Balzani: “La regione che vorrei. Sulle macerie del tortello magico”

Balzani: “La regione che vorrei. Sulle macerie del tortello magico”

Con Errani finisce un sistema elefantiaco di potere che ha avuto degli attori privilegiati. Richetti o Bonaccini? Non mi accontento di chi dice di essere il nuovo. Gnassi candidato per il dopo Errani? Meglio continui a fare il sindaco. La situazione in cui versano fiere e aeroporti in Emilia Romagna? Sono l'esempio più lampante del fallimento della politica regionale. Privatizzare? Sì, la partecipazione del pubblico non può che essere residuale o assente. La "resistenza" di Cagnoni alla privatizzazione? Come farsi guidare da chi ha tenuto in mano il sistema sul quale grava oggi un "buco" di quel genere, pericoloso per la città? Province: è stato saggio depoliticizzarle. Le tariffe dei servizi pubblici? Sono diventate una forma di tassazione occulta. I rifiuti? Sono una risorsa e un business da sottrarre ad Hera. La Romagna? Ha già una cultura comune e senza i feudatari della casta sarebbe uno spazio politico rappresentativo di oltre un milione di persone. Intervista a Roberto Balzani (nella foto).

Quando l’Emilia Romagna era ancora l’impero del Bonaparte ravennate, a Forlì spuntava (in mezzo ai soliti Bulbi) un renziano “a priori”. Incamminato sulla strada delle primarie prima dell’ex sindaco di Firenze, nella paludata Forlì il suo ingresso nella competizione politica all’interno del Pd ha avuto l’effetto di un petardo fatto esplodere in chiesa durante la consacrazione. Altroché rottamazione.
Al tramonto di Vasco Errani è alla periferia dell’impero, da dove spesso e volentieri arrivano le rivoluzioni, che bisogna guardare. La Leopolda di Roberto Balzani si è affermata nel confronto, a tratti ruvido e spigoloso, con il governatore che, come Abele, è caduto sotto i colpi del fratello maggiore e sempre per ragioni di terre. La colonna sonora potrebbe essere quella di Jovanotti: “No, Vasco! No, Vasco, io non ci casco”.
Nella città di Aurelio Saffi, lo storico Roberto Balzani, che siede anche nella direzione nazionale del Pd, guarda ad un nuovo Risorgimento per la regione che un tempo fece scuola per capacità innovativa e per consenso. A Forlì ha piantato i semi della implosione del sistema costruito da Errani ed ora è tentato di innaffiarli per vedere se la pianta potrà crescere fino ad arrivare a Bologna. A differenza di Renzi, che per ora ha rottamato soprattutto degli uomini, Balzani ha cominciato dall’interno a smontare un potere esteso, costruito a ragnatela, parecchio consociativo e invadente, che ha fiaccato anche le ultime sacche di resistenza. Che ha ipnotizzato le opposizioni e il mondo delle categorie economiche (basta vedere cosa è successo nella filiera del turismo).
Certo, Balzani non si farà mai fotografare in pantaloncini corti e T-shirt gialla mentre armeggia con gli attrezzi da fitness. Lui è un professore di storia contemporanea, ex presidente dell’Associazione mazziniana italiana e della Facoltà di Conservazione dei beni culturali dell’Alma Mater bolognese. Non ha costruito la sua carriera saltellando fra la politica, gli studi televisivi di Mike Bongiorno e di Maria De Filippi. Ma la spallata che sta dando, e che ha iniziato a dare durante i suoi “Cinque anni di solitudine”, per dirla col titolo del libro che racconta la sua esperienza di sindaco, non è meno forte di quella assestata da Renzi.

Allora professore, quindi lei è in campo per le primarie che dovranno scegliere il candidato chiamato a succedere a Vasco Errani?
A me interessa cambiare la politica regionale, per cui se questo si tradurrà nel sostegno ad un candidato attualmente in campo, o in qualcosa di più, si vedrà. Farò un passo avanti solo se sarà necessario. Non ho problemi ad essere uno dei candidati. La caduta di Errani e del sistema del “tortello magico” mi ha portato a riflettere. Siccome l’ex governatore è stato l’interlocutore col quale ho avuto più problemi nel corso del mio mandato di sindaco di Forlì, e siccome credo che la Regione Emilia Romagna abbia un problema di classe dirigente molto forte per poter essere rilanciata, mi stimola non poco l’idea di un impegno diretto per rimettere insieme persone, energie e mondi che negli anni sono stati completamente tagliati fuori, ad esempio l’università di Bologna. Per cui sono ancora in ballo. Per ora è solo una sfida estiva, vedremo come andrà.

