“Ma la bellezza esiste”: viaggio lampo alla scoperta di Ezra Pound

“Ma la bellezza esiste”: viaggio lampo alla scoperta di Ezra Pound

Da Rimini a Tirolo e ritorno in un giorno, con l’editore Raffaelli, per prendere il tè con la Storia della letteratura. Dialogo con Mary de Rachewiltz, la figlia di Pound, seduti sulla sedia di Yeats, in mezzo alla biblioteca ‘poundiana’. Tornato in Italia nel 1958, il poeta abitò in un castello arcigno e assoluto. Vide crollargli il mondo intorno. Un giorno, per capire il Malatesta, si fece a piedi da Rimini a Verucchio…

La fine è una luna enorme, davanti all’autostrada, simile al calcagno di Dio. Rimini-Brunnenburg andata e ritorno. In un giorno. Agosto luciferino. Oltre 900 chilometri. Abbiamo sorbito il tè con la Storia della letteratura. Tanto basta. Accompagno Walter Raffaelli nel castello dei principi de Rachewiltz, appena sotto Castel Tirolo, dove abita Mary, la figlia di Ezra Pound. Dopo Vanni Schewiller, Raffaelli è l’editore ‘poundiano’ per antonomasia. “Conosco Mary da 25 anni, tutto è iniziato con il suo libro di poesie, Gocce che contano, che ho pubblicato nel 1994”. Da lì, fu un fiume di libri assoluti, da Indiscrezioni, Angolo Sperso, Orazio e l’antologia di poesia italiana Ritorna Età dell’Oro, di Pound, poi L’elemento magico nella poesia di Ezra Pound, di Boris de Rachewiltz, egittologo ed esoterista, il marito di Mary. Studiando Pound, Raffaelli scopre Gemisto Pletone, il filosofo che portò Platone in Italia, durante il Concilio di Ferrara e di Firenze (nel 1438), e diede avvio al Rinascimento. Sulla scia delle intuizioni del poeta (“Gemisto Pletone introdusse una specie di platonismo in Italia verso il 1440. Suppongo che sia più conosciuto per via del suo sarcofago a Rimini che per i suoi scritti. A Firenze, nella Laurenziana, c’è un manoscritto greco… una copia giace nella Marciana a Venezia”), l’editore scopre manoscritti e iconografie di Pletone, portando alla riscoperta, con la prima traduzione in italiano del Trattato delle Virtù, nel 1999, del grande filosofo. “E sai cosa mi resta? Che per aver pubblicato Pound mi danno del fascista e per aver pubblicato Pletone del massone…”. Si sa, le masse sono cretine. Anche i poeti, in realtà, sono un po’ cretini. Passano una vita a tentare di pubblicare con Mondadori o con Einaudi, pensando che quelle griffe siano l’Armani e il Valentino della poesia. Ma l’unica cosa che deve fare un poeta, oggi, nell’era dello sputtanamento editoriale e del delirio culturale, è accanirsi nell’opera, farsi intagliare e morire nel capolavoro.
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Il castello dei de Rachewiltz è arpionato alla roccia come un urlo. La strada per arrivare è ripida, intitolata – vivaddio – a Pound. Pochi elementi, però, entrando nella dimora, arcigna, ricordano il poeta. Un manifesto racconta un ciclo estivo di concerti; l’ingresso è per il Museo agricolo. Da un’aiuola sbuca la faccia di Pound scolpita da Gaudier-Brzeska. Al castello sono ospiti dei musicisti: nastri sonori avvolgono chi entra. Mary sbuca all’improvviso da una porta laterale. Minuta ed energica, classe 1925, un sorriso ampio come un balcone di gerani e quegli occhi, azzurri e spogli, che pietrificano i ricordi. Ci conduce per una scala a chiocciola. Sulle parete, schizzi ‘vorticisti’ tratti da Blast, la rivista creata da Pound insieme a Wyndham Lewis. Più tardi sorbiremo il tè su una teca di vetro. Sotto le tazze, piccolissimi monili egizi, occhi, orecchini, pettini, divinità enigmatiche, che adornavano tombe di tremila anni fa. Ma adesso entriamo nella stanza delle meraviglie.
