Politiche culturali patologiche

Politiche culturali patologiche

Una scuola dentro un anfiteatro romano riconosciuto e protetto dalla legge. Una scuola in sé buona e famosa quanto si vuole, ma perché metterla e lasciarla lì? Il museo felliniano dentro il Castello opera riconosciuta del genio assoluto Filippo Brunelleschi. Perché? Il prof. Rimondini srotola una breve ma illuminante storia del martoriato patrimonio culturale di Rimini dal dopoguerra.

L’altra sera in consiglio comunale la maggioranza ha messo surrettiziamente – il termine surrettizio definisce il modo di agire di nascosto ma sotto gli occhi di tutti – all’ordine del giorno il valore riconosciuto in Italia e all’estero del Ceis e di Margherita Zoebli, la grande pedagogista. È stato il mantra ribadito dal sindaco e poi riflesso dal vicesindaco. Il sindaco poi ha confermato di avere detto, sul tipo borbonico monarchico di “Parigi val bene una messa”, “il Ceis è più importante di un Anfiteatro romano.”
Il tecnico comunale, che ha raccolto informazioni sull’intera vicenda, ha affermato di non avere elementi certi dell’impianto, deciso, ha detto, nelle giunte alleate del sindaco Arturo Clari.
Quando è toccato a me parlare, ho rivelato che l’impianto del Ceis nell’Anfiteatro nei primi mesi del 1946 è stato opera del Genio Civile che stava curando la sistematica ricostruzione di Rimini. Il fascicolo che contiene il carteggio del Genio Civile col Comune, il contratto con l’azienda esecutrice, e i libretti dei lavori edilizi, idraulici e fognari, elettrici e un paio di piantine che mostrano la disposizione delle baracche “provvisorie”; il fascicolo, utile anche per verificare i primi danni, si trova nell’Archivio del Genio Civile, presso l’Archivio di Stato di Rimini, sotto “Rimini. Asilo svizzero”.

LA DENUNCIA DELL’ANOMIA – “DEFICIENZA DALLA LEGGE, CARENZA DEI POTERI DELLO STATO, ANARCHIA” – DELLA SITUAZIONE DEL CEIS DENTRO L’ANFITEATRO

Gli interventi di minoranza che ho seguito dalle 18 alle 22 sulle vicende di sette decenni dell’Anfiteatro sono cominciati con quello informatissimo di Gioenzo Renzi, che ha puntato ad ancorare il problema al 2026 in preparazione di un possibile anno in cui Rimini sarà capitale della cultura; ma la cosa non è stata ripresa dalla maggioranza, intenzionata, aveva detto il sindaco, ad esibire come cultura di Rimini il Ceis. Sono seguiti l’intervento dell’avvocato Rufo Spina, calmo e lucido, e dell’avvocato De Sio, entrambi, nella denuncia centrale, più importante, della ormai decennale situazione anomica [il termine significa priva di rispetto per le leggi, con il predominio della volontà dispotica di chi comanda, che impone ai cittadini, trasformati in sudditi, la propria logica indiscutibile benché patentemente ‘cretina’] del monumento antico a cui non viene riconosciuta la protezione di decreti ministeriali, di pronunciamenti replicati di tutti i Soprintendenti archeologici che si sono succeduti dal dopoguerra, salvo gli ultimi, stressati dagli interventi “punitivi” di Matteo Renzi, al moltiplicarsi di costruzioni anche abusive e mancanti delle necessarie caratteristiche antisismiche in una scuola per l’infanzia.

