad anziani e ammalati.
Il bambino di Dio si era fatto araldo di Dio, soprattutto dopo la scomparsa di don Alberto, che gli aveva lasciato due chiese col beneplacito del Vescovo: quella degli Angeli Custodi e quella più sontuosa della Pentecoste. Di ciascun parrocchiano imparava a conoscere gioie e tormenti, bisogni e aspettative. Per questo poi il suo sguardo si era alzato sulla dimensione più ampia della città, oltre i confini parrocchiali: sul “governo” della città, e soprattutto sulle ricadute culturali, educative, etiche conseguenti alle scelte politiche e amministrative. E non potevano mancare in lui, pur così incline alla simpatia e al cameratismo, le parole più severe con le linee di governo dell’economia turistica che sentiva appiattite, a causa degli interessi materiali, su una “offerta” di consumismo fine a se stesso, cinicamente indifferente alla dignità delle persone. Da questa preoccupazione cominciarono a nascere, nella sua comunità, le opere “sussidiarie”, sostenute dalla generosità dei suoi ragazzi: un centro Caritas vivace e attento ai bisogni, il circolo di animazione culturale Pantòs, e altro.
In questo sviluppo di una pastorale integrale nelle sue dimensioni di carità, missione, cultura ha certamente avuto un peso rilevante l’incontro negli anni settanta con il carisma di don Giussani, in concreto, la compagnia di don Giorgio con i sacerdoti che in diocesi erano animatori e responsabili del movimento di Comunione e Liberazione: don Giancarlo Ugolini, don Mario Vannini, don Giuseppe Maioli e molti altri. Anche se poi don Giorgio si è orientato verso un’autonoma direzione, qualcosa del respiro di CL era rimasto nei suoi polmoni: ne fanno fede le sue strategie educative con adolescenti e giovani, riuniti settimanalmente a vivere l’esperienza del “raggio”, a frequentare la “Scuola di Comunità” a lungo incentrata sulla lettura del “Senso religioso” di don Giussani, ad animare la “caritativa”, a vivere i campeggi in montagna come momenti esemplari e normativi di una vita tutta sotto il segno di Cristo. E poi la sua stima per gli eventi del Meeting di Rimini. E poi l’orgoglio con cui raccomandava ai suoi giovani la “presenza” nella scuola, intesa come esplicita testimonianza cristiana.

Le due fotografie che ritraggono don Giorgio mentre celebra la liturgia «al cospetto delle montagne» sono tratte dal video a cura di Moreno Poggiali e pubblicato sulla sua pagina Facebook.

“Colorando i nostri anni/ con la tua allegrezza complice nella gioia e nel dolore”

Don Giorgio c’era.
Nella vita di chi lo cercava, c’era sempre. Con quell’allegrezza complice…
Assediato da un mendicante che lamentava la penuria nella raccolta di elemosine per le vie della città, lui raccoglie la sfida. Si riveste di abiti sdruciti e trascorre una giornata in via Ceccarini chiedendo la carità ai frequentatori del “salotto” di Riccione. E torna in parrocchia, a sera inoltrata, col borsellino praticamente a secco! Io mi trovavo da quelle parti: “Aveva ragione lui”, mi dice.
Poco dopo escogita lo strumento dei buoni spesa da consegnare ai poveri che bussavano…
Ma di quell’arguzia complice mi resta un ricordo prezioso e segreto, che rivelo solo vincendo il pudore.
Ero andato a trovarlo, quando era ancora giovane cappellano alla chiesa dell’Alba. Mi ero innamorato della ragazza più bella del quartiere, e andavo a sfogare da lui le mie pene d’amore. Lei viveva la mia stessa esperienza di comunità e a quell’epoca (cosa che oggi, mi rendo conto, è difficile da capire) vigeva l’imperativo di “governare” i propri sentimenti per non rendere equivoca l’amicizia cristiana che volevamo testimoniare. In breve: in quelle comunità, le prime che riunivano ragazzi e ragazze, si chiedeva di attendere una maturità più grande prima di stringere una relazione affettiva. Io ne soffrivo, tribolando già da qualche anno. Don Giorgio mi ascolta, mi guarda in tralice. Poi, un improvviso lampo in quegli occhi astuti! Si alza dalla scrivania dicendo: “Basta! Ci penso io!” E scappa, a citofonare alla ragazza chiedendole di scendere “perché avrebbe qualcosa da dirle”. Candidamente, lei raggiunge la parrocchia…e trova me, mentre don Giorgio si defila! E un po’ costernata, finisce per rispondere “Sì” alla mia “dichiarazione”, in quel profumo d’incensi!
Così Gabriella ha poi finito per diventare mia moglie…
Bassanio, nel “Mercante di Venezia” di W. Shakespeare, ricorre al ricco Antonio e ai suoi fedeli amici per avvicinare l’irraggiungibile e amata Porzia. Io ho fatto ricorso all’“allegrezza complice” del mio amico Giorgio.

