Fellini: “Rimini è un pastrocchio davanti al grande respiro del mare”

Fellini: “Rimini è un pastrocchio davanti al grande respiro del mare”

Rimini è una parola fatta di aste, di soldatini in fila.

Quando mi trovo a Rimini, vengo sempre aggredito da fantasmi già archiviati. Così scriveva il regista nel 1971 sul Corriere della Sera. E aggiungeva di avere trovato una Rimini inventata alle porte di Roma. "E' il mio paese, quasi pulito, nettato dagli umori viscerali".

Io, a Rimini, non torno volentieri. Debbo dirlo. E’ una sorta di blocco. La mia famiglia vi abita ancora, mia madre, mia sorella: ho paura di certi sentimenti? Soprattutto mi pare, il ritorno, un compiaciuto, masochistico rimasticamento della memoria, un’operazione teatrale, letteraria. Certo, essa può avere il suo fascino. Un fascino sonnolento, torbido. Ma ecco: non riesco a considerare Rimini un fatto oggettivo. Pensare a Rimini. Rimini: una parola fatta di aste, di soldatini in fila. Non riesco a oggettivare. Rimini è un pastrocchio, confuso, pauroso, tenero, con questo grande respiro, questo vuoto aperto del mare; lì la nostalgia si fa più limpida, specie il mare d’inverno, le creste bianche, il gran vento, come l’ho visto la prima volta. E’ piuttosto, e soltanto, una dimensione della memoria. Infatti, quando mi trovo a Rimini, vengo sempre aggredito da fantasmi già archiviati, sistemati.
Forse questi innocenti fantasmi mi porrebbero, se vi restassi, una imbarazzante muta domanda, alla quale non potrei rispondere con capriole, bugie; mentre bisognerebbe tirar fuori dal proprio paese l’elemento originario, ma senza inganni. Rimini: cos’è? E’ una dimensione della memoria (una memoria, tra l’altro, inventata, adulterata, manomessa) su cui ho speculato tanto che è nato in me una sorta di imbarazzo.
Sono partito da Rimini nel ’37. Ci sono tornato nel ’46. Sono arrivato in un mare di mozziconi di case. Non c’era più niente. Veniva fuori dalle macerie soltanto il dialetto, la cadenza di sempre, un richiamo: “Duilio, Severino!” quei nomi strani, curiosi.
Molte delle case che avevo abitato non c’erano più. La gente parlava del fronte, delle grotte di S. Marino in cui si erano rifugiati e io provavo la sensazione un po’ vergognosa di essere stato fuori dal disastro.
Poi facemmo il giro per vedere cos’era rimasto. C’era ancora la piazzetta medievale della “pugna”, intatta: in quel mare di macerie, pareva una costruzione di Cinecittà fatta dall’architetto Filippone.
Mi colpì l’operosità della gente, annidata nelle baracche di legno: e che parlassero già di pensioni da costruire, di alberghi, alberghi, alberghi: questa voglia di tirar su le case.
A piazza Giulio Cesare i nazisti avevano impiccato tre riminesi. Adesso c’erano dei fiori per terra.
Ricordo che ebbi una reazione infantile. Quello spettacolo mi pareva un oltraggio sproporzionato. Ma come, non c’è più il Politeama, non c’è più quell’albero, la casa, il quartiere, il caffè, la scuola! Mi pareva che avesse dovuto frenarli il rispetto per certe cose. Sta bene, è la guerra: ma perché distruggere proprio tutto?
Poi mi portarono a vedere un grande plastico, in una vetrina. Pareva che gli americani avessero promesso di ricostruire tutto a proprie spese, come un atto di riparazione. Il plastico, infatti, prefigurava la Rimini futura. I riminesi guardavano. Poi dicevano: “Sembra una città americana. Ma chi la vuole la città americana?”.
Forse Rimini io l’avevo già cancellata per mio conto, in precedenza. La guerra aveva compiuto anche l’atto materiale. Allora mi pareva, poiché la situazione s’era fatta irreversibile, che tutto, invece, dovesse restare.
Intanto, però, Rimini, io l’avevo ritrovata a Roma. Rimini, a Roma, è Ostia.
Quella di Ostia è una passeggiata sulla quale dirigo spesso la macchina, anche inconsapevolmente. A Ostia ho girato “I Vitelloni” perché è una Rimini inventata: è più Rimini della Rimini vera. Il luogo ripropone Rimini in una maniera teatrale, scenografica e, pertanto, innocua. E’ il mio paese, quasi pulito, nettato dagli umori viscerali, senza aggressioni e sorprese. Insomma è una ricostruzione scenografica del paese della memoria, nella quale puoi penetrare, come dire?, da turista, senza restare invischiato.

Federico Fellini

Corriere della Sera, 25 Maggio 1971

COMMENTI

DISQUS: 0