“Fuga dal piano strategico. Per salvare architettura ed edilizia moribonde”

“Fuga dal piano strategico. Per salvare architettura ed edilizia moribonde”

Meno pianificazione e più architettura. Perché l'unica opera contemporanea degna di nota a Rimini continua ad essere il grattacielo. Mentre si filosofeggia sulla città ideale, regna l'immobilismo. E i progetti si trasformano in carta burocratica esangue. Parla l'architetto Alessandro Franco.

Il piano strategico di Rimini è un sistema hegeliano che contiene pagine e pagine di bella filosofia. Il solo documento finale ne conta 223. Ci passino il paragone e anche l’affronto, i filosofi di professione e gli amanti della sapienza in genere. E chiuda un occhio il buon Hegel, che solo all’accostamento si starà rivoltando nella tomba.
La metodologia, la prima fase, la seconda, la vision e la mission, la carta dei valori, i cinque ambiti di grande intervento, le azioni, i criteri di valutazione. Solo a scorrere l’indice c’è da farsi venire il mal di mare. Arrivati in fondo, poi, del librone sulla metafisica della città ideale che gli estensori del piano strategico hanno pensato per noi, rischia di scattare l’infarto perché il quarto capitolo recita: “Verso il secondo piano strategico di Rimini”.

E’ un sistema pesante anche nella organizzazione: comitato promotore, comitato scientifico e advisory board, forum, direzione amministrativa e otto gruppi di lavoro. Nemmeno l’organizzazione dell’Expo ha azzardato tanto. Cervelloni a briglia sciolta si sono sbizzarriti per anni immaginando di tutto e di più. Un sistema che ha la pretesa di invadere tutto, esondare dall’ambito del comune di Rimini per dettare legge in tutti i 27 comuni della provincia e infatti negli ultimi mesi ha elucubrato sul “contratto di fiume Marecchia”. In forza di quali risultati ottenuti tentano di esportare il piano strategico? Per ora si sono visti solo obiettivi marginali rispetto a quelli pomposamente elencati e che avrebbero dovuto cambiare il volto della città.

Uno sforzo ciclopico e anche, ormai, un investimento sostanzioso, che vede sommarsi spese di anno in anno, legate ad una sede bella grande, dipendenti comunali impegnati, incarichi ben pagati. Con un reuccio che siede sulla tolda di comando e che risponde al nome di Maurizio Ermeti. Ma a chi risponde della sua gestione? E, soprattutto, perché continuare a tenere in piedi una macchina filosofico-spendereccia come questa quando nel pubblico si taglia (sempre poco) e nel privato si muore? Il marchingegno si è messo in movimento ben sette anni fa, nel luglio del 2007, ma già gli ingranaggi si erano azionati due anni prima. Il piano è stato approvato dal consiglio comunale di Rimini nel maggio 2010.
Cosa ne è di tutta la vision accumulata in anni di pensieri in libertà, con la benedizione del vescovo, di pubblici amministratori, presidenti di Camera di Commercio e Fondazione Carim?

“Mentre Rimini è ferma al grattacielo”, come ci dice l’architetto che intervistiamo, e le imprese dell’edilizia esalano gli ultimi respiri, il piano strategico ha la pretesa di dirci cosa dovrà essere Rimini fra 20 anni. Ma ci saranno ancora imprese e imprenditori a Rimini a quella data, quando già prima che la stagione 2014 sia giunta al termine ci sono decine e decine di albergatori, bagnini, gestori di discoteche e ristoratori che lamentano affari fallimentari? Tanto che anche il sindaco Gnassi vorrebbe attaccarsi alla coda di un’estate avara di soddisfazioni e chiede il rinvio dell’inizio dell’anno scolastico.

“Con l’illusione di dare una visione del futuro, ridisegnando la città dei prossimi vent’anni, a Rimini si è perso di vista il contingente e il concreto, cioè la necessità di produrre architettura”. Chi parla è l’architetto Alessandro Franco, dello studio Rcf di Riccione, che in quel comune ha realizzato lo stadio del nuoto, ad esempio, ma tanti sono i progetti firmati in giro per l’Italia. Lo stadio, figlio di un project financing, è stato terminato in dodici mesi, quasi un record nella storia delle opere pubbliche. “Ho sempre avuto l’impressione di una grande dispersione nel piano strategico, e ammesso che contenga la famosa vision, se per produrre i fondamentali sono stati necessari tre o quattro anni, per passare dalla teoria alla pratica quanti altri ne serviranno?”.
Nel frattempo tutto bloccato e le imprese chiudono. “Come minimo, il piano strategico cade nel momento sbagliato perché si discute del futuro quando il presente è tabula rasa”.

