Mafia Capitale non ha nulla da dire alla nostra città? Sono tra coloro che considerano gravissimo quanto emerge dalle inchieste romane, anche se nutro
Mafia Capitale non ha nulla da dire alla nostra città?
Sono tra coloro che considerano gravissimo quanto emerge dalle inchieste romane, anche se nutro molte perplessità sulla qualifica di associazione mafiosa.
Al di là dei rimpalli sulla responsabilità politica tra destra e sinistra e sul ruolo svolto dagli attuali amministratori nel contrastare adeguatamente questo vergognoso malaffare, emergono, da parte degli osservatori più attenti, considerazioni puntuali sul salto di qualità compiuto dal sistema corruttivo nel sottomettere ed utilizzare la politica per garantire successo alle attività delinquenziali.
E’ stato osservato che fino a quando non verrà smantellato il peculiare intreccio malato tra pubblico e privato che è largamente praticato in molti campi dell’economia nel nostro paese, difficilmente potrà essere debellata la corruzione che devasta la cosa pubblica.
Si è detto che a Roma l’aggressività di questo sistema si è manifestata in modo particolarmente degradante, ma che segnali e germi esistono anche in molte altre aree del paese, come hanno documentato le inchieste della magistratura.
Basterà l’opera di Cantone e degli organi di vigilanza a cambiare questo stato di cose?
Temo di no. Per due ragioni.
La prima è che fino a quando non verrà prosciugata l’acqua nella quale nuotano gli squali il lavoro, anche dei migliori “cacciatori”, assomiglierà sempre di più alle proverbiali fatiche di Sisifo.
La seconda è che l’acqua non si toglie solo dal centro. L’Italia delle cento città ha bisogno di un’opera costante e diffusa, ha bisogno di un tenace localismo buono, per avviare una solida e credibile attività di prosciugamento delle molte fonti del malaffare.
E’ vero, a Rimini non abbiamo avuto né Buzzi né Odevaine, ma sarebbe bene attrezzare la comunità locale per mettersi in grado di non produrre figure simili in futuro.
Sarebbe lungo, anche se interessante, analizzare le cause storiche che hanno determinato la peculiare fragilità tutta italiana, tra i paesi sviluppati dell’occidente, nell’opporsi ai fenomeni corruttivi che degradano l’amministrazione pubblica.
Me la cavo dicendo che in politica l’agente patogeno è stato il fattore K e la mancanza di alternanza che ha consolidato meccanismi di consenso basati sulla costruzione di sistemi di potere diffusi e pervasivi che hanno portato alla sovrapposizione tra istituzioni e partiti e che sono sopravvissuti alla fine della prima repubblica.
In economia invece è stato il mix tra capitalismo di relazione e la straordinaria estensione (la più ampia dei paesi occidentali) della presenza dello stato nelle attività economiche a funzionare come ambiente favorevole ai fenomeni corruttivi, creando, tra i ceti imprenditoriali e nel mondo politico, un ritardo profondo nella cultura del mercato competitivo e meritocratico e della sua regolamentazione.
Non credo che la nostra realtà possa considerarsi al riparo da questo intreccio di fattori economici e politici che altrove hanno costituito le precondizioni per generare il malaffare.
Anzi. Una peculiarità delle regioni rosse è stata proprio quella di avere costruito un proprio sistema di potere particolarmente solido e diffuso, con l’obiettivo di “resistere” a decenni di confinamento in una collocazione di opposizione nazionale, avvalendosi della presenza pubblica nell’economia e di mille canali di mediazione sociale.
E’ una storia che conosco e che è stata vissuta dentro la sinistra coltivando il mito della diversità positiva e di una superiorità morale quali garanzie di una gestione “pulita” di questo enorme potere assegnato alla sfera pubblica e gestito direttamente dai partiti.
Gli scandali che negli ultimi anni hanno finito per coinvolgere anche amministrazioni di sinistra (Venezia, Roma, Napoli, Sesto San Giovanni, ecc.) hanno però contribuito a sfatare questo radicato mito. Proprio in virtù di ciò essi sono stati più penalizzanti, dal punto di vista elettorale, per la parte politica alla quale appartengo.
Al susseguirsi degli scandali, unitamente alla crisi finanziaria degli enti locali, è da attribuire la crisi del blocco elettorale di sinistra nelle regioni rosse, divenute rosa-pallido, come ha avuto modo di affermare recentemente Ilvo Diamanti a seguito del voto delle regionali del 2015.
