I Condhotel fanno bene al sistema ricettivo della Riviera

di Sergio Gambini La discussione che si è aperta in questi giorni sul condhotel, al di là dell’argomento nella sostanza abbastanza marginale rispetto

di Sergio Gambini

La discussione che si è aperta in questi giorni sul condhotel, al di là dell’argomento nella sostanza abbastanza marginale rispetto alle sorti del nostro turismo, è una spia significativa della cultura economica che guida l’approccio della classe dirigente locale alla crisi del modello di ricettività alberghiera della riviera.
Intanto intendiamoci di cosa stiamo discutendo.
Ne ho sentito parlare per la prima volta tre anni fa a Venezia alla Fiera del Real Estate Turistico e ho scoperto che alcuni degli alberghi nei quali avevo soggiornato erano appunto dei condhotel. Buoni alberghi, in città importanti.
Il condhotel è una formula di gestione delle imprese e degli immobili turistici, molto diffusa nel mondo anglosassone e che ha già numerosi esempi in diversi paesi europei. E’ stata largamente introdotta nei paesi mediterranei per fronteggiare le ripercussioni della crisi del settore immobiliare nel campo turistico. Vi sono già alcuni esempi anche in Italia (Milano, Torino, Roma), cresciuti ai margini di norme legislative che non prevedono questo tipo di ricettività alberghiera.
Il condhotel è a tutti gli effetti un albergo. E’ composto da camere, suite e/o unità abitative, aperte al pubblico, che vengono gestite unitariamente, ma che hanno proprietari differenti. Non si tratta di un unico immobile diviso in diverse quote societarie come le multiproprietà, ma di frazioni immobiliari, appartenenti ad un unico complesso, che vengono gestite unitariamente in forma di albergo.
E’ una formula adottata principalmente da alberghi di fascia alta, collocati al centro delle città e in località turistiche di qualità, dove l’acquirente si reca periodicamente per lavoro o per vacanza, o legati ad attività che possono essere svolte soltanto nelle loro vicinanze, in un contesto di prestigio, come il gioco del golf o la nautica da diporto, tuttavia nei paesi che l’hanno introdotta si è rapidamente diffusa anche a strutture di fascia più bassa.
In Spagna è stato introdotto come soluzione per smobilizzare i cospicui investimenti realizzati in strutture ricettive di prestigio, il cui rendimento d’impresa non riesce a ripagare, se non in un periodo troppo lungo, l’investimento intrapreso. Le singole unità abitative frazionate, dopo essere state vendute, vengono riaffidate alla società che gestisce l’albergo nel quale sono integrate, che garantisce la loro manutenzione e la gestione ricettiva come una qualsiasi altra stanza di quell’albergo, garantendone lo standard.
Per capirci niente a che vedere con i residence, i meublé e le parabole di degrado che in alcuni casi, anche sulla nostra riviera, si associano a quelle formule. Si tratta invece di alberghi che possono riuscire a vendere una parte delle proprie unità abitative solo se rimangono alberghi e possono spuntare maggiori prezzi di vendita se è più alta la qualità dell’offerta alberghiera.
Per l’acquirente il vantaggio consiste nell’uso del bene secondo le proprie necessità in forma alberghiera, nell’effettuazione di un investimento immobiliare di valore, ma abbastanza modesto (gli esperti del settore immobiliare hanno esteso a queste vendite il concetto di acquisto d’impulso), che può essere rivenduto in modo autonomo, nell’ottenimento di una resa dell’investimento, seppur minima, calcolata in relazione al tempo di utilizzo diretto dell’immobile.
Sempre in Spagna, grazie a questa formula, si è avuto accesso al mercato dei piccoli investitori immobiliari del nord Europa. Una domanda ricca e promettente, alimentata dal risparmio delle famiglie di ceto medio alto, che non riesce a trovare sbocco nel nostro paese a causa di normative che non consentono di frazionare gli immobili a destinazione turistica. Un vuoto normativo che blocca la competitività e l’attrattività di investimenti dell’Italia rispetto ad un mercato consolidato ed in crescita.
Il paradosso è che un paese a grande vocazione turistica come il nostro resti ancorato a formule di ospitalità e di impresa alberghiera del secolo passato e si precluda una internazionalizzazione della propria offerta che in altri paesi avviene anche in questa formula di investimenti diffusi.

