I nostri lettori dovrebbero ormai sapere che i primi viaggiatori, seguiti dai primi turisti che venivano a Rimini – tra la fine del Settecento, lungo tutto l’Ottocento, e i primi decenni del Novecento – erano al corrente che avrebbero trovato, oltre alle vestigia romane (Ponte e Arco di Augusto), oltre alle memorie malatestiane (il luogo dell’assassinio di Paolo e Francesca, lo splendido Tempio e il mutilato e malridotto castello), una cittadina non ancora del tutto marina, ma semi-marina, collegata com’era e com’è da un canale che funge da porto per la sua flotta di pescherecci. Sapevano inoltre che questo porto era famoso per essere stato la scena del sermone di Sant’Antonio ai pesci. Il viaggiatore, oltre al ricordo del miracolo della mula avrebbe trovato e trova, a memoria del luogo ove si svolse, il tempietto a forma ottagonale di scuola bramantesca, costruito nel 1518 e riedificato poco dopo il terremoto del 1672. Non trova più, invece, l’Oratorio di Sant’Antonio. E, a breve, anche il ponte di Tiberio non sarà più quello noto da 70 generazioni.
Onde essendo una volta sant’Antonio a Rimini ove era grande moltitudine di eretici volendoli ridurre al lume della vera fede e alla via della virtude per molti dì predicò loro e disputò della fede di Cristo e della santa Scrittura ma eglino, non solamente non acconsentendo alli suoi santi parlari, ma eziandio, come indurati e ostinati, non volendolo udire, sant’Antonio uno dì per divina ispirazione se ne andò alla riva del fiume, allato al mare; e standosi così alla riva tra ’l mare e ’l fiume, cominciò a dire a modo di predica dalla parte di Dio alli pesci: Udite la parola di Dio, voi pesci del mare e del fiume, dappoichè gli infedeli eretici la schifano d’udire.
(Fioretti di San Francesco, Capitolo XL)
Come un soffio di vento così passa la gloria del mondo. Sic transit gloria mundi, l’inutile avviso che si dà al nuovo pontefice durante il suo insediamento, bruciandogli innanzi la stoppa, sarà anche un cliché, ma è anche una sentenza che contiene una grande verità. L’impermanenza o la transitorietà di ogni elemento dell’esistenza è una costante in tutte le tradizioni, sia orientali sia occidentali.
A questo pensavo, l’ultimo fine-settimana, mentre si teneva l’undicesima edizione della Festa di Sant’Antonio, nata per iniziativa dell’Associazione Ponte dei Miracoli per valorizzare il luogo della predica ai pesci.
I nostri lettori dovrebbero ormai sapere che i primi viaggiatori, seguiti dai primi turisti che venivano a Rimini – tra la fine del Settecento, lungo tutto l’Ottocento, e i primi decenni del Novecento – erano al corrente che avrebbero trovato, oltre alle vestigia romane (Ponte e Arco di Augusto), oltre alle memorie malatestiane (il luogo dell’assassinio di Paolo e Francesca, lo splendido Tempio e il mutilato e malridotto castello), una cittadina non ancora del tutto marina, ma semi-marina, collegata com’era e com’è da un canale che funge da porto per la sua flotta di pescherecci. Sapevano inoltre che questo porto era famoso per essere stato la scena del sermone di Sant’Antonio ai pesci.
Lo avevano appreso dai Fioretti di san Francesco, un meraviglioso e impareggiabile florilegio di 53 brevi capitoli in cui sono raccolti «miracoli ed esempli devoti» del Poverello di Assisi e dei suoi primi compagni, tra cui Sant’Antonio da Padova. Volgarizzati nell’ultimo quarto del Trecento da un ignoto toscano, che li aveva tratti dagli Actus beati Francisci et sociorum eius composti forse da Ugolino da Montegiorgio tra il 1327 e il 1340, i Fioretti per tutti i secoli successivi furono un libro sempre popolare, tradotto in tutte le lingue più importanti e riedito continuamente. Insomma, un best-seller per secoli.
Il miracolo del sermone ai pesci, avvenuto intorno al 1222, tra i più pittoreschi e suggestivi, non è ricordato solo negli Actus e nei Fioretti, ma è anche riportato nella Leggenda Fiorentina di Sant’Antonio (manoscritto del 1280 circa), nella Vita Beati Antonii del frate minore limosino Jean Rigauld, nel Liber miraculorum di Arnaldo da Serrano (seconda metà del Trecento), e in altri testi manoscritti e stampati posteriori di agiografi e storici antoniani e francescani
Il viaggiatore, oltre al ricordo del miracolo della mula avrebbe trovato e trova, a memoria del luogo ove si svolse, il tempietto a forma ottagonale di scuola bramantesca, costruito nel 1518 e riedificato poco dopo il terremoto del 1672.