Personalmente ritengo, a differenza di Diamanti, che quella crisi sia dovuta principalmente alla dissoluzione dell’antico sistema di potere e alla sua progressiva perdita di legittimità presso fasce sempre più ampie di opinione pubblica.
Insomma a fattori propriamente locali, piuttosto che alle conseguenze delle politiche riformiste del governo Renzi in merito al lavoro o alla scuola (un ragionamento diverso meriterebbe il tema dell’immigrazione, ma il discorso ci porterebbe troppo lontano).
Se scegli un modello con forti elementi di statalismo e di assistenzialismo, che inevitabilmente sacrifica una quota di libera iniziativa e drena ingenti risorse fiscali, devi essere in grado di garantire un funzionamento corretto, onesto ed efficiente dello stato, altrimenti crescerà nell’elettorato la convinzione che quel gioco non vale la candela ed il modello serve solo per alimentare la casta del ceto politico.
E’ comunque importante notare che questa crisi di consensi elettorali della sinistra a Rimini si era già manifestata prima che altrove ed è stata mascherata, temo solo momentaneamente, nelle europee 2014, dall’effetto Renzi. Un sistema di potere ormai incapace di produrre crescita per l’intera comunità può logorare infatti la propria legittimità ed il proprio consenso anche se non produce direttamente malaffare.
Torniamo al mito perché è interessante vederne alcuni risvolti per capire in quale direzione muoversi per costruire nuovi anticorpi capaci di combattere anche da noi la corruzione.
Se una traduzione banale del marxismo può essere stato all’origine il supporto ideologico dell’espansione della sfera pubblica nelle regioni rosse, il presidio delle buone pratiche nella sua corretta gestione si sono invece affidate principalmente al sogno giacobino dell’incorruttibile Robespierre.
Insomma limpidezza amministrativa affidata al puro volontarismo, sostenuto dalla radicata convinzione che il duro percorso di formazione dei dirigenti della sinistra, la costruzione di un partito di funzionari austeri e vicini ai lavoratori anche come retribuzione, la coltivazione di una diversità quasi genetica nei confronti del resto del mondo politico (non è un caso che per bollare la deriva craxiana del PSI, Berlinguer sia ricorso all’immagine della “mutazione genetica”), sarebbero stati sufficienti a garantire che il potere pubblico sarebbe stato gestito con trasparenza ed onestà. Soggettività invece che struttura.
Dopo tangentopoli la sinistra, sopravvissuta a quel cataclisma del sistema politico, avrebbe avuto la possibilità di avviare un ripensamento profondo per promuovere riforme in grado di modificare l’ambiente strutturalmente favorevole all’espandersi della corruzione, tanto più che contemporaneamente veniva necessariamente smantellato il presidio “morale” dell’apparato di partito e dei meccanismi tradizionali e virtuosi (almeno nelle intenzioni) di selezione delle sue classi dirigenti.
In realtà si è fatto troppo poco. La elezione diretta dei sindaci, la promozione di un assetto bipolare del sistema politico, la ritrovata contendibilità della guida del paese e dei poteri locali, il sistematico ricorso alle primarie, non potevano bastare.
Per togliere davvero l’acqua al malaffare sarebbero state necessarie riforme strutturali volte alla riduzione del perimetro dell’intervento pubblico, alla maggiore apertura e regolamentazione dei mercati, a più coraggiose privatizzazioni, ad un nuovo conio della funzione pubblica, all’azzeramento delle trafile burocratiche, ad un diverso sistema di contrappesi e di verifiche del rapporto pubblico/privato basato sul principio del contrasto di interessi e sulla sussidiarietà.
Al contrario i timidi segnali che in queste direzioni sono venuti dal centro durante i governi di centro sinistra (la destra italiana non ha mai scelto di spendersi, al di là dei proclami, per un programma liberale) non hanno avuto alcuna implementazione a livello locale, anzi il più delle volte si è assistito ad un ruolo frenante proprio nelle regioni rosse, con la motivazione inconfessabile di preservare il proprio sistema di potere.
A fare da scudo alla corruzione pubblica è rimasto perciò solo il sogno giacobino coltivato orgogliosamente nel cuore di tanti amministratori pubblici della sinistra.