Può essere utile per la struttura ricettiva della nostra riviera?
Direi di si. Riqualificare le fasce medio alte della nostra offerta, accedendo ad investimenti esteri, mi sembra perfino scontata come meta economica desiderabile.
Rimini è sempre stata patria dell’emulazione, se non ci fosse stato il Grand Hotel probabilmente non sarebbe mai nata neppure la pensione Rosina. Non mi preoccuperei perciò se inizialmente questa nuova formula interessasse solo l’eccellenza della nostra offerta. L’innovazione, anche dal punto di vista gestionale, per noi è vitale e un condhotel propone non solo un nuovo modello di ricettività, ma muta alla radice l’antica visione “proprietaria” che molti nostri operatori si portano ancora dietro dagli anni ’50 e rende finalmente obsoleto il mito della gestione familiare.
A lume di naso, se fossi un amministratore pubblico farei di tutto per cavalcare questa onda dell’innovazione che incide sull’hardware della riviera.
Il testo in discussione alla Camera può senz’altro essere migliorato. Come è noto il diavolo si nasconde nei dettagli e perciò ogni virgola va attentamente soppesata per evitare che le migliori intenzioni vengano tradite, aprendo la strada ad intendimenti speculativi, opposti alla nuova formula di ricettività alberghiera che viene proposta.
Mi sembra ad esempio ragionevole preoccuparsi perché il condhotel, in quanto struttura unitaria, si identifichi con un unico edificio od un unico complesso per evitare furbate ed escluda la possibilità di stabilirvi la residenza, perché comunque di ricettività turistica stiamo parlando.

La discussione aperta tuttavia mi pare metta allo scoperto alcuni fardelli che ancorano al passato la nostra cultura politica ed economica e che, anche in modo inconsapevole, funzionano come riflessi condizionati.
Sono culture antiche che faticano a morire e che finiscono per pregiudicare le scelte di molti di coloro che guidano, a diverso titolo, la nostra comunità. Mi limito ai titoli.
C’è la tentazione costante di dirigere il mercato.
A sinistra, come a destra, tra gli imprenditori, come nel sindacato, alla cultura della regolazione del mercato di forte matrice anglosassone, si preferisce troppo frequentemente, il dirigismo. Un dirigismo all’italiana per di più, inefficiente ed opaco.
E così siamo la patria dei conflitti d’interesse endemici, delle autorità di regolamentazione che sono anche giocatori delle partite economiche, delle lenzuolate di liberalizzazione che vengono contraddette dai patti di sindacato per mantenere il controllo pubblico delle partecipate, delle cordate sponsorizzate. Regolare il mercato dovrebbe consentire invece di dispiegare al meglio la sua forza per il bene della comunità, senza caricare il pubblico di compiti che non gli competono e per i quali non ha attitudine.
Capita perciò che nei piani urbanistici ci ostiniamo a prescrivere dove devono nascere negozi ed uffici, anche se il mercato non ne vuole sapere. Ci siamo inventati con legge nazionale, credo unici al mondo, il vincolo di destinazione alberghiera, quando norme urbanistiche semplici e flessibili sarebbero state più che sufficienti ad arginare eventuali fenomeni speculativi. Oggi temo che rifiuteremo i condhotel perché non li abbiamo mai visti e non sappiamo come “programmarli”.
C’è la diffidenza per l’internazionalizzazione.
Alla fine degli anni ’60 i grandi tour operator internazionali abbandonarono la nostra riviera e costruirono i loro complessi in Spagna, Grecia e Turchia, rendendo progressivamente Rimini una destinazione marginale, perché chi ci governava per ragioni ideologiche rifiutava i cosiddetti “monopoli” ed il loro insediamento sul nostro territorio. Abbiamo dovuto attendere la caduta del muro di Berlino ed il turismo russo fai da te per tornare ad avere voce in capitolo nel turismo internazionale. I tour operator non votano ed allora meglio “piccolo è bello”.
Ora sarebbe la stagione per internazionalizzare le infrastrutture turistiche, ma sappiamo come è andata a finire con l’aeroporto e per il polo fieristico congressuale l’aria è quella di “fare sistema” piuttosto che costruire una privatizzazione orientata ai mercati internazionali.
Temo spaventi perfino la presenza di piccoli investitori immobiliari provenienti dall’estero e modalità di vendita, come quelle dei condhotel, molto trasparenti, senza aggiustamenti in nero e lontane da intermediazioni politiche, modalità, per giunta, delle quali non possediamo il know how.
C’è infine la paura per la morte della governance consociativa.
Da sempre, da quando ancora esistevano le Aziende di Soggiorno di nomina ministeriale, il governo del turismo locale ha sempre avuto questa caratteristica. Nei periodi migliori ha prodotto anche buoni risultati, ma nella fase discendente ci ha regalato un conservatorismo asfissiante.
Hanno finito per prevalere gli interessi delle associazioni su quelle degli imprenditori e troppo spesso gli equilibri sono stati ritagliati sui vagoni più lenti e refrattari all’innovazione delle imprese locali.
Chi gestisce un’operazione condhotel ha necessariamente altri orizzonti, respira un’altra aria e potrebbe risultare scomodo per gli antichi equilibri.
Apertura e regolazione del mercato, internazionalizzazione, fine del consociativismo, se i condhotel, oltre a servire per la qualificazione della nostra offerta turistica, possono portare una piccolissima spinta in questa direzione per me sono benvenuti.

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