La giustiziera Sarti, il “cane che si strozza” di Arlotti, l’autoritratto di Pizzolante a 9 anni

La giustiziera Sarti, il “cane che si strozza” di Arlotti, l’autoritratto di Pizzolante a 9 anni

Fa il giro d’Italia il discorso di ieri della grillina. Il paragone con altre dichiarazioni di voto finale dei deputati riminesi. Memorabile quella di Tiziano Arlotti: “Come dicono da noi a Rimini, quando il cane si strozza, non si strozza con le lasagne, si strozza col mescolo".

Ha fatto il giro d’Italia il tonitruante discorso di Giulia Sarti, ieri mattina alla Camera per la dichiarazione di voto finale del M5S sulla fiducia messa dal governo alla riforma del processo penale. Undici minuti e 16 di video (con migliaia di visualizzazioni e condivisioni) dove la trentenne grillina riminese, giacca di colore acceso e lunghi capelli sulle spalle, sfodera gli artigli come non mai.
Le perle: “Dentro questo provvedimento, sono contenute tutte le porcate più eclatanti, in materia di giustizia”, “schifosa riforma”, “possiamo aspettarci qualsiasi cosa, qualsiasi cosa da questi governicchi che si succedono da quattro anni e mezzo”, “schifezze, cose che non stanno né in cielo né in terra”, “un bavaglio vero e proprio”, “ci sono mafiosi nelle carceri che beneficeranno delle videochiamate”, “Skype ai mafiosi: ma stiamo scherzando? Stiamo scherzando?”. E ancora: “questo governo pensa ad impallare ancora di più le procure e i tribunali”, “sostanzialmente la metà dei processi in questo Paese che rischiano di non poter essere celebrati”, “una presa per i fondelli ai cittadini”. Sontuoso il finale fra gli applausi del gruppo di appartenenza: “quanti ne vogliamo assolvere, ancora, di mafiosi che scendono a patti, anzi, di politici che scendono a patti con la mafia? Quanti ancora? Noi ce le ricorderemo tutte, una per una, queste norme, una per una, queste leggi porcata che avete fatto in questa legislatura. Quando saremo al Governo, non faremo come voi, che non cancellate le leggi di Berlusconi. Noi le cancelleremo una dopo l’altra”. Applausi che avevano raggiunto l’apice anche nel momento in cui la Sarti se l’era presa con “re Giorgio”, alias Napolitano: “spara moniti ancora, perché si sente ancora, probabilmente, Presidente della Repubblica, e il PD esegue, il Pd esegue. Non è cambiato nulla, non è cambiato nulla”.
Quattro anni fra Commissione Giustizia e Commissione parlamentare d’inchiesta sulle mafie, la laureata in legge del M5S era alla sua sesta dichiarazione di voto finale, un compito a lei affidato quasi sempre su temi di giustizia. Questa volta la Sarti ha fatto veramente legna – complice anche la cadenza romagnola con “esse” da brivido -, incendiando l’aula per mettere sul rogo il Pd, reo di avere messo nel ddl “un sostanziale divieto di pubblicazione delle intercettazioni penalmente rilevanti”, “incredibile, perché abbiamo avuto ministri di questo Governo che si sono dimessi proprio grazie alla pubblicazione di intercettazioni penalmente rilevanti, abbiamo avuto scandali che sono venuti fuori proprio grazie al fatto che, finalmente, riuscivano ad uscire sulla stampa conversazioni politicamente rilevanti”.
E gli altri deputati locali?
Tiziano Arlotti ha fatto una dichiarazione di voto finale solo due volte. La più recente il 6 aprile scorso sull’abolizione (ed il futuro ritorno sotto altre forme) dei voucher. Uomo votato più alla concretezza che ai voli retorici, il 57enne ex sindacalista ha badato comunque a strappare l’applauso dei vicini di banco (ed i “commenti dei deputati del gruppo Lega Nord e Autonomie-Lega dei Popoli-Noi con Salvini”) proprio ricorrendo alle origini romagnole, a uno sprazzo di antica saggezza contadina. Fu quando, a metà del suo discorso, tirò fuori un detto memorabile: “come dicono da noi a Rimini, quando il cane si strozza, non si strozza con le lasagne, si strozza col mescolo, ovvero