Non troverà più, invece, l’Oratorio di Sant’Antonio, una chiesetta sul Marecchia «in forma piramidale ad otto fazze» edificata nel 1569 a memoria del luogo dove la tradizione voleva si fosse tenuta la predica ai pesci e che aveva reso famosa la missione di Sant’Antonio da Padova nell’eretica e miscredente Rimini. Un viaggiatore e archeologo settecentesco, il tedesco Johann Georg Keyssler (1693-1743) membro della Royal Society di Londra, nei suoi Neueste Reise durch Teütschland, Böhmen, Ungarn, die Schweitz, Italien und Lothringen (1741) la ricorda, poco distante dal Faro a mezzo miglio dal mare circondata da giardini. Ma, prima ancora della costruzione del faro di Rimini completato nel 1754, fungeva da faro una lanterna posta proprio in cima alla Cappella di Sant’Antonio. Cesare Clementini, lo storico riminese del Seicento, nel suo Raccolto istorico della fondatione di Rimino e dell’origine e vite de’ Malatesti ci dà notizia che la lanterna era «per guida de’ Naviganti e sicurezza nell’oscurità della notte e nella tempesta del mare».
Il bibliotecario della Gambalunghiana Luigi Tonini ci informa nella sua Guida del forestiere nella città di Rimini (1864) che la chiesetta fu ricostruita nel 1776, poco lontano da quella più antica «posta a ricordazione del prodigio operato dal Taumarurgo», su disegno del riminese Domenico Bazzocchi Pomposi, e in posizione più arretrata ed elevata, perché la precedente era divenuta troppo vicina alle acque ed era spesso devastata ed invasa dal fango durante le frequenti fiumane del Marecchia. Questa cappella lungo il porto-canale è menzionata nelle guide turistiche, dai Voyages historiques, litteraires et artistiques en Italie (1838) di M. Valery all’A hand-book for travellers in central Italy: including the Papal states (1850) di Octavian Blewitt fino al Motoring in Italy (1928) di Richard Regis Gordon-Barrett, passando per tutte le edizioni delle note guide Baedeker (1865 ecc.). Rovinata sia dal bombardamento marino austriaco del 1915 sia dal terremoto del 1916, rabberciata come meglio si poteva nel 1919, rifatta e abbellita nel 1931 e scomparsa definitivamente prima per i bombardamenti del 21 gennaio 1944 poi con l’essere rasa al suolo dai tedeschi per migliorare la visibilità della costa, oggi su quel luogo sorge uno dei tanti anonimi palazzoni. Si preferì nel dopoguerra destinare il denaro dei rimborsi bellici per la costruzione di una chiesa a Riccione. Sorte ben diversa da quella che con maggior fortuna toccò al più famoso Tempio Malatestiano, anch’esso gravemente danneggiato dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, grazie ai 65.000 dollari della Samuel H. Kress Foundation.
Da questa passeggiata in una Rimini d’altri tempi, torna alla mente ciò che si esponeva all’inizio. Una verità dottrinale esposta in evidenza nel Commento al Sogno di Scipione di Macrobio (vedine la nostra edizione critica: Bompiani Il pensiero occidentale, Milano 2007), testo ben conosciuto è molto amato da Sigismondo Pandolfo Malatesta e dalla sua cerchia: non modo non aeternam sed ne diuturnam quidem gloriam adsequi possumus. «Non siamo in grado di conseguire una gloria non dico eterna, ma neppure duratura».
Per secoli la chiesetta dedicata a Sant’Antonio, frequentata soprattutto da marinai, fu anche punto di attrazione per visitatori e turisti. Negli stessi luoghi oggi è tempo di Molo Street Parade – DJ Set e Sardoncino, «l’evento più atteso dell’estate», ci raccontano. Durerà secoli, come il ricordo della predica di Sant’Antonio? o, come è facile indovinare, ancora solo qualche anno? Tutto va più veloce, come più rapidamente cadono i grani di sabbia nella strozzatura della clessidra, segnando la fine di un ciclo e l’inizio di un altro.