L’uomo di Renzi, Richetti, sembra il favorito.
Sia lui che Bonaccini sono persone che hanno un profilo molto politico. Richetti un po’ più spostato sulla innovazione, Bonaccini innovazione nella continuità. Io non do per scontato niente,… ho visto tante schifezze durante i miei cinque anni di amministrazione che non mi accontento di chi dice di essere il nuovo. Pretendo che lo sia veramente. Non mi pongo prima di tutto delle preoccupazioni di schieramento.

Fra i nomi che circolano c’è anche l’autocandidatura del sindaco di Rimini.
E’ un nome che non sta in piedi. Prima di tutto perché se si è preso l’impegno di fare il sindaco deve arrivare fino in fondo, e questo vale anche per il sindaco di Imola.

Scalpitano entrambi…
Capisco che potrebbe essere una exit strategy dalle rispettive situazioni nelle quali si trovano, perché fare il sindaco oggi è come stare in un Vietnam. E poi Gnassi politicamente non è mai stato dentro la partita del confronto regionale, è una candidatura nata soprattutto per ragioni propagandistiche in loco. Nel dibattito regionale relativo alle candidature le presenze si contano in quattro o cinque e la discussione non nasce oggi.

Cosa pensa del finale della lunga vicenda politica di Errani?
Il modello emiliano era già finito da parecchi anni, rimaneva in piedi l’involucro politico, ma socialmente ed economicamente era esaurito da tempo, di fatto con la crisi economica e probabilmente anche prima. Con Errani finisce un blocco di potere omogeneo.
Non so se la classe dirigente regionale avesse immaginato la condanna di Vasco Errani, io personalmente no, non la davo per possibile e ritenevo che avremmo avuto davanti solo una fase di ricostruzione di una classe dirigente in una logica di continuità. La condanna di Errani, un leader che ha espresso comunque una capacità politica non banale, apre un vuoto.

E’ stato anche un modello invasivo quello messo in piedi da Errani…
Certo, fortemente segnato da una preponderanza del pubblico, gestita in una maniera anche pesante e con gruppi di attori privilegiati: una parte del sistema cooperativo, le multiutility (che sono un altro grande centro di potere), la sanità, gestita in maniera tendenzialmente “aziendalistica” ma con una marcata burocrazia di carattere regionale che, di fatto, è stata una specie di proconsolato della Regione sui territori. Un sistema elefantiaco che si è retto in piedi distribuendo in maniera irrazionale risorse, penalizzando alcuni e privilegiando altri, tanto da essere diventato politicamente insostenibile. In tempi di vacche grasse alcuni ottenevano di più, però in buona sostanza ce n’era per tutti, ma in una fase in cui c’è da tagliare, se il sistema è sperequato non regge.

Che giudizio ha dei tre mandati di Errani?
I due precedenti li avevo seguiti poco, in quest’ultimo ha avuto dei gravi problemi a confrontarsi con la crisi. Non dico che fosse un compito semplice. Dico però che oggi non si può fare a meno di rilevare che ci sono problemi strutturali di caduta del modello emiliano. Errani è stato l’ultimo tenace difensore di quel modello, che però era già morto. Ha cercato di salvaguardarlo fino all’ultimo e ancora adesso lo vorrebbe salvaguardare costruendo una eredità. C’è anche un altro aspetto.

Quale?
Un modello che è stato costruito sull’aumento dei servizi in una logica di incremento del pil regionale, cioè di crescita economica, non si fa facilmente gestire in una fase di caduta degli investimenti pubblici e di riduzione delle risorse.

Lei cosa ha in mente per la Regione post Errani?
Le priorità le ho ben chiare. Anzitutto l’urgenza di introdurre alcuni elementi di riconciliazione fra il sentire dei cittadini e le linee politiche. La sinistra ha preso voti su alcuni temi, penso ai beni comuni, spesso usati retoricamente, e poi la politica reale è andata da un’altra parte. Credo occorra ripartire dal riallineamento della narrazione politica del centro sinistra con la cultura di governo e la sua operatività. In questo filone il tema delle tariffe dei servizi pubblici è fondamentale, essendo una delle partite che rappresentano oggi una forma di tassazione occulta che affianca pesantemente la tassazione diretta. Come si gestisce, ad esempio, la partita dei rifiuti, che ha una incidenza enorme e reclama un ribaltamento di prospettiva?

Oggi è il business di Hera…
Esattamente, ma i rifiuti sono una risorsa, dovrebbero essere un bene e non un costo per la comunità, un business clamoroso, mentre la collettività paradossalmente paga dei costi, quando invece potrebbe avere dei benefici. Immagina cosa potrebbe significare mettere le mani su questo tema nella nostra regione?

