Una sentenza importante, sia per il merito che per la difesa del diritto di critica politica.
Già il Tribunale di Rimini aveva ritenuto che le dichiarazione dell’ex candidato sindaco Luigi Camporesi non fossero da ritenersi diffamatorie nei confronti di Rimini Fiera e Società Palazzo dei Congressi in quanto le «affermazioni contestate devono essere ritenute, in parte, come legittima espressione del diritto di critica politica» e «comunque non lesive dell’onore e della reputazione» delle due società.
Come si ricorderà, in occasione delle elezioni comunali del 2016, Camporesi inviava ai soci di Aia Capital e Aia Palas una lettera, che poi fu diffusa anche alla stampa, nella quale sosteneva tra l’altro che il bilancio della società del Palazzo dei congressi «non rispetta(va) le norme dettate dalla legge 69/2015 sulle false comunicazioni sociali» e che esisteva «un debito bancario del gruppo non sostenibile».
Solo la Società del Palazzo dei congressi (nel frattempo fusa per incorporazione in Rimini Congressi) ha proposto appello – e non anche Rimini Fiera – lamentando un grave danno alla propria reputazione.
Camporesi (difeso dall’avv. Marco Bertozzi) ha invece sostenuto «di aver legittimamente esercitato il proprio diritto alla libera manifestazione del pensiero ex art. 21 della Cost. e, in particolare, il proprio diritto di critica politica».
La Corte d’Appello di Bologna in parte ha corretto la sentenza di primo grado, precisando che – come rilevato dalla Società del Palazzo dei congressi – il reato di diffamazione può «essere realizzato anche ai danni della persona giuridica» ed «è indubbio che è anche l’immagine della società (peraltro passibile delle sanzioni di cui all’art. 25 del D. Lgs 231/2001 per le false comunicazioni sociali) che si dice aver presentato ‘un bilancio irregolare’ a venir lesa agli occhi della collettività. Sul punto – quindi- la sentenza impugnata è errata».
Ma nel merito l’appello non ha dato altre soddisfazioni alla Società del Palazzo dei Congressi.
Articolata la motivazione. Anzitutto viene ricostruito il «contesto nel quale si inserisce la vicenda», maggio 2016, elezioni comunali, e dunque «il dibattito politico era piuttosto acceso in quel momento ed uno dei temi maggiormente discussi riguardava proprio la quotazione in borsa di Rimini Fiera (che andrà a segno nel giugno del 2019, ndr), gruppo di società di cui faceva parte la Società del Palazzo dei Congressi, e la gestione dell’intero sistema fieristico-congressuale riminese».
Era chiaro, insomma, l’obiettivo «prettamente politico» di Camporesi, che si dichiarava contrario alle «mire bolognesi e realizzare, tramite la privatizzazione e un’idonea governance, non solo l’interesse degli azionisti ma anche e soprattutto il mantenimento sul territorio riminese a beneficio della nostra economia».
Secondariamente Camporesi non è venuto meno alla continenza espressiva in quanto ha «utilizzato una forma espositiva corretta, ovverosia strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione – della quotazione in borsa del gruppo societario considerate le palesi difficoltà economiche – e priva di espressioni aggressive e offensive nei confronti della società appellante».
Inoltre, dicono ancora i giudici di secondo grado, è stato «rispettato il criterio dell’interesse pubblico alla conoscenza del fatto, nel senso di ritenersi osservato il necessario bilanciamento della pertinenza della critica all’interesse dell’opinione pubblica alla conoscenza non del fatto oggetto di critica, che è presupposto della stessa, ma dell’interpretazione di quel fatto». Ovvero i destinatari della lettera di Camporesi e i cittadini riminesi avevano un interesse a conoscere l’interpretazione di quel fatto.
«Peraltro, come rilevato da Camporesi, la questione – ovverosia le difficoltà finanziarie del Palacongressi – era già conosciuta e dibattuta, essendo da tempo – sin dal suo acquisto – sulle prime pagine di molti quotidiani, sia nazionali che locali».
Ma affinché il diritto di critica poggi su un presupposto solido, occorre un altro requisito: la verità delle affermazioni. Ed ecco quanto si legge nella sentenza: «va anzitutto evidenziato come la frase del Camporesi assumesse la ‘irregolarità’ del bilancio in relazione alle norme dettate dalla Legge 69/15. Tenuto conto che, come precisato dalla S. C. (cfr. Cass. V sez. Pen. 890/16), le norme sulle false comunicazioni sociali operano anche con riferimento alle valutazioni quando si discostano senza adeguata informazione giustificativa dai principi contabili, l’appellato aveva ritenuto il bilancio (non falso ma) irregolare, poiché non giustificava adeguatamente l’omessa considerazione di elementi valutativi contrari alla compilazione del bilancio nei termini in cui fu pubblicato». Sosteneva Camporesi che, «affermare nella nota integrativa che “pur in assenza di specifici indicatori di potenziali perdite di valore la società, in concomitanza con l’entrata in vigore del principio contabile OIC 9 ha ritenuto opportuno effettuare comunque la verifica sull’esistenza o meno di perdite durevoli di valore con riferimento all’immobilizzazione principale” costituisse un’informazione quantomeno carente, posto che, tenuto conto che l’OIC 9 in assenza di indicatori di perdite durevoli – che si assumevano non esistenti da parte della Società del Palazzo dei congressi – non richiede affatto che si proceda a quella verifica, non chiariva a quali metodi si fosse attenuta la verifica della tenuta del ‘valore recuperabile’ del bene, fornendo solo nel bilancio successivo (ma depositato dopo la lettera del Camporesi) una spiegazione comunque ancora poco puntuale».
Ma c’è di più. La sentenza rileva che in ordine a queste valutazioni di Camporesi «nulla ha controbattuto l’appellante non solo nel corso del giudizio di primo grado (nel quale si è limitato ad un rimando alla verifica effettuata nel bilancio successivo) ma neppure nell’atto d’appello, il cui motivo si appalesa assolutamente generico sul punto». Quindi sul vero punto dolente del contendere non sono stati portati documenti in grado di smentirlo. E questo è forse l’aspetto che più lascia l’amaro in bocca considerata la proprietà pubblica del Palacongressi.
Appello respinto, dunque, con condanna alla Società del Palazzo dei Congressi, ora Rimini Congressi, alla refusione di 5.500 euro oltre spese varie, che si assommano a quelle del primo grado.
Viene spontaneo pensare a Davide e Golia: da una parte un semplice cittadino, candidato sindaco, che poi andò a sedersi sui banchi dell’opposizione; dall’altra la più potente realtà economica di Rimini che rispose sentendosi diffamata ma senza controbattere a Camporesi sul punto saliente (come scrive la sentenza della Corte d’Appello) e però avanzando una richiesta di risarcimento complessiva pari ad 1 milione di euro.
L’esito, quindi, è più che positivo non solo per Camporesi, ma anche per tutti coloro che ritengono che il diritto di critica, per di più esercitato da un rappresentante dei cittadini e con le caratteristiche che la sentenza evidenzia, sia un cardine fondante della democrazia e vada custodito con cura.
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