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“Vuole accomodarsi sulla sedia di William Butler Yeats o su quella di Ezra Pound?”. Un senso d’inferiorità rende le mie ossa acciaio. Per il momento resto in piedi. Da una parte c’è il ritratto di Pound fatto da Rolando Monti, a suo modo geniale perché Pound, davanti al mare ligure, cammina in avanti, bruscamente, con la mano sinistra in tasca, ma guarda, severo, indietro. Sotto, libri di Pound in tutte le lingue. Una parte della biblioteca è dedicata alle pubblicazioni di Pound in italiano. Il piccolo balcone della stanza è a picco sulla valle di Tirolo, la vista è vertiginosa. “A mio padre non piacevano le case né i ‘nidi’”, mi dice la figlia, che alternativamente chiama Pound “Pound” o “mio padre”. “Secondo lui le case erano inutili. A Venezia, si figuri, voleva un palazzo… Un uomo, diceva, non ha bisogno di case, ma di due sole valige. Una per i vestiti. L’altra per i libri”. La cassa dei libri di Pound, tra l’altro, in legno, c’è anche quella, griffata “Ezra Pound, Rapallo”. Su una parete, il calco dei visi del poeta e di Olga Rudge, l’amata, la madre di Mary. Su un tavolo, la copia dell’Ulisse di James Joyce dedicata a Pound. Insieme a Mary, ci accompagna nella discussione la figlia Patrizia, poetessa tradotta in diverse lingue (anche da Raffaelli, che di lei, nella collana ‘nera’, ha My Taishan). Più tardi, all’uscita, incrocio l’altro figlio, Siegfried, che cavalca la bicicletta manco fosse uno stallone. “Pound qui non stava bene”, dice, sibilando, Mary.
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Dopo dodici anni di reclusione nel manicomio criminale di Saint Elizabeths, Washington, nell’estate del 1958, Pound attracca in Italia, a bordo della ‘Cristoforo Colombo’. Va stare da Mary e da Boris, nel castello tirolese, vasta solitudine di campi verdi, rocce in picchiata, gelo. “Mio padre è e resta un americano: aveva bisogno di spazio. Qui sentiva freddo. Questi luoghi gli trasmettevano una certa angustia intellettuale. Cominciò a fare il processo a se stesso, visto che non fu mai processato. Si accusava, si interrogava se avesse sbagliato tutto… La gente non può immaginare, ma per sopravvivere nel campo di prigionia a Pisa, prima, e poi al Saint Elizabeths, Pound ha dovuto concentrarsi totalmente sul suo lavoro. Altrimenti, sarebbe impazzito”. Quelli del ritorno sono anni durissimi per il poeta. “Non riconosce più l’Italia che ha lasciato molti anni prima. Poi, gli crolla letteralmente il mondo addosso. La morte di Ernest Hemingway e di Hilda Doolittle nel 1961, quella di E. E. Cummings nel 1962, quella di William Carlos Williams nel 1963, quella di Thomas S. Eliot nel 1965… Pound vede morire tutti i suoi amici, vede disintegrarsi tutta un’epoca”. Mentre Mary parla appaiono e scompaiono nella stanza i volti di quegli uomini che hanno cambiato la letteratura occidentale. Di fianco a Mary si spalanca una nicchia con la biblioteca consultata da Pound. Lei mi accompagna lì. I libri sono coperti da una carta trasparente. Estrae alcuni volumi di una storia della Cina antica, in francese. “Nel 1940 Pound pubblica i Cantos LII-LXXI, quelli relativi all’epica cinese e agli scritti di John Adams. Vede, Pound a Rapallo, in quegli anni, non faceva il fascista, studiava…”.
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Quest’anno scoccano i 45 anni dalla morte di Pound. Il rammarico di Mary si percepisce, vivo come un fuoco, sotto pelle. “Spererei che Mondadori potesse pubblicare una edizione economica dei Cantos, almeno una scelta, per rendere più accessibile l’opera di Pound”. Invece niente. “Il problema è che per non incorrere nelle accuse di fascismo bisogna sempre mascherare Pound con un involucro sufficientemente grande. Magari parlarne con altri autori, in contesti più ampi”. Anche le delicatissime memorie di Mary, Discrezioni, pubblicate da Rusconi nel 1973, sono scomparse dal mercato. “Eppure, proprio quest’anno sono state tradotte in francese”. Come se qualcuno, qualcosa, con lo scalpello, volesse raspare l’affresco della Storia.