Un credente dirà che sono i segni di una sempre più progressiva e devastante secolarizzazione, un surrogato puramente umano e materiale – si potrebbe dire animale –, per masse stordite, dei veri riti religiosi di un tempo. Nella mia visione metafisica e olimpica, non incompatibile con quella religiosa, tutto questo è anche la caricatura e la parodia di ciò che gli Antichi chiamavano kalokagathìa, la marcia discendente del cambiamento dei tempi.
Per alcuni le mie considerazioni resteranno oscure e incomprensibili o saranno liquidate come quelle di un oppositore immobilista. Contro questo elogio del fare – dove, per suggestionati e suggestionabili, non importa il «saper fare» o il «fare bene», quanto, a ben riflettere, solo l’attivismo in sé che è caos e sovversione oltre che caricatura del bello – ben poco ci è consentito, perché ciò che diciamo è del tutto estraneo a ciò che a tali banditori è stato inculcato e deve restare lettera morta.
Cercherò di fare un esempio di queste contraffazioni, di questi travestimenti del fare bene e del fare bello. Non dovrebbe sfuggire agli osservatori più perspicaci, poiché parte da una rappresentazione iconografica della predica ai pesci, che, nel raffronto, dà conto dell’elemento grottesco esistente in questo bestiale attivismo. Elemento grottesco, insito in ogni artificiosità, dove la qualità è interamente sacrificata alla quantità e in cui la contraffazione è una vera e propria «bellezza alla rovescia», falsa fino all’estremo limite concepibile.
L’esempio è il viaggiatore che si reca a Lisbona, che, imprescindibilmente, visiterà la sua cattedrale, comunemente nota con l’appellativo Sé de Lisboa. Là, vicino alla fonte battesimale dove si vuole sia stato battezzato Sant’Antonio, avrà la visione, nella cappella battesimale, di un pannello di azulejos azzurri e bianchi del Settecento che ritrae il miracolo del sermone di Sant’Antonio ai pesci. Sullo sfondo della composizione vedrà una panoramica del ponte di Tiberio, curiosamente rappresentato con tre arcate al posto delle cinque effettive. L’ipotetico viaggiatore, se tra qualche mese, dovesse recarsi a Rimini non si aspetti di trovare niente di simile. Come ha detto in modo salace l’amico Davide Cardone lo troverà invece «ridotto come il ponte di coperta di una nave Costa Crociere».
Chi dovrebbe essere preposto alla tutela del bello (senza giri di parole la Soprintendenza) scrive che tutto questo «ha l’ambizione … di riqualificare quella parte della città di Rimini, attualmente non molto utilizzata dai residenti e dai visitatori». Ecco come la quantità diventa criterio della qualità, come l’orientamento verso uno scopo commerciale e turistico, l’utilità pratica, sia il fine reale. E prosegue: «un insieme organico di passerelle, sia aeree che galleggianti, caratterizzerà la comunicazione pedonale tra la destra e la sinistra del porto canale. L’intervento ha la delicatezza di introdurre un semplice linguaggio architettonico costituito da elementi naturali come il ferro e il legno, che andranno a coniugarsi armonicamente con il fantastico scenario di questo scorcio della città». Ecco come un violento guazzabuglio di stili d’accatto e di materiali che nulla hanno a che fare con l’architettura vitruviana e la pietra d’Istria del ponte, nella manipolazione delle parole (il verbalismo: altro segno dei nostri bui e insani tempi), diventano pretese «delicatezza» e «armonia».
Per 70 generazioni (tre-quattro per secolo) i riminesi, per motivi sacrali e civili, hanno rispettato il ponte, mantenendone la tradizione, mentre solo questa, l’ultima, ha intrapreso a rovinare questo unico e bimillenario patrimonio collettivo, come se fosse uno zero qualunque da cui partire e su cui poter tutto fare, inaugurando abusivamente l’era del deforme.
Con preoccupante attitudine apologetica mi si dice che i tempi passano, le cose cambiano e si evolvono. Ne sono consapevole anch’io. Ma non mi si dica, con più fanatico e suggestionato entusiasmo che non con vero discernimento, che sono contrario all’evoluzione. Se con essa si intende crescita e sviluppo, nel trascorrere del tempo, come nelle stagioni, mi sarà consentito provare ripugnanza per l’involuzione, la decadenza, l’inverno, il grado di abbassamento, la mancanza d’intelligenza e il losco clima a cui si sta giungendo e presentire il punto critico della china cui sarebbe meglio arrestarsi finché si è in tempo.
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