“Testimone irriducibile della fede e dell’amore”

Dalla semplicità, dall’obbedienza e dal rigore morale dei costumi delle sue origini don Giorgio traeva le ragioni del suo richiamo etico. Ai suoi occhi, la legge naturale con i suoi suggerimenti interiori e le sue verità, confermate ed esaltate dalla Parola di Dio nei comandamenti, nelle opere di misericordia corporali e spirituali, erano di apodittica evidenza. E, coerentemente, le richiamava, col risultato talora di sopravvalutare l’efficacia dell’esortazione morale. Però, soprattutto quando rientrava a Riccione dai campeggi estivi o dai ritiri vissuti con i suoi giovani (di scuola media, delle superiori, o i meno giovani del gruppo adulto) appariva chiaro dall’accento dei suoi racconti che quella “coerenza morale” invocata poteva essere solo il frutto collaterale dell’“Attrattiva Gesù”. Insomma, era la Bellezza della compagnia di Cristo alla persona ad operare la bellezza nella propria vita, fino alla coerenza. Con un’espressione concisa (che egli quasi certamente avrebbe ascoltato con sospetto a causa della sua astrattezza) potremmo dire che in quei momenti privilegiati di comunione, attestati dalle bellissime foto degli archivi della parrocchia, con centinaia di ragazzi e ragazze a celebrar la liturgia al cospetto delle montagne, diventava chiaro che l’etica è frutto di un’estetica, e questa è il riflesso dell’ontologia nuova generata dallo Spirito. Insomma, è Dio che opera!
Per questo don Giorgio definiva “perla” della sua comunità, l’arte, il canto, l’espressività musicale coltivata dal coro dei giovani di cui andava fiero. E che continua, per trasmettere alle nuove generazioni l’arte classica (il gregoriano, la musica di Mozart etc.) accanto al repertorio di cantautori ispirati come Claudio Chieffo, Adriana Mascagni, Marina Valmaggi e altri, il cui canto è profondamente radicato nella liturgia e nella vita cristiana.

Questo prete, il più lontano dal linguaggio “clericale” e dagli accorgimenti retorici, è stato un testimone irriducibile di fede e di amore per le sue “pecorelle”. Sempre conviviale, sempre positivo con la sua famosa iperbole: “Se vi chiedono come state, anziché lamentarvi, rispondete: Sto ottimamente bene!” (Sic!). Solo negli ultimi tempi, qualche purista l’aveva convinto a tenersi in bocca quel “bene”, bastando l’avverbio…
Uscendo dalla Messa da lui celebrata, tutto di lui si poteva pensare, fuorchè dubitare della sua fede limpida e incrollabile e della sua convinzione che la fede nel Risorto è anche “umanamente conveniente”, perché è l’unica che – diceva – ci fa il dono della pace: tra di noi, e dentro di noi. Non lo sentite?”

Per tutto questo (e per molto altro) don Giorgio ha creato attorno a sé un popolo.

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