La nostra è sempre stata una cucina da morti di fame.
Sono un romagnolo del sud, nato tra il mare e l’Appennino. A nord la campagna si stempera verso Cesena, ad est sfuma nella Marca pesarese. Il Titano è lì, azzurra visione, e il Montefeltro dipinge i quadri di Raffaello. Bastardi per natura, mescolanza di gusti, di saperi e sapori.
Da Rimini partirono le consolari: la Popilia verso Aquileia, l’Emilia per Piacenza, e la Flaminia verso la Capitale dell’Impero!
Qui (hic sunt leones), arrivavano i pellegrini anche dalla Ungheria. Il Beato Enrico era uno di quelli prima di diventare un gran Sangiovese.
La nostra è sempre stata una cucina da morti di fame. La Piada (non la piadina), ne è l’esaltazione, le poveracce la giustificazione, i pidocchi (cozze) la sublimazione, le canocchie e la saraghina dovrebbero ricordare a molti le nostre origini.
Dopo millenni di fame, ora la nostra cucina è eccessiva, abbondante, esagerata. La prima cosa che mi chiedeva mia mamma dall’alto dei suoi anni era “ti magnè”? Perché quello era il rischio atavico: non riempire la pancia.
Dicevo delle povere origini: assente la carne, la “pilegra” diffusa, l’olio poco, centellinato e rancido, il vino una “birela” che ai primi caldi diventava aceto.
Pochi i grassi: qualche pretone di campagna pasciuto e rubicondo, e il possidente di città, taccagno, avaro e senza cultura.
Non c’è stata, come dice il mio Maestro Piero Meldini, una borghesia illuminata, non c’è stato un ceto produttivo aperto alle novità. Se i contadini raspaterra non fossero diventati per necessità bagnini ed albergatori, sfangarla sarebbe stata durissima.
La Riviera, il mare, la sabbia, il turismo ci ha salvati.
Ora è arrivato il tempo per ripartire.
Rurali sempre.
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