Mani che però nessuno vuole mettere perché comunque i dividendi che arrivano da Hera sono una trasfusione di sangue per i Comuni.
Anche se ci sono comuni e comuni. C’è una disparità fra Comuni come Forlì, Ferrara o Rimini, ad esempio, che sono piccoli azionisti e che quindi hanno un ritorno sul bilancio comunale che è largamente inferiore in proporzione alla quota di utenti che portano alla compagnia, e comuni come Imola che avendo investito molto sulle azioni della holding ed avendo una popolazione ridotta, hanno un vantaggio consistente. Ci sono però tanti comuni che fra il dividendo di Hera molto alto e la qualità dei servizi o la dimensione delle tariffe, non avrebbero problemi a tagliarsi i dividendi per distribuire ricchezza ai cittadini in forma di sconti sulle tariffe e realizzando investimenti vari. Ma quel che spaventa è il silenzio su questa materia, nessuno ne parla. Non solo. Fra i candidati al posto di governatore c’è anche Daniele Manca, uomo Hera, e sorge il sospetto che venga schierato in campo per tutelare il sistema che ruota attorno ad Hera, essendo lui anche presidente del patto di sindacato romagnolo (espressione dei soci di Hera Spa delle province di Ravenna, Forlì-Cesena, Rimini e del territorio di Imola e Faenza, ndr).

Quali sono gli altri punti del “manifesto” Balzani per il dopo Errani?
L’altro argomento fondamentale nel filone dei beni comuni, è che la nostra Regione è arrivata ormai a dei livelli inaccettabili di consumo del territorio e di cementificazione, con conseguenze serie anche dal punto di vista turistico. Il modello, pure da questo punto di vista, va rivisto. Io sostengo che si debba intervenire non con la leva degli incentivi ma con quella della fiscalità.

In che senso?
Così come per i rifiuti il metodo deve essere “chi più inquina più paga”, così l’imposizione sulla casa dovrebbe crescere in maniera graduale con il decrescere della sicurezza dell’immobile. Se l’immobile è sismicamente protetto, produce un consumo basso di energia, se impatta meno sul sistema globale, deve avere un livello di imposizione più contenuto. Questo significa ribaltare completamente il sistema iniquo odierno della tassazione sugli immobili. Il tema fiscale è un’arma fondamentale per riuscire a ridefinre il modello di sviluppo.

Cos’altro immagina per rilanciare l’economia regionale?
Politiche di incentivo all’innovazione. Oggi le quote di spesa degli assessorati regionali sono enormemente differenti: l’assessore alla sanità gestisce l’80% delle risorse e quello alla cultura lo 0,1%. Vanno pensate funzioni omogenee e serve un assessorato che si occupi esclusivamente di intercettare i fondi europei e della loro ridistribuzione, che aiuti i comuni a fare le domande e a monitorare la spesa. Così come gli assessorati al territorio non ha più senso suddividerli fra l’ambiente da un lato e lo sviluppo economico dall’altro. Occorre una visione territoriale complessiva e unitaria. Infine c’è il tema della innovazione tecnologica. La pur meritoria rete dei tecnopoli, non ha dato grandi risultati: sono stati costruiti un po’ a pioggia sul territorio e hanno alimentato anche loro l’industria del mattone (si è speso molto più nella “scatola” che nei progetti di ricerca). E’ fondamentale una integrazione col mondo dell’università per capire dove andare a concentrarsi su tre o quattro priorità che si ritengono cruciali per il futuro della regione.

A proposito di interventi a pioggia, cosa pensa dei denari che finiscono nel sistema turistico?
Ho visto un sacco di soldi buttati nella promozione turistica e quello che manca completamente nell’amministrazione pubblica è il tema del feedback. Nel momento in cui faccio un investimento devo chiedermi qual è l’obiettivo, mentre l’analisi del feedback non c’è quasi mai, mancano forse anche le competenze. E c’è una ragione di questo: per il consenso politico è l’atto della spesa ad essere importante, quando premio qualcuno, perché in quel momento costruisco il consenso. Anche sotto questo profilo l’amministrazione pubblica va completamente riorientata. Se riuscissimo a costruire dei controllori indipendenti, partendo da presupposti chiari, avremmo posto le premesse per una svolta.

Qual è la sua valutazione sul proliferare delle sedi universitarie romagnole.
Il decentramento didattico ha funzionato discretamente, nel senso che ha intercettato quote di popolazione giovanile che, principalmente per ragioni economiche, non avrebbe potuto permettersi di andare in altre sedi universitarie. In qualche caso il decentramento ha attirato anche studenti da fuori perché alcuni corsi hanno funzionato. Il punto debole è quello della ricerca, pari quasi a zero. Anche qui occorre fare delle scelte e, alla luce delle esperienze più riuscite, capire quali sono i segmenti che possono essere passibili di una qualche efficacia, investendo su questi più risorse. Il lavoro di vaglio però dovrebbe essere molto onesto mentre spesso prevalgono logiche di campanile.

Aeroporti. Forlì e Rimini si leccano ancora le ferite.
Insieme alle Fiere, sono i due casi più lampanti del fallimento della politica regionale. Il tentativo di dar vita al cosiddetto sistema regionale non è approdato a nulla.