LA LOGICA “CRETINA” DI METTERE UNA SCUOLA A FAR DANNI DENTRO UN MONUMENTO IMPORTANTE

Ma c’è qualcosa anche di patologico, da definirsi proprio col termine “cretino”, che non è un insulto, ma un termine della vecchia psichiatria, significa: “sindrome di insufficienza tiroidea caratterizzata da un deficit mentale più o meno grave e da una serie di disturbi somatici quali nanismo, mixedema [edema con sede sottocutanea] e talvolta ipogenitalismo”; quando si deve prendere atto di ripetizioni di azioni politiche e culturali patologiche, come allestire una scuola DENTRO un anfiteatro romano riconosciuto e protetto dalla legge, una scuola in sé buona e famosa quanto si vuole, ma perché metterla lì, non c’erano altri posti?
E recentemente: perché allestire DENTRO un castello, opera riconosciuta del genio assoluto Filippo Brunelleschi, un museo dedicato a Fellini, magari anche un’iniziativa culturale in sé sensata?
Ancora una volta PERCHÈ LÌ? PERCHÈ UNA BUONA INIZIATIVA DOVEVA FARE DANNI AD UN BENE CULTURALE RICONOSCIUTO? CHE SENSO AVEVA QUESTA OPERAZIONE?
Non ci sono ragioni accettabili, motivi sensati per rendere meno inquietanti quelle decisioni che seguono la logica del dispotismo: si fa così perché lo dico io, che posso, comando e voglio. C’è altro da sapere? Sì, ci sono anche da elencare interessi economici e politici assortiti ma espressi nella forma dispotica. Riconosciuto? Bè il sindaco Gnassi lo definiva “un rudere”.
La scuola e il museo sono in sé buone iniziative, come tutti riconoscono, ma allora perché sono buone iniziative il resto non conta più niente?
A proposito, anche il grande architetto “brutalista” Vittoriano Viganò quando negli anni ’70 creò nel porto il fenomeno dell’acqua alta, chiamava “il rudere” il ponte di Augusto e Tiberio che in seguito ai suoi interventi sarebbe stato cementato.

UNA TRADIZIONE MALIGNA: LE AMMINISTRAZIONI COMUNALI DEL DOPOGUERRA E GLI IMPRENDITORI EDILI CHE HANNO FATTO STRAGE DI BENI CULTURALI DI RIMINI

C’è una tradizione politica amministrativa che ha esibito decisioni ‘cretine’ nei confronti del Patrimonio Culturale di Rimini, che comincia nell’immediato dopoguerra. Il sindaco ventenne Cesare Bianchini, eletto con una maggioranza impressionante di voti, che si faceva chiamare ingegnere ed era solo un perito svizzero, mette mano personalmente con i poveri operai affamati alla demolizione del Kursaal, opera dell’ingegnere comunale Gaetano Urbani, allievo a Roma di Luigi Poletti. Lo stesso sindaco, insieme al vescovo pro tempore, voleva vendere il Tempio Malatestiano agli Americani, in cambio dei dollari portati da Bernard Berenson per il restauro del monumento albertiano. Il termine “riminizzare” purtroppo è entrato nei dizionari e indica l’azione di decenni del sindaco cesenate Walter Ceccaroni, imposto ai Riminesi della federazione comunista di Forlì dopo che Cesare Bianchini era stato costretto a dimettersi perché il suo potere popolare aveva destato le gelosie dei gerarchi forlivesi.
Sparirono i pochi palazzi rimasti illesi oppure non del tutto diroccati, e il Teatro. Non sapremo mai quanti mosaici sono stati distrutti. I vecchissimi imprenditori edili superstiti che ho conosciuto fingevano vergogna, ma in realtà si capiva che avevano tratto soddisfazione per il loro potere di distruggere la storia e la bellezza, e si sentivano piuttosto frustrati quando gli si diceva che se avessero staccati i mosaici, avrebbero potuto guadagnarci soldi e non pochi. Vecchi bulli che hanno generato giovani bulli.