“L’idea di pianificare un territorio, che di per sé è dinamico, spesso non porta da nessuna parte, se non a fossilizzare l’esistente. Perché oggi le città sono conurbazioni complesse, amebe che si ampliano a dismisura e che sfuggono al controllo. Inoltre, il mercato e la realtà in genere, si muovono più velocemente rispetto ai piani, che quasi sempre peccano di eccessiva rigidità”. L’architetto conosce bene l’iter del piano strategico, anche per avervi partecipato fino ad un certo punto del percorso. “Fa parte di una pianificazione basata su studi di anni che poi produce dei retini colorati da posizionare su una piantina della città. Questa non è architettura e io dico: meno pianificazione e più architettura”.
Ma non c’è il rischio che questa logica produca solo sviluppo selvaggio? “Lo sviluppo selvaggio è avvenuto nel momento in cui le città erano piene di piani regolatori. Anzi, lo sviluppo selvaggio è a volte incentivato proprio dai Prg. Basti pensare a quello che è avvenuto nel dopoguerra”.

Fuga dal piano strategico, dai piani regolatori e dal comune imprenditore. “E’ ora di accantonare le solite pianificazioni pubbliche, gli accordi politico-pianificatori, insomma, e agire con strumenti più agili, facendo ampio uso di project financing e “appalti concorsi” all’insegna della velocità. Concorsi veloci e di qualità, è così che si lavora in tutta Europa e questo è il modo per rilanciare l’attività edile anche a Rimini, all’insegna della qualità e facendo ripartire un mercato che langue. L’architettura è stata soffocata dai Prg, Poc, Rue, Psc, piani infrastrutturali, piano strategico e chi più ne ha più ne metta. L’ente pubblico non dovrebbe andare al di là di fornire una “velatura” di pianificazione, molto molto leggera, per poi dare spazio ai progetti”.
L’ente pubblico – aggiunge – dovrebbe solo individuare necessità urbanistiche di tipo pubblico (scuole, asili, ospedali), ritagliandosi realmente un ruolo da amministratore e non da imprenditore. Deve essere a servizio del cittadino, deve risolvere i problemi affinché quello che il privato propone venga messo in atto, non ostacolare tutto quello che non esce dal pubblico.
“Non dico di buttare alle ortiche il piano strategico, ma di considerarlo per quello che è: come elemento di studio da mettere a disposizione di tutti. Ma sono poco più di parole, mentre Rimini ha bisogno di architettura, di progetti realizzabili, ha urgenza di sollecitare l’interesse, bandire concorsi, coinvolgere le imprese …”

L’analisi dell’architetto Franco è questa: “Rimini è segnata dall’immobilismo a causa di una pianificazione territoriale che, unita alla giungla di normative regionali e statali, paralizza le possibilità progettuali riducendo i progetti a carta burocratica esangue. Ecco perché sta morendo l’architettura della città e con essa anche l’edilizia”.

Occorre una cura d’urto. Oltre a cambiare mentalità e metodo di approccio al problema, Franco suggerisce di “puntare sull’aspetto visionario della città, che è quello che ci ha indicato Fellini. Perché il visionario è l’unico realista. La forza di Rimini è sempre stata quella di spingersi avanti, magari anche in idee folli, ma che hanno saputo precorrere i tempi”.
Un esempio del passato e uno recente. “Il Tempio Malatestiano può essere considerato il primo esempio di realizzazione di qualcosa di grande a Rimini. Malatesta chiamò la massima autorità del tempo, Leon Battista Alberti, umanista e architetto, e gli affidò un incarico, proprio come avviene oggi. E poi il grattacielo, un’altra esperienza esemplare perché nasce in un periodo di crisi e attorno ad un progetto geniale si è innestato il lavoro per una trentina di imprese ed altre sono potute uscire dalla stagnazione che le stava facendo morire. Ma il grattacielo è l’unica opera contemporanea che Rimini possa vantare, il problema è che risale a oltre mezzo secolo fa. Per il resto ha lo stesso lungomare e la spiaggia di sempre, parcheggi assenti, viabilità coi problemi ben noti”.

Archistar e dintorni. “Un forte aiuto può venire a Rimini da progetti di forte impatto, come quelli che erano stati ipotizzati per il lungomare (Nouvel, Foster e Julien de Smedt). Non entro nel merito estetico, ma osservo solo che interventi di un certo tipo, di alta qualità, possono incoraggiare il rilancio, diventando poli attivatori per altri interventi analoghi. Sono tanti gli esempi al mondo, non da ultimo Bilbao, che è diventata una delle principali mete turistiche d’Europa”.

Invece la cifra architettonica della Rimini di oggi è il Teatro Galli com’era e dov’era. Si sono già versati fiumi d’inchiostro e Alessandro Franco se la cava così: “Come dice Kandinsky si rischia di fare nascere un bambino già morto”.

In sintesi: operare su parti di città e non su tutta, dare spazio alla iniziativa privata e puntare su progetti importanti che possano fungere da volano. Depotenziare l’apparato burocratico e l’invadenza del pubblico, incentivare project e concorsi agili e flessibili come chiede il mercato.
Questa però non è una filosofia ma la strada stretta che, dopo la lunga e improduttiva lettura urbana partorita dal piano strategico, occorre forse imboccare.

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