Perché?
Gli aeroporti sono un business nel quale la partecipazione del pubblico non può che essere residuale o addirittura assente. Trattandosi di un grande business internazionale è richiesta anche una qualità del management e dell’investimento, fattori che non sono di fatto perseguibili rimanendo su scala municipale. Comprare i voli “vuoti per pieni” pagando le società low cost e tentare di sostenere gli aeroporti con finanziamenti pubblici ha prodotto quel che vediamo a Rimini e Forlì. Questa stagione è finita. Purtroppo si è perso anche molto tempo per inseguire improbabili tentativi di collaborazione fra gli scali regionali che non hanno portato a nulla.

Fiere. Gestione pubblica o privata? Fusione o ognuno per conto proprio?
Le fusioni sono difficili anche perché le tre principali fiere regionali, Bologna, Rimini e Parma, partono da situazioni molto diverse fra loro dal punto di vista dei bilanci. Non ci si può poi esimere dal capire bene quale sia il livello di competizione dell’asse Bologna-Rimini rispetto al quadro nazionale e internazionale e quale sia il segmento nel quale si possono collocare.
Di fatto, i grandi investimenti compiuti per gli ammodernamenti non stanno dando ritorni adeguati. C’è un problema di gestione strutturale perché costano troppo rispetto a quello che incamerano. Ma mi sembra che la domanda urgente alla quale si debba rispondere, a partire da Rimini, non possa che essere la seguente: come fare a pagare il debito, che se dovesse rovesciarsi sulle casse del Comune sarebbe disastroso.

A Rimini il presidente Cagnoni è entrato in rotta di collisione con i soci pubblici e chiede di non affrettare la privatizzazione in attesa di tempi migliori, ma il sistema fieristico congressuale ha un “buco” che supera i 100 milioni di euro.
E’ difficilmente comprensibile la posizione del presidente Cagnoni. Come farsi guidare da chi ha tenuto in mano il sistema sul quale grava oggi un buco di quel genere, pericoloso per la città? E’ tempo di ripensare totalmente anche l’organizzazione, limitando i costi, puntando sulla flessibilità, e soprattutto imparando dagli esempi di eccellenza in ambito internazionale. La privatizzazione è sicuramente la scelta migliore, mantenendo in capo al pubblico non più di una quota di controllo per evitare l’eventuale depauperamento dell’asset.

La perdita delle Province fa piangere qualcuno, che non sia chi ha perso la poltrona?
No, tanto è vero che il 25 maggio in qualunque seggio non c’era un solo elettore che chiedesse: “Ohibò, perché non mi date la scheda per l’elezione del consiglio provinciale? Le Province sono già morte da tempo nel cuore degli italiani. Al di là del caos che regna nella riscrittura del titolo quinto, che è devastante, sulla decisione delle Province difendo a spada tratta Renzi e Delrio. Depoliticizzarle è stato un atto saggio, togliere un livello di mediazione politica all’amministrazione locale è stato un atto coraggioso. Quando eleggi qualcuno col consenso del popolo, poi quel qualcuno il potere lo vuole esercitare e se non è un potere costruttivo è un potere ostativo e questo erano le Province.

La Romagna è destinata a rimanere senza peso politico o qualcosa può cambiare?
Il potenziale della Romagna è reale e vale 1 milione e 200 mila abitanti, equivale sostanzialmente all’area metropolitana di Bologna. Bisogna distinguere i romagnoli dalla classe dirigente romagnola. I romagnoli erano municipalsti e autoreferenziali nel XIX secolo e fino al 1950, quando facevano i contadini. Oggi tendono a vivere lo spazio romagnolo come un unico spazio urbano. Nella cultura collettiva la Romagna esiste già come elementro vissuto.

E quindi cosa manca?
Esiste un feudalesimo politico, formato da gruppi dirigenti, che tende a ricostruire i municipalismi, pro domo loro, però, e con lo scopo di evitare la competizione politica. Questi sistemi neofeudali cercano di riprodurre il municipalismo come forma di competizione surrettizia, che non esiste più nella società odierna, e sostanzialmente lo fanno per evitare di competere.
Il limite della Romagna sta nel non essere in grado di produrre una classe dirigente che abbia una visione dei problemi su scala romagnola. I cittadini romagnoli sarebbero già pronti, la politica no. La politica si autoseleziona scegliendo i più fedeli al feudalesimo e i feudatari cercano di riprodurre il feudalesimo.
La svolta non è la creazione della regione Romagna, che non sarebbe competitiva su scala europea. Molto più interessante credo sia creare uno spazio politico romagnolo, e possiamo farlo perché abbiamo una cultura omogenea molto più forte che in tutte le altri parti della Regione. Esiste in questo senso un potenziale enorme non sfruttato.

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