Caso “Voce” e affini, il credito delle banche del territorio è di 10 milioni di euro

Caso “Voce” e affini, il credito delle banche del territorio è di 10 milioni di euro

In otto fallimenti a catena il passivo ammonta a 32 milioni. I giornalisti: “attendiamo giustizia e non molleremo”.

Ha fatto notizia questa settimana il passivo “monstre”, accumulato dalle società che erano direttamente amministrate da Gianni Celli o a lui riconducibili: circa 32 milioni di euro. Nel giro di poco più di due anni, sono state dichiarate fallite nove società (tre editoriali, le altre del settore edilizio e immobiliare), tra loro collegate e messe sotto osservazione dalla magistratura. Il calcolo del passivo è ancora provvisorio in questa catena che ha pochi precedenti nel riminese, o forse nessuno.
Fino alle ultime udienze in tribunale, il caso è stato trattato dalla stampa locale sulla base delle rivendicazioni avanzate pubblicamente dal gruppo dei giornalisti di Editrice La Voce, in un periodo in cui le dimensioni economiche della catena dei fallimenti non erano ancora emerse o stavano emergendo solo a fatica.
Oggi invece è possibile saperne qualcosa di più, in base a fonti sicure. E soprattutto siamo in grado di dare contorni più precisi alle aree che hanno subìto danni, potendo quindi stimare le ripercussioni sull’economia e la finanza del territorio romagnolo.
I dati sui quali riflettere sono i seguenti.
Le banche del territorio riminese, romagnolo e sammarinese devono avere 9 milioni 768mila e 200 euro. E’ la somma del credito prestato a suo tempo alle imprese amministrate da Celli, poi non restituito e che ora gli istituti di credito dovranno cercare di recuperare nelle procedure fallimentari, sempre che ciò sia fattibile. Ma a detta degli esperti, è probabile che di questi crediti, quasi interamente chirografari, le banche riusciranno a recuperare poco o nulla. Parliamo di Carim, Bper, Popolare Valconca, Credito di Romagna; mentre sul Titano (esposizione complessiva di 3 milioni e 550 mila euro) abbiamo il quintetto formato da Cassa di risparmio, Banca di San Marino, Asset, Bac e Cis. Oltre a queste troviamo poi la Nuova Banca Marche per 1,1 milioni di euro, soldi prestati quando l’istituto di credito non era “nuovo”.
Un altro capitolo di lacrime e sangue fino ad oggi poco sottolineato nella vicenda, è quello dell’“indotto” delle nove attività fallite. Disponiamo per ora dei dati di solo sette società, che hanno fruito di servizi e forniture per 11 milioni 129mila euro, senza pagarle. Parliamo di tipografie e forniture di carta, telefonia ed energia, condomini, agenzie, studi fotografici, avvocati e commercialisti, consulenti vari, in grandissima parte dislocati fra Rimini, Ravenna, Forlì-Cesena e Imola. Si prevede che sarà molto difficile anche per loro recuperare gli oltre 11 milioni: soldi che se ne vanno da aziende e studi professionali, impoverendo tutti.
Troviamo poi la categoria numericamente più rappresentata, quella dei giornalisti, che insieme a un drappello di fotografi e di grafici formano un gruppone di circa 60 persone, ex dipendenti e collaboratori delle tre aziende editoriali: tra stipendi non percepiti e TFR, i sessanta sono stati ammessi a un credito di 2 milioni 830mila euro. Dunque il dissesto di Editrice La Voce, con annessi e connessi, ha generato un dramma sociale che solo il welfare di categoria è riuscito, in parte, ad attutire.
Ci sono poi le amministrazioni locali danneggiate: cinque Comuni (Rimini, Cesena, Faenza, Meldola, Poggio-Torriana) compaiono fra i creditori per un totale di 28mila euro. Soldi che vengono a mancare nei bilanci, quindi il danno indirettamente si ripercuote sui servizi ai cittadini.
Anche le Camere di commercio della Romagna attendono dalle procedure fallimentari il recupero del loro credito di 5mila euro.
Concludiamo la rassegna con due capitoli assai gravosi, che danno il senso della gravità della vicenda Voce-Celli.
Gli istituti di categoria dei giornalisti (la cassa previdenziale INPGI, la cassa sanitaria integrativa CASAGIT e il fondo pensionistico complementare) si trovano ad essere creditori per una somma complessiva di 2 milioni 323mila euro. Si tratta dei contributi obbligatori ma non versati ai rispettivi istituti, con gli interessi e le soccombenze varie.
Infine, lo “Stellone”, lo Stato, la Repubblica italiana, chiamiamola come vogliamo, la bandiera che accomuna tutti quanti noi. Nei sette fallimenti da noi calcolati ha avuto un’emorragia di 4 milioni e 427mila euro: anche in questo caso, in massima parte si tratta di omesso versamento di ritenute dovute o certificate (vedi la condanna in primo grado a un anno e tre mesi di reclusione recentemente subìta da Celli, ma relativamente solo a un ristretto periodo contributivo), ed altre contestazioni.
Bene ha fatto l’editorialista de “La VORAGINE di Romagna”, il numero unico a cura dei giornalisti creditori distribuito nei giorni scorsi in tribunale, a scrivere: «La nuova legge economica che emerge è la seguente: chi “lavora gratis” crea un capitale illegale per chi “non lavora a pagamento”».
Resta il fatto che un progetto editoriale ventennale ed un’intera redazione romagnola sono stati completamente distrutti, in attesa – chissà – che la testata possa riemergere.
Quello che vediamo oggi è un panorama di rovine, e non solo per chi ci ha rimesso il posto di lavoro, perché un giornale ha rilevanza pubblica, tanto più quando chi lo gestisce attinge alle finanze statali (nel caso in specie, il Dipartimento editoria di palazzo Chigi ha corrisposto oltre 20 milioni di euro ai proprietari del giornale in una dozzina di anni, fino al 2014).
Ma senza fermarsi al lamento, oggi i creditori di Editrice La Voce e delle altre società riconducibili a Celli continuano nell’opera di informazione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica, in attesa che venga loro riconosciuta giustizia. E non molleranno.

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