Personalmente temo che esso, dopo Mafia Capitale, non sia più una garanzia sufficiente per tanta parte dell’opinione pubblica locale, né che, come dimostra l’esito negativo della candidatura Casson a Venezia, il tema possa essere risolto semplicemente ricorrendo a candidature dalla forte immagine “legge e ordine”.
Se è vero che la questione della limpidezza della pubblica amministrazione tornerà ad essere una delle chiavi fondamentali per decidere l’esito dei prossimi scontri elettorali, la sinistra, ma anche le altre formazioni politiche che comunque hanno una storia, dovranno cercare altre soluzioni, altrimenti si lascerà una comoda autostrada al successo elettorale del M5S che può vantare, proprio grazie alla mancanza di storia, la propria estraneità ai fenomeni corruttivi.
Decidere di disarmare definitivamente l’antico sistema di potere ed impedire che se ne formi uno sostitutivo, come ho proposto nel precedente articolo, ha dunque non solo una valenza straordinaria per ripristinare sani effetti di alternanza nel funzionamento della democrazia, ma costituisce anche il principale baluardo nel contrastare la diffusione del malaffare e la crescita politica di coloro che pensano di lucrare vantaggi elettorali dall’antipolitica.
Quelle profonde riforme hanno bisogno, tuttavia, per essere attuate di una condivisione e di un sostegno largo, devono divenire la narrazione di un nuovo spirito e legame nel quale possa identificarsi l’intera comunità locale.
Scegliere il mercato concorrenziale e regolamentato perché tutti possano avere le medesime opportunità, ribaltare il rapporto di sudditanza oggi esistente tra cittadini e pubblica amministrazione, promuovere principi meritocratici e non di relazione in tutti i rapporti pubblico/privato, oltre ad essere straordinari fattori “strategici” per il successo e la crescita del sistema locale, possono e debbono divenire elementi di coesione sociale, il collante immateriale che tiene assieme una comunità.
E’ la risposta vera all’inganno della comunità del web.
Dalla comunità dei fedeli a quella dei cittadini. Se dovessi riassumere in un incipit l’idea di comunità ed il cambio di regime ai quali occorre lavorare, sceglierei questa immagine provocatoria.
Il tema, come è noto, evoca questioni di grande spessore relative alla laicità dello stato, alla eguaglianza dei cittadini ed alla nascita della democrazia, tuttavia è evidente che non è ai temi della fede religiosa che penso, ma ad altre fedeltà che hanno improntato la nostra vita civile e politica. Fedeltà che si sono ammantate di spirito civico, ma che spesso hanno ferito la promessa di eguaglianza insita nel principio di cittadinanza.
Fedeli ad una ideologia, ad una parte politica, ad un sistema di potere che ha occupato e si è sovrapposto alle istituzioni. Fedeli perché vivevano di certezze incrollabili sull’azione e sul buongoverno dei propri rappresentanti considerati “migliori” degli altri, sui costanti benefici che poteva loro elargire la guida degli enti locali ad opera dei propri dirigenti, fedeli perché interpretavano l’esercizio del voto in una chiave identitaria e non come un sereno giudizio sui risultati raggiunti e sui programmi futuri.
Fedeli perché una ricca rete di intermediazione sociale, collaterale alla parte politica di appartenenza, copriva le molteplici domande ed esigenze del lavoro e della vita delle loro famiglie. Fedeli anche perché potevano virtuosamente convivere con altre “fedi” all’interno di un patto consociativo che lasciava davvero ai margini solo i “senza parrocchia”.
Personalmente non ho alcuna nostalgia per questa comunità dei fedeli, anche se in anni passati ne sono stato uno dei sacerdoti. In più oggi constato che si sono progressivamente dissolte le basi sulle quali si era fondata e che gli ultimi anni e gli ultimi eventi locali hanno impresso una straordinaria accelerazione a questa dissoluzione, tale da rendere del tutto evidente che risulta impossibile una sua sopravvivenza o anche una sua rifondazione sulle medesime basi.
Sono convinto perciò che le prossime elezioni non le vincerà chi presenterà il programma più “bello”.
Solo chi saprà spiegare cosa significa essere cittadini della Rimini nuova, che tutti vogliamo, potrà sperare di battere nelle urne l’antipolitica.
Sergio Gambini
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