UN’ALTRA TRADIZIONE MALIGNA: I FURTI DEGLI IMPUNITI

Ci sono a Rimini individui che i beni culturali li conoscono bene, ma li considerano solo come un insieme di prede da rubare, vendere e guadagnarci soldi. Sono pochi, ma dominano come ‘mafie’ indigene stranamente impunite. Da quando sono a Rimini – più di mezzo secolo -, ho veduto il furto di libri di pregio antichi di argomento scientifico della Biblioteca Gambalunga, con alcune opere di Galileo Galilei inviate a suoi amici riminesi. Queste opere preziose vennero sostituite sugli scaffali, con una complessa operazione di specialisti. Al loro posto misero opere di carattere religioso del ‘700, senza alcun valore economico, con copertine anticate benissimo con pergamene e cuoio, e con le impronte dei ferri dello stemma della Gambalunga per dorare i titoli sul dorso. Non mancavano certo gli indizi per catturare i ladri e recuperare il maltolto. Ma non successe nulla.

La Petra ociosa era, è – speriamo – una grande epigrafe del tardo ‘300 in bellissimi caratteri rilevati gotici veneziani e il segno di un’impresa commerciale, che era stata posta da Carlo Malatesta all’angolo del Corso con l’attuale piazza Cavour, dove c’è la gelateria. Lì c’era una panchina dove i perditempo del ‘300 fino a quelli dell’800, sedevano per sparlare di chi passava. Nell’epigrafe si faceva osservare che non si parlava del “bene” fatto dagli esseri umani perché allora come oggi era il “male” ad avere l’attenzione del pubblico, e tuttavia, si avvertiva, chi parla del male corre dei rischi, allora come oggi.
Il ladro che la prelevò nel 1982 doveva avere delle belle protezioni se riuscì ad entrare con i facchini per prenderla e nessuno dei salariati, impiegati e funzionari comunali vide o sentì niente. Anni dopo venne nella sala del Giudizio del museo il colonnello del nucleo dei CC che si occupano del recupero all’estero dei Beni Culturali italiani rubati ad illustrare l’attività del suo gruppo. Alla fine, con il mio solito “astio”, gridai al signor colonnello se era al corrente del furto della Petra ociosa. Non era al corrente. Si rivolse allora al suo sottoposto locale, che doveva avere condotto una inchiesta, il furto aveva interessato la pubblica opinione e si faceva il nome e cognome del ladro e di suo padre: ma non vogliono parlare, disse l’ufficiale.

Nel Santuario della Vergine di Bonora c’erano sei lampade di rame argentato di bellissimo disegno della prima metà dell’800, mi hanno mostrato una fotografia di una delle lampade che era finita nel mercato antiquario, senza però darmi la possibilità di fotografarla. Non tanti anni fa, qualcuno andava per chiese e canoniche per impadronirsi di mobili e dipinti e arredi dove trovava preti arrendevoli. Vennero prelevate le sei lampade del santuario di Bonora con la scusa di restaurarle, poi riconsegnati dei tubi di ottone, tipo quelli che si usano per le tende, malamente saldati, e con fili di false gemme di vetro. Il rettore del santuario e i fedeli che ricordavano bene denunciarono, ma il tribunale di Rimini mandò assolti i presunti artefici.

I COMUNISTI DI BOLOGNA

La politica amministrativa nella gestione dei beni culturali non dipendeva dalla identità politica; ma da una sorta di rozzezza indigena, una sorta di infantile narcisismo che aveva ed ha modelli di dispotismo nella gestione del potere di origine fascista e stalinista. I Comunisti di Bologna, insieme alle migliori forze culturali e politiche della città hanno salvato Bologna dalla cementificazione e dall’espulsione dei ceti popolari dal centro storico. Al grande Pier Luigi Cervellati spetta il merito di avere coordinato il piano regolatore del centro storico di Bologna. Erano i tempi di Cesare Gnudi, Francesco Arcangeli, Eugenio Riccomini, Anna Maria Matteucci, e il grande Andrea Emiliani che con le mostre locali, nazionali e internazionali hanno ridato a Bologna quel prestigio internazionale che spettava e spetta ora di nuovo alla sua grande pittura del ‘500 e del ‘600.
Purtroppo il grande Andrea è morto qualche anno fa e non c’è più nessuno che lo sostituisca. Tempi incerti si profilano nel futuro culturale di Bologna.

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