Racconto a Mary le difficoltà, nell’anno in cui ricordiamo i 600 anni dalla nascita di Sigismondo Pandolfo Malatesta, figura miliare dei Cantos, di ripubblicare una edizione dei canti ‘Malatestiani’. A Rimini ci snobbano tutti, o quasi. “Non mi stupisce: diranno che Pound vede nel Malatesta l’antesignano di Mussolini, anche se non è così”. Eppure, lungo le scale vertiginose del castello, tra i quadri, c’è anche un’opera di Massimo Pulini, Assessore ‘alle arti’ del Comune di Rimini, che un tempo, probabilmente, era ‘poundiano’ e ora rinnega, comunque ignora i nostri appelli. Mary squalifica ogni polemica con un sorriso. Ricorda, piuttosto, “quando Pound andava a piedi da Rimini, a Verucchio a Pennabilli, facendosi spiegare dal suo amico Hemingway le tattiche di guerra dei Malatesta e dei Montefeltro. Sa, in casa nostra non c’erano macchine e giravano pochi soldi. Per questo io ho un mio motto, ‘va solo fin dove ti portano i tuoi piedi’”.
Non c’è luogo della stanza che non trasudi genio. Le lettere di Lewis, gli autografi di Yeats, gli schizzi di Eliot. Che fine ha fatto quel mondo, quella energia, così potente? Oggi la cultura è il regno del mercimonio, del mercato delle sciocchezze. “Cosa la stupisce? Dopo l’epoca di Dante sono dovuti passare secoli per avere un Leopardi!”. Risposta rotonda. “E poi, io non voglio uscire da questa stanza, sono nel pieno di quell’era, di quegli istanti, lo capisce?”. Lo capisco, certo. Anch’io vorrei annegare qui, “è meglio che stare in una Università”, chiosa Raffaelli.
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Quando Mary se ne esce, “vorrei fondare una Repubblica poundiana!”, ci zittiamo tutti. Lei parla piano, con accuratezza. “Ma prima pretendo che qualcuno, il governo degli Stati Uniti d’America o un gruppo di Università americane, restituisca a mio padre la personalità giuridica. Dal 1945, quando, senza processo, fu internato al Saint Elizabeths, Pound non ha più riavuto i suoi diritti civili: cos’è un uomo privo di diritti?”. Più che ira, la rassegnazione colora il viso di Mary, sulle cui spalle grava un secolo di grande letteratura. Gli ultimi anni di Pound replicano il silenzio – “che equivale a una dichiarazione di non-colpevolezza” – opposto in quel 1945 alle autorità americane. “Negli ultimi anni mio padre si chiuse in silenzio. Non parlava con nessuno. Una fotografia lo ritrae, magrissimo, davanti a una rosa, come confuso. Un articolo di Indro Montanelli, che in passato non era stato molto gentile con mio padre, lo descrive a Venezia, in un’aula piena di persone, forse un’ambasciata, seduto, che gioca con un gatto”. Alcuni taccuini mostrano la poesia estrema di Pound, quella censita nei Drafts and Fragments. Per quello sono venuto fin quassù. “Probabilmente, oggi finirei i Cantos in un altro modo…”. Dove finisce davvero, in quella turba di note dalla grafia oracolare, la storia dei Cantos? “Le ipotesi più veritiere sono tre. I Cantos terminano con la frase ‘ma la bellezza esiste’, che non è confluita nel poema. Oppure con ‘Un po’ di luce, come un barlume/ ci riconduca allo splendore’. Infine, ed è la fine che preferisco, il capolavoro di Pound si blocca su questo verso: let the wind speak, ‘lascia che parli il vento’”. Il poeta, a quel punto, non ha più verbo né voce: è realizzato. “L’ultima immagine che ho di mio padre è questa. Seduto su una poltrona, ha gli occhi chiusi, è sereno, è attraversato, penso, da visioni bellissime e finali, non parla più…”. Il poeta che ha attraversato e trasceso la Storia, che ha lottato, ha smagnetizzato gli alfabeti, è nella pace, ora.

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