è l’ingordigia, lo ripeto, è l’ingordigia che fa saltare questo strumento”. Il deputato ce l’aveva con chi ha “abusato” del voucher, a differenza di chi “l’ha usato perché veramente non poteva fare diversamente”. Con le antenne sempre rivolte al collegio (“stiamo parlando, solamente nel settore del turismo, di qualcosa come centinaia di migliaia di lavoratori che possono avere la disoccupazione e, addirittura, abbiamo portato da tre a quattro mesi la copertura della NASPI anche per i lavoratori stagionali”), l’ex vicesindaco in quella occasione annunciò che al posto dei voucher avrebbe dovuto “essere messo in campo uno strumento che dia maggiori garanzie e tutele ai lavoratori, che distingua e favorisca i lavoratori stagionali dai lavoratori a chiamata, dai lavoratori intermittenti e occasionali”.
In quella stessa seduta primaverile, parlò anche Sergio Pizzolante, in questo caso in una delle sue undici dichiarazioni di voto finale di questa legislatura, calcolando entrambe le bandiere da lui sventolate nel tempo.
Un discorso rivolto alla CGIL, sulla base dello schema: noi del governo siamo riformisti, voi del sindacato reazionari.
Curiosa fu la parte introspettiva del ragionamento, quando Pizzolante, oggi 56enne, parlò di quando aveva 9 anni: “ero un ragazzo, un giovane socialista, ed ero orgoglioso della legge di Brodolini, dello Statuto dei lavoratori e della legge del 1970 e quindi ho cercato di interrogarmi, di capire come mai oggi io abbia una posizione ostile e contraria a una parte di quella legge, e anche all’articolo 18 così com’era”. Inquisito da se stesso sulle sue tendenze politiche pre-adolescenziali, Pizzolante ha concluso di avere ragione oggi, perché contrario al vecchio articolo 18, ma di avere avuto ragione anche quando, da ragazzo, aveva l’idea opposta.
Infatti, è successo al deputato ex Psi, ex Pdl, oggi Ap, di aver scoperto negli archivi la vera versione originaria dell’articolo 18 come la volevano i socialisti: “mi sono andato a rileggere il dibattito del 1968, 1969, 1970, e ho scoperto una cosa fondamentale; non c’era la norma sul licenziamento disciplinare e Brodolini disse a Gino Giugni: mi raccomando, noi dobbiamo fare una norma per tutelare i lavoratori, e non per tutelare i lavativi”, ma poi l’articolo 18 fu formulato diversamente, per “colpa” della mediazione col Pci.
La conclusione fa fare a Pizzolante la pace con se stesso: il “vero” articolo 18 anti-lavativi come lo volevano i socialisti, sarebbe quello riformato dal governo Renzi 46 anni dopo.
Nella dichiarazione di voto del 6 aprile, non sono mancati i complimenti del deputato all’indirizzo del governo da lui sostenuto. Esempio: “E come non vedere che, grazie al Jobs Act, noi oggi abbiamo recuperato una quantità enorme di lavoro a tempo indeterminato. Prima del Jobs Act soltanto il 17 per cento degli assunti erano a tempo indeterminato; oggi ci avviciniamo al 40 o 50 per cento”.
Noi non abbiamo gli strumenti per verificare questa cosa del “40 o 50 per cento”, d’altra parte fra 40 e 50 c’è la differenza – non da poco – di un 10%.
Registriamo solo quello che dice l’Istat nei suoi rapporti ufficiali.
Nel quarto trimestre 2014, prima dell’entrata in vigore del Jobs Act, in Italia il totale degli occupati era 22.375 migliaia di unità (di cui 14.526 dipendenti permanenti, 2.332 dipendenti a termine, 5.517 indipendenti).
In aprile 2017, gli occupati sono 22.928 migliaia di unità (di cui 15.003 dipendenti permanenti, 2.609 dipendenti a termine, 5.386 indipendenti).
Quindi, rispetto all’epoca pre-Jobs Act, il saldo positivo dei dipendenti a tempo indeterminato è “solo” di 477mila persone. Quanto sia merito dell’efficacia della legge, e quanto invece della tendenza economica generale, è da stabilire. Ma non metteremmo la mano sul fuoco giurando su “una quantità enorme di lavoro a tempo indeterminato”.

COMMENTI